'Di fronte alle prime esortazioni della Chiesa a rinnovarci'. L'evoluzione istituzionale del monachesimo italiano
Se si volesse tracciare un bilancio della storiografia monastica italiana relativa al periodo che va dall’Unità nazionale a oggi, non potremmo che fare i conti con una bibliografia quantitativamente ridotta ed eterogenea, che lascia ancora molte questioni ai margini della ricerca1.
Dalla relativa scarsità dei lavori prodotti, si può affermare che il monachesimo contemporaneo non ha attratto l’attenzione degli storici ecclesiastici. Le ragioni di questa disaffezione sono varie, a cominciare dalla vicinanza cronologica e dalla conseguente frammentaria disponibilità di materiale archivistico che impedisce delle ricerche approfondite. Anche la storiografia religiosa poco si cura delle vicende del monachesimo, che in epoca contemporanea non appaiono più un fattore determinante nella storia della Chiesa e dell’Europa com’è accaduto in altre epoche. Ancora nell’anno 2000, nella relazione di apertura a un convegno dedicato alla storiografia monastica europea, Gregorio Penco asseriva che nell’epoca contemporanea il filone monastico appare d’importanza secondaria, trascurato quasi del tutto anche dagli specialisti2. A conferma di quanto aveva affermato otto anni prima durante un convegno del Centro storico benedettino italiano:
«Va subito rilevato quello che è uno dei caratteri fondamentali della vita monastica nell’età contemporanea in confronto di quella di altre epoche, e cioè l’essere diventata (dal punto di vista esterno) una componente piuttosto secondaria della vita della Chiesa al punto che la sua può essere definita una sorta di microstoria, limitata per lo più all’interno delle vicende domestiche»3.
Un analogo disinteresse si registra anche tra gli studiosi di sociologia religiosa: il fenomeno è considerato quantitativamente limitato e non esaminabile in base ai criteri ordinariamente usati4. Tuttavia negli ultimi anni sono comparse alcune indagini sociologiche riguardanti le nuove forme di vita monastica e la presenza eremitica in Italia che offrono a questo proposito un primo materiale di studio5.
Ma è necessario registrare un calo di interesse nei confronti della propria storia anche all’interno delle congregazioni monastiche, a differenza di quanto avveniva agli inizi del Novecento. Anche in questo ambito, però, si assiste negli ultimi anni a una nuova inversione di tendenza, prodotta forse dalla consapevolezza del profondo declino che investe queste istituzioni, che si affianca agli studi di cultori di storia locale ai quali era ormai demandata la materia.
Ne deriva che molti temi, specie quelli più generali, di intersezione tra il mondo monastico e il resto della società rischiano di rimanere un po’ in ombra, perché ancora non sono stati oggetto di un’indagine approfondita. In molti casi si può usufruire solo di opere riguardanti specifici monasteri6 o di biografie relative a singoli personaggi7 o a serie di abati8, spesso però condotte con criteri più agiografici che storico-scientifici, o dell’edizione di opere appartenenti alla memorialistica9. Osservava ancora Penco che quasi nulla è comparso «per ciò che riguarda la periodizzazione, la cultura monastica, la letteratura, l’arte, la spiritualità, ossia proprio quel tessuto connettivo che unisce ambienti e movimenti al di là delle diverse epoche e appartenenze geografiche e istituzionali»10.
Anche riguardo a un argomento specifico come la Prima guerra mondiale, malgrado una vastissima bibliografia in cui sono presenti alcuni studi che trattano della posizione assunta dal clero e alcuni altri relativi ai cappellani militari e ai cosiddetti preti-soldati, sono invece carenti se non completamente assenti studi specifici sulle congregazioni religiose.
Come ci ha abituati la storiografia recente, è spesso molto significativo vagliare attentamente un particolare che fa parte di un più vasto sistema per vedervi riflesso – come in un microcosmo – l’intero orizzonte entro cui esso si colloca. Un simile sguardo non risulta estraneo agli interessi attuali della storiografia
«verso la contemporaneità o, addirittura, verso la storia attuale e immediata, aiutando a cogliere meglio i rapporti tra passato prossimo e presente e riproponendo, quasi in maniera palpabile, la possibilità di una verifica di concetti storiografici come “continuità”, “crisi”, “rinascita”, “riforma”, “restaurazione”, “vecchio” e “nuovo” monachesimo che così frequentemente sono applicati ai diversi periodi della storia medioevale»11.
Estremamente scarso appare il numero delle opere di sintesi riguardanti la storia degli ordini o delle singole congregazioni presenti in Italia. «D’altronde non si può fare a meno di rilevare come la storiografia monastica sia per sua natura storiografia di singoli monasteri, anche se ciò fa molta fatica a essere recepito […] e questo comporta di per sé un’inevitabile frammentazione del discorso»12. Per una visione generale occorre rifarsi ancora al secondo volume della Storia del monachesimo in Italia di Gregorio Penco, che risale però al 196813, la cui lettura può essere integrata dagli atti del già citato terzo convegno di studi storici sull’Italia benedettina14. Solo per la congregazione sublacense, facilitata dal fatto di essere l’ultima nata, esiste un’opera di sintesi che copre buona parte del segmento temporale oggetto di questo studio15.
In questa situazione, oltre che a singole monografie, occorre riferirsi agli articoli apparsi in diverse riviste, in particolare sulla «Rivista storica benedettina» (1906-1926) e dal 1947 su «Benedictina».
I centocinquanta anni che vanno dall’unificazione politica italiana al tempo presente hanno registrato rivolgimenti così ampi e profondi da porre la vita dei cattolici italiani in condizioni completamente nuove, interessando anche la vita religiosa.
Per quanto concerne più direttamente l’unificazione politica, il Regno d’Italia tentò di laicizzare strutture e istituzioni di un paese ancora sostanzialmente cattolico. La promulgazione della legge 7 luglio 1866 n. 3036, con cui fu negato il riconoscimento, e quindi la capacità patrimoniale, a ordini, corporazioni e congregazioni religiose, è espressione di questo indirizzo politico. Con la successiva legge 15 agosto 1867 n. 3848 venne messo in liquidazione l’asse ecclesiastico. I provvedimenti eversivi del nuovo Regno apparivano in logica continuità con quanto era stato precedentemente posto in essere nel Regno di Sardegna con le leggi Siccardi, in particolare con la legge 29 maggio 1855 n. 878, che aveva abolito tutti gli ordini religiosi considerati privi di utilità sociale. Dopo la presa di Roma, si estendeva anche alla provincia romana la soppressione con la legge 19 giugno 1873 n. 140216. Le ripercussioni sul mondo monastico non tardarono a farsi sentire man mano che le leggi venivano applicate; dopo l’esecuzione degli espropri i religiosi furono costretti a lasciare le loro case e si dispersero17.
Il mondo monastico italiano, diversamente dagli altri paesi europei, si presentava assai composito. La storia peculiare della vita religiosa in Italia aveva favorito il sorgere, nel primo e tardo Medioevo, di congregazioni monastiche benedettine vissute per secoli come veri e propri ordines autonomi, aventi organizzazione e struttura propria, che in parte ancora sussistevano (Camaldolesi, Vallombrosani, Silvestrini, Olivetani). I Benedettini costituivano un mondo tutt’altro che unificato dall’osservanza di un’unica regola: riforme, aggregazioni e successive scomposizioni lo avevano assai articolato. Accanto a loro si ponevano inoltre altre tradizioni monastiche, come quella certosina e quella basiliana presente nel Meridione e in Sicilia, dove la soppressione degli ordini religiosi «colpì naturalmente anche il centinaio di basiliani che ancora vegetavano nei monasteri dell’isola»18. Questa pluralità di osservanze, segno di un’antica vivacità spirituale, rappresentava però a quel punto un fattore di debolezza per l’istituzione monastica.
Tra i monaci costretti ad abbandonare le loro case, qualcuno trovò accoglienza presso parroci benevoli, alcuni riuscirono a collocarsi come precettori in case private, direttori spirituali di collegi o – se fratelli conversi – come sacrestani. Molti dovettero fare ritorno, dopo diversi decenni trascorsi lontano, alle proprie famiglie d’origine19. Solo a pochi religiosi fu consentito di rimanere negli edifici demaniati come custodi, ma con il divieto di portare l’abito regolare, potendo indossare solo quello del clero secolare. Particolare rivelatore di come l’abito dei religiosi fosse anche per la società civile mezzo di identificazione e definisse un’identità che ora si voleva misconoscere. A nulla servirono gli occultamenti di oggetti preziosi e libri o la fittizia stipula di contratti di vendita di parte delle proprietà, per tentare di salvare il patrimonio delle comunità: tali tentativi suscitarono solo l’intervento delle autorità italiane, liti e vertenze in tribunale. Anche la situazione economica delle congregazioni era seriamente compromessa.
Ogni volta che potevano, i superiori cercavano di mantenere uniti i religiosi in case ottenute in uso da privati benefattori, e quando questo non era possibile tentavano di restare almeno in contatto epistolare con i dispersi. Venute a mancare le proprietà che avevano garantito la sussistenza delle comunità, il problema economico apparve come uno dei maggiori già nel periodo, relativamente breve, della dispersione. Le piccole pensioni assegnate dallo Stato ai religiosi non permettevano, da sole, la ricostituzione della vita comunitaria. Quando si presentava la possibilità di ottenere da un vescovo la titolarità di una parrocchia o di rientrare negli edifici espropriati si tentava di ricostituire de facto le comunità. Molti religiosi, però, non risposero all’invito dei superiori, chi a causa dell’età e della salute, chi perché abituato a un regime disciplinare meno rigido, chi a causa di impegni assunti nel frattempo nei confronti di familiari o terzi. Nonostante gli sforzi per migliorare la grave condizione economica in cui versavano gli istituti, raramente si poté raggiungere una situazione soddisfacente. Spesso non esistevano i presupposti materiali per accogliere le nuove vocazioni e i noviziati erano per questo riaperti a numero chiuso. Non sempre le nuove comunità potevano offrire la piena osservanza della regola, a causa del numero ridotto dei religiosi disposti a impegnarsi seriamente e degli spazi non sufficienti, problemi che almeno per due decenni condizionarono la formazione dei candidati.
Diversamente da altri paesi europei, che vedevano nell’Ottocento un’importante rinascita del monachesimo benedettino, in Italia l’imperativo della sopravvivenza è la nota che pare contraddistinguere maggiormente le cosiddette congregazioni storiche benedettine. Tutte queste famiglie monastiche compivano notevoli sforzi per non scomparire20.
Oltre a questa difficile condizione di sussistenza, che caratterizza le comunità benedettine in questo periodo, si era intanto avviato un tentativo riformistico tra i Cassinesi.
Verso la metà dell’Ottocento, infatti, nell’ambito della congregazione cassinese aveva preso avvio, per opera di don Pier Francesco Casaretto21, un movimento di riforma sostenuto dal papa benedettino camaldolese Gregorio XVI e da Pio IX, che giunse in breve tempo a rendersi autonomo. Questo ramo assunse in principio la forma di provincia autonoma (1851) con un visitatore nominato dalla Santa Sede tra i propri monaci, ma in seguito divenne una vera e propria congregazione alla pari delle altre22. Forti resistenze incontrò la riforma nell’ex Regno delle Due Sicilie, dove i monasteri erano strettamente legati al potere nobiliare e la loro influenza è riscontrabile anche dall’alto numero di abati divenuti vescovi nell’Ottocento23. Secondo Penco questo movimento riformistico
«rappresentava uno sforzo per rispondere mediante un rinsaldamento disciplinare agli inconvenienti causati da uomini e tempi, anche se tale sforzo aveva dovuto pagare il prezzo ben alto della rottura dell’unità monastica italiana ottenuta con tanta fatica quattro secoli innanzi dai padri della congregazione de Unitate»24.
Il monachesimo italiano si presentava non solo come una sorta di arcipelago composito e variegato, dotato di un numero di congregazioni e di case elevato e non più corrispondente alle reali possibilità del mondo religioso italiano, ma anche incapace di una riflessione adeguata alla nuova situazione25.
Le comunità monastiche rientrano nel novero delle organizzazioni che maggiormente subirono i nuovi ordinamenti unitari; malgrado questo, riuscirono a conservare la loro identità e a mantenere una continuità, trovandosi infine, a differenza di altre istituzioni, in posizioni nuove ma per certi aspetti non troppo differenti da quelle di metà Ottocento, tanto da potersi affermare che l’offensiva dello stato liberale «è terminata con il successo degli ordini religiosi»26.
All’inizio del 1872, prima della soppressione dei monasteri in Roma, la congregazione olivetana poteva contare meno di dieci case: cinque in Italia, tre in Francia. Solo cento anni prima se ne annoveravano sessanta. La situazione assai precaria in cui versavano gli Olivetani non era dipesa unicamente dalle soppressioni statali, ma anche dalla grave crisi interna che la attraversava già dopo gli anni della Restaurazione e che aveva provocato nel 1828 seri provvedimenti in seguito all’inchiesta voluta da papa Leone XII, fino a giungere alla chiusura dei monasteri olivetani decretata da Gregorio XVI nel 183127. Nel 1870 la Santa Sede era intervenuta di nuovo, nominando direttamente i superiori della congregazione: don Placido Schiaffino con il titolo di abate vicario generale e i suoi consiglieri, tre dei quali avevano ricevuto la loro formazione a S. Girolamo di Quarto, l’unico monastero olivetano ritenuto osservante. Una precisa scelta della Santa Sede che permetteva di ridare vigore all’istituto.
Nei difficili anni che precedettero e seguirono l’unificazione del paese, si distinse per i suoi tentativi di giungere a una conciliazione fra lo Stato e la Chiesa il colto abate cassinese Luigi Tosti. Inizialmente fautore del programma neoguelfo di Gioberti, nel 1849, egli provò a convincere Pio IX a rinunziare al potere temporale. L’abate Tosti avviò contatti per giungere alla conciliazione fin dal 1861. Il più clamoroso tentativo risultò quello del 1887, con la pubblicazione dell’opuscolo La Conciliazione; ma dopo il suo fallimento lo scritto fu sconfessato dalla Santa Sede e il Tosti si sottomise. Ancora nel 1890 egli teorizzava l’alleanza del Vaticano con il Regno d’Italia sotto gli auspici degli Imperi centrali28.
Nonostante le difficoltà in cui versavano tutte le comunità sparse per la penisola a causa delle continue vessazioni e soppressioni subite lungo il corso dell’Ottocento, diverse congregazioni monastiche trovarono le energie per espandersi oltre i nuovi confini nazionali. Significativo il caso della comunità romana di S. Paolo fuori le Mura, che avrebbe dato origine ad alcune nuove congregazioni benedettine29.
Già nel 1837 Prospero Guéranger30, neoprofesso a S. Paolo, dopo appena sei mesi di permanenza in comunità e con l’approvazione di Gregorio XVI, lasciava Roma come abate e fondatore della comunità di Solesmes, che doveva dare l’avvio a una nuova congregazione in Francia31. Le due comunità mantennero relazioni fraterne anche dopo la morte di Guéranger.
Legami ancora più intensi si stabilirono con la congregazione benedettina che nasceva per impulso dei fratelli Mauro e Placido Wolter, i quali nel 1853, al tempo dell’abate Simplicio Pappalettere, erano giunti nel monastero romano insieme ad altri due giovani prussiani, Anselmo Nickes e Bonifacio Oslaender.
I fratelli Wolter emisero la loro professione il 15 novembre 1857 e lasciarono Roma il 30 settembre 1860 per fondare Beuron. In segno di unione spirituale, Mauro Wolter ricevette la benedizione abbaziale il 20 settembre 1868 nella basilica ostiense. Gli abati di S. Paolo accompagnarono gli sviluppi della congregazione nascente con lettere e scambi di visite; in particolare veniva seguita passo passo la fondazione di Maredsous (Belgio), di cui fu primo abate don Placido32.
L’abbazia romana si adoperò molto anche per la rinascita del monachesimo benedettino in Brasile e in Portogallo. Nel 1870 vennero ospitati per compiere l’intera formazione tre postulanti brasiliani che a causa delle leggi statali non potevano essere accolti dall’ abbazia di Nostra Signora di Monserrato di Rio de Janeiro. Divenuti sacerdoti al termine di sette anni, permanendo l’impossibilità di rientrare in Brasile, si pensò di inviarli in Portogallo, dove nell’attesa s’insediava una piccola comunità, che nel 1876 veniva eretta canonicamente dall’abate di S. Paolo come monastero di S. Martino di Cucujaes. La nuova fondazione si unì alla congregazione beuronese in attesa di poter ridare vita alla soppressa congregazione lusitana; ma nel 1910 i monaci furono nuovamente espulsi dal Portogallo. Successivamente uno di questi tre sarebbe divenuto abate generale della congregazione brasiliana.
Di fronte al timore e poi alle difficoltà create dalle leggi eversive, molte comunità e congregazioni intravidero l’utilità di fondazioni all’estero. Il paese maggiormente preso in considerazione a questo scopo fu la Francia, anche per la formazione dei candidati che non potevano essere accolti in Italia. Gli Olivetani, in poco più di un quindicennio (1853-1870), aprirono quattro case, ma solo una quinta, di cui già sotto il generalato di don Giovanni Schiaffino si erano iniziate le trattative per la fondazione, poté poi sopravvivere33.
Grazie all’opera di don Placido Schiaffino e di don Camillo Seriolo, la congregazione riprese vigore e le fondazioni a partire dal 1876 si andarono velocemente moltiplicando34. Solo in cinque casi si riaprirono antichi monasteri35; tutti gli altri sorgevano ex novo.
«Settignano, Camogli, Seregno tre nuovi monasteri […] privi delle caratteristiche del tradizionale edificio monastico, con un numero esiguo di monaci e con pochi mezzi di sussistenza sono all’origine di quella che ormai è giustamente considerata la rinascita della Congregazione di Monte Oliveto a fine Ottocento»36.
L’abbazia di S. Paolo e la congregazione cassinese, soprattutto grazie alla sensibilità di alcuni abati e al contributo del collegio interno di S. Anselmo, svolsero «un ruolo di capitale importanza nel mantenere viva l’idea e nel far progredire il movimento dell’unione dei monasteri e delle congregazioni verso la confederazione [benedettina]»37 che fu approvata da Leone XIII nel 1893. Per il raggiungimento di questo risultato si prodigò il cardinale arcivescovo di Catania Giuseppe Benedetto Dusmet, già professo di S. Martino delle Scale, di cui Leone XIII si era servito per la realizzazione del progetto di rinascita del collegio di S. Anselmo38. La partecipazione italiana alla confederazione si limitò ai Cassinesi e ai Sublacensi fino agli anni Sessanta del Novecento, quando con gli Olivetani cominciarono ad avvicinarsi le congregazioni ‘storiche’ o ‘bianche’.
La situazione critica in cui versavano i monaci cenobiti camaldolesi era a conoscenza dell’arcivescovo di Perugia, cardinale Vincenzo Gioacchino Pecci, che, divenuto papa Leone XIII nel 1878, tra i primi provvedimenti adottati nominò un visitatore apostolico per la loro congregazione39. Nel corso della visita apostolica, che durò fino al 1881, si evidenziava lo stato molto precario in cui si dibatteva l’istituto, anche a causa dell’inettitudine e dei dissidi esistenti tra i superiori. Un momento estremamente critico si verificò durante il processo di elezione dei nuovi superiori maggiori, confermati dalla Santa Sede nel settembre 1879. La visita portava però ad alcuni effetti positivi: tra questi, la decisione di aprire un monastero di osservanza con il noviziato – chiuso ormai da un ventennio – a Sant’Ippolito di Faenza e l’invito rivolto nel 1880 a tutti i monaci ancora dispersi a rientrare in comunità.
In questi stessi anni si ebbero da parte dei cenobiti camaldolesi alcuni tentativi di espansione in Francia, uno in risposta alla richiesta di alcuni sacerdoti desiderosi di rinnovare il monachesimo celestino e di essere aggregati alla loro congregazione, l’altro al fine di dimostrare che l’istituto possedeva case fuori dall’Italia, per poter conservare in S. Gregorio al Celio, dopo la soppressione statale, la residenza dell’abate generale. Nel registro delle professioni di Fonte Avellana le annotazioni passano dall’anno 1865 all’anno 1881; questa prolungata mancanza di ingressi induceva ad accogliere sacerdoti provenienti da altre congregazioni o appartenenti al clero diocesano40. La situazione iniziò a migliorare nel corso del secondo periodo dell’abbaziato di Alberto Gibelli41, ultimo di una illustre tradizione di eruditi camaldolesi. Egli riuscì a riacquistare il monastero e la tenuta di Fonte Avellana che permisero di dare una sistemazione più conveniente al noviziato della congregazione.
Nel 1872 i Vallombrosani avviarono una loro presenza in Francia, nella Drôme, in una casa colonica da trasformarsi in monastero42. Questo sguardo privilegiato verso la Francia delle piccole congregazioni italiane è riscontrabile ancora dopo la Prima guerra mondiale: nel 1921 i camaldolesi di Toscana fondavano l’eremo di Notre-Dame de Pitié presso Roquebrune, in diocesi di Fréjus43 e già nel 1925 le monache camaldolesi di Poppi, guidate da madre Maria Giovanna Tirelli44, aprivano un monastero a La Seyne-sur-Mer, in diocesi di Tolone. Gli Eremiti camaldolesi di Toscana già nel 1899 avevano aperto Nova Camaldoli, una casa nel sud del Brasile vicino a Caxia do Sul e pochi anni dopo una seconda ad Ana Rech, nella medesima zona45.
I Sublacensi in pochi anni avviarono alcune comunità in Francia: tra queste, l’abbazia di Belloc (1875) che dette vita al monastero Niño Dios a Victoria, in Argentina, nel 1898. I Silvestrini arrivarono nello stato del Kansas (USA) nel 1910, ma – non ricevendo dal vescovo di Wichita il permesso di creare un monastero dopo sedici anni di lavoro pastorale tra i minatori italiani – si trasferirono nel 1928 a Detroit, nel Michigan, e vi fondarono una casa. La loro vicenda, insieme a quella dei cenobiti camaldolesi che negli stessi anni aprirono una parrocchia a Bryan (Galveston, in Texas) dopo aver ricevuto un rifiuto dai vescovi di Filadelfia e di New York, testimonia la ritrosia dei vescovi americani a concedere permessi di questa natura46.
Nel 1892, all’interno del mondo cistercense si consumò la definitiva separazione dei Trappisti, che rappresentavano la stretta osservanza della vita contemplativa, dall’osservanza comune. In Italia erano state ricostituite due comunità trappiste: l’abbazia delle Tre Fontane (1867) e quella delle Frattocchie (1883). La comunità di Casamari, risorta nel 1814, rifiutò la proposta di entrare nell’Ordine trappista e manteneva la propria autonomia con la diretta dipendenza dal romano pontefice insieme ad alcune case affiliate47.
Ci furono monaci, generalmente stranieri, i quali, a causa delle difficoltà a vivere nei chiostri italiani dopo le soppressioni, scelsero di compiere esperienze missionarie. Tra questi i camaldolesi cenobiti Costantino Willebaldo Czock e Taddeo Jakimowicz, divenuti il primo missionario dalla Congregazione di Propaganda Fide e il secondo cappellano degli emigranti polacchi negli USA.
Nello stesso tempo il mondo monastico italiano si arricchì della presenza di monaci esuli dalla Francia48: è il caso, per esempio, di alcuni cistercensi della comune osservanza, dei monaci solesmensi di S. Maria Maddalena di Marsiglia, che si stabilirono prima a Lenno (Como) e poi a Chiari (Brescia), e dei Certosini che – dopo essersi ben ripresi – si videro nuovamente soppressi dal governo. Così la certosa di Farneta (Lucca)49 veniva riaperta per accogliere gli esuli cacciati con forza dalla Grande Chartreuse nel 1903 e divenne per alcuni anni il centro dell’Ordine. Altri certosini fuoriusciti dalla Francia trovarono rifugio nell’antica abbazia della Cervara, presso Santa Margherita Ligure, acquistata dai Somaschi nel 1901, e vi risedettero fino al 1936, quando l’ultimo gruppo poté fare rientro a Mougères. Il ramo femminile dell’Ordine trovò invece rifugio, oltre che in Belgio, in due case italiane, entrambe site in Piemonte: la certosa dei Sacri Cuori a Riva di Pinerolo (1903) e quella di S. Francesco a Giaveno (1904)50.
Dalla Francia giungeva anche suor Maria Teresa Lamar che, con la consorella suor Dosythée, aveva lasciato il monastero parigino delle Benedettine dell’adorazione perpetua nel luglio 1878. Ma sarà suor Maria della Croce51, ritrovatasi priora e maestra nel 1882, ad appena un anno dalla professione, a proseguire l’opera della Lamar e ad avviare i contatti con gli Olivetani e la comunità delle Benedettine dell’adorazione perpetua di Arras. Determinante quanto non privo di tensioni si rivelò il rapporto con la comunità di Arras, che appoggiò la fondazione di Milano52; i legami si deteriorarono a causa delle leggi di soppressione francesi del 1904 che ebbero come ripercussione il trasferimento della comunità da Seregno a Ronco di Ghiffa sul Lago Maggiore53. Qui la comunità, sotto la guida coraggiosa di madre Caterina Lavizzari e dell’olivetano Celestino Colombo, conobbe un’importante espansione propagandosi in Italia a partire dalla Sicilia e dalla Campania, dove avrebbe aggregato monasteri in piena decadenza. Le Benedettine dell’adorazione perpetua con le loro filiazioni contribuirono di fatto alla rinascita della famiglia benedettina femminile italiana54.
Alla fine del 1904, a Praglia, il gruppo dei monaci sublacensi ritornato da Daila cominciava a far rivivere l’abbazia e l’8 febbraio 1905 il capitolo conventuale eleggeva come nuovo abate Beda Cardinale, di 36 anni, maestro dei novizi di S. Giuliano d’Albaro; tra i capitolari si annoverava il giovane suddiacono Emanuele Caronti, in quel periodo studente a Roma55. Un anno dopo Praglia, i Sublacensi poterono riaprire Finalpia e nel 1919 l’abbazia di S. Giustina a Padova. Nel 1915 venne istituita l’abbazia nullius di Subiaco56.
In generale in quegli anni «di fronte all’intensa e svariata operosità del movimento cattolico che proprio tra la fine Ottocento e gli inizi del Novecento metteva in piedi le sue forme associative più efficienti, pareva che fosse giunta finalmente, nella Chiesa, l’ora dei laici e che, quindi, ai monaci toccasse semplicemente riprendere e continuare la propria vita di raccoglimento e di silenzio. Di fatto, nessun monaco appare implicato nell’attività del movimento cattolico di tale periodo»57; questo tuttavia non deve indurre a pensare che non si trovassero monaci impegnati in opere sociali, come il camaldolese Benedetto Piani, superiore e parroco di S. Biagio di Fabriano dal 1894 al 190758.
La Prima guerra mondiale non poté che rappresentare un momento di arresto nella ripresa di quasi tutte le congregazioni monastiche italiane. Dopo l’unità d’Italia, infatti, al clero e ai religiosi non era stata riconosciuta l’esenzione dalla coscrizione obbligatoria neppure in tempo di pace; i cappellani militari invece erano stati gradualmente ridotti di numero, fino a garantirne la presenza solo in alcuni ospedali militari territoriali. Le disposizioni relative alla mobilitazione generale prevedevano l’impiego dei ministri di culto cattolici solo nei reparti sanitari e negli ospedali da campo. Nel periodo di preparazione alla guerra, questa situazione legislativa costituì un problema di non facile soluzione sia per i vertici militari, che erano del tutto favorevoli a una presenza del servizio religioso tra le truppe, sia per i superiori ecclesiastici, timorosi di perdere i loro religiosi e quindi impegnati in tutti i modi nel tentativo di ottenere un’esenzione o un esonero oppure – quando questi non fossero possibili – la migliore sistemazione, che poi risultò essere quella di cappellano militare.
Già prima della dichiarazione ufficiale con la quale l’Italia entrava in guerra, i monaci cominciarono a essere mobilitati. A seconda del corpo di destinazione, la situazione dei religiosi chiamati alle armi appariva diversa: occorre infatti distinguere tra chi riuscì a entrare nel corpo dei cappellani militari e chi invece fu regolarmente arruolato e divenne prete-soldato. Le differenze valevano innanzitutto per chi si trovava a viverle direttamente, ma anche per quanti entravano in rapporto con i religiosi, cioè gli ufficiali e i soldati.
Tra i coscritti, alcuni furono inviati al fronte, altri rimasero nelle retrovie destinati ai reparti sanitari. Anche per chi era restato nei monasteri spesso non era facile proseguire con regolarità la vita comunitaria e lo svolgimento del ministero, sia a causa dei vuoti che si erano venuti a creare59, che per i numerosi edifici requisiti come alloggi per le truppe e ospedali militari. Tra gli altri subirono questa sorte i monasteri di Praglia, Torrechiara, Cannobbio sul Lago Maggiore, S. Nicolò del Boschetto a Genova, S. Maria Nuova di Firenze, S. Croce di Sassoferrato (Ancona).
Gli anni del conflitto rappresentarono un momento di grande difficoltà per il piccolo istituto dei Camaldolesi cenobiti: sedici furono infatti i monaci chiamati alle armi. La crisi traspare chiaramente dagli scritti dell’abate generale Vincenzo Barbarossa, impegnato per lunghi mesi a far fronte alle assenze di chi via via veniva chiamato alle armi e a provvedere alla sistemazione delle comunità espulse dai monasteri requisiti dalle autorità militari. Egli si prodigò nel tentativo di ottenere una buona destinazione per ogni arruolato e per mantenere con tutti un collegamento epistolare. Anche il rientro dei religiosi dal servizio militare e il loro reintegro nella vita regolare dei chiostri, dopo anni tanto traumaticamente diversi, non risultò sempre privo di inconvenienti60.
Al termine del conflitto le comunità di Marienberg (Mals) e Muri-Gries (Bolzano), appartenenti alla Congregazione benedettina elvetica, già trasferitesi nel Sud Tirolo austriaco, vennero a trovarsi in territorio italiano.
Con l’entrata in vigore del codice di diritto canonico (1917), la Santa Sede invitò gli istituti religiosi ad adeguare le loro costituzioni alla nuova normativa generale. I Vallombrosani ricevettero l’approvazione del nuovo testo nel 1922, i Cistercensi delle due distinte osservanze nel 1925, gli Eremiti camaldolesi di Toscana nel 1927, i Silvestrini nel 1931; invece i Cenobiti camaldolesi, dopo aver presentato più redazioni, avrebbero atteso la conclusione dell’iter fino al 1934: un anno prima della loro soppressione definitiva.
Le difficili condizioni del dopoguerra provocarono in Italia forti tensioni, che talvolta assumevano un carattere anticlericale, facendo temere la possibilità di nuove soppressioni. Per questo, nel 1919, dietro suggerimento della Segreteria di Stato vaticana, i Vallombrosani vendettero tutti i beni immobili della congregazione61 e i Camaldolesi cenobiti, nel capitolo generale celebrato quell’anno, non escludevano analoghi provvedimenti per reinvestirne il ricavato e garantirsi da ogni evenienza. Nello stesso capitolo veniva affrontata inoltre l’ipotesi dell’unione delle tre congregazioni camaldolesi, visto il loro calo numerico e dunque la difficoltà della designazione di un gruppo dirigente all’altezza dei gravi problemi del momento. Il tema si ripropose di tanto in tanto anche negli anni successivi, attraverso incontri e trattative guidate dall’abate Ildefonso Schuster di S. Paolo che, nel 1923, venne delegato dalla Santa Sede a seguire l’andamento delle tre congregazioni e a presiederne i capitoli generali.
Gli Eremiti camaldolesi di Toscana erano tra loro divisi sulla sorte della fondazione brasiliana, dato che questa implicava uno stile di vita distante da quello strettamente eremitico; ciò determinò la conclusione di questa esperienza62. Nel 1909 un analogo problema aveva indotto i Trappisti a sciogliere i legami dell’Ordine con la florida comunità di Mariannhill, nel Sud Africa, e a sospendere nel 1925 una fondazione a Westmalle nel Congo Belga63.
Alcuni anni dopo, Schuster – divenuto nel frattempo cardinale arcivescovo di Milano – venne nuovamente interpellato da Pio XI desideroso di giungere all’unione dei Cassinesi con i Sublacensi64. In tutti questi casi, nonostante da molte parti si caldeggiassero le unioni – compreso il cardinale Schuster, che non volle però contrapporre la propria opinione favorevole a quella dei confratelli contrari –, l’opposizione di alcuni e le difficoltà a trovare una comune piattaforma di accordo impedirono che si approdasse a una fusione consensuale. In realtà, sia le vicende dell’Ottocento che quelle del Novecento documentano ampiamente l’impossibilità di costruire soluzioni di questo genere sulla base del semplice accordo dei diretti interessati; solo l’azione di un’autorità superiore esterna permette simili risultati, non sempre ottenuti in modo indolore.
Fu questo il caso, per esempio, della congregazione dei cenobiti camaldolesi, soppressa con la costituzione apostolica Inter religiosos coetus del luglio 1935, presentata come una fusione con quella degli Eremiti di Toscana su proposta del cardinale protettore Raffaello Carlo Rossi e del delegato apostolico Emanuele Caronti, abate di Parma, che ne portarono poi a termine l’attuazione65. Intanto proseguiva la ricerca, avviata da alcuni eremiti di Camaldoli, di un nuovo rapporto con le proprie origini. Un approfondimento reso necessario dalla mutata situazione interna, caratterizzata dalla presenza di un nutrito gruppo di giovani che erano stati reclutati da ragazzi, tramite il collegio di Buonsollazzo, e di quelli che provenivano dalla soppressa congregazione dei cenobiti camaldolesi. Questi monaci si rendevano conto che non era sufficiente l’appello al ritorno alla primitiva – o stretta, o regolare – osservanza, da sempre punto di partenza per una riforma monastica; nella mutata situazione c’era bisogno di una comprensione più ampia delle fonti, per riproporre in modo nuovo la vita camaldolese.
In quegli stessi anni Caronti era impegnato con i progressi della fondazione di S. Maria della Scala a Noci (1930); per gli Olivetani si tratta di un vero periodo di espansione: nel 1919 avevano fondato una casa a Ribeirão Preto in Brasile, nel 1936 a Londra, e nel 1941 facevano ritorno a Bologna. Dopo la riapertura del 1814, l’abbazia di Casamari e le sue dipendenze erano molto affini alla riforma trappista per disciplina interna, ma non avevano voluto far parte dell’unione delle congregazioni cistercensi avvenuta nel 1892, restando autonome e direttamente soggette alla Santa Sede. Risultati inutili numerosi tentativi di formare una congregazione autonoma o di realizzare l’unione con la congregazione di S. Bernardo d’Italia, sempre rigettati dalla Santa Sede, la comunità riuscì finalmente a farsi approvare un testo di costituzioni, divenendo una congregazione affiliata alla comune osservanza (1929)66. Questa nuova famiglia monastica fondò otto case in Italia nel lasso di venti anni67 e – dietro richiesta di Pio XI – fin dal 1930 accolse ragazzi di rito etiopico provenienti dall’Eritrea. Una volta terminata la formazione, questi ritornarono nel loro paese, dove, vicino ad Asmara, in seguito alla conquista italiana, fu fondata nel 1940 una nuova comunità cistercense68.
Gli anni Trenta sono un periodo di grande fermento per il mondo monastico femminile; si realizzano nuove fondazioni e cresce il desiderio di imprimere una svolta alla situazione di povertà spirituale e culturale di molti chiostri69. In quegli anni completano la formazione monastica al monastero di S. Paolo di Sorrento alcune giovani che saranno tra le abbadesse protagoniste del rinnovamento monastico femminile in Italia70.
Nell’aprile 1934, completati i lavori di costruzione, a pochi chilometri da Civitella San Paolo (Roma), giungevano da Dourgne in Francia le prime monache della nuova fondazione voluta fin dal 1925 dall’abate Schuster e realizzata dal suo successore Ildebrando Vannucci, che aveva trovato prezioso aiuto in Maria Cronier71. Dourgne si era resa disponibile a formare presso di sé due giovani italiane e a rimandarle insieme a quattro sue monache per dare inizio alla fondazione. Guidate da madre Andrea Bonnafous avrebbero dovuto rimanere per soli tre anni, si stabilirono invece per sempre a Civitella.
Negli anni Venti proseguiva l’aggregazione di comunità femminili alle Benedettine dell’adorazione perpetua di Ronco di Ghiffa; dopo che queste comunità si erano opportunamente consolidate, riacquistavano la propria autonomia72.
Il 21 ottobre 1936 si può considerare la data di nascita di una nuova comunità monastica benedettina sorta e cresciuta grazie all’opera di madre Margherita Marchi, già suora della Congregazione delle sorelle dei poveri di s. Caterina da Siena73. Ispirata dal direttorio che accompagnava le Costituzioni della sua congregazione, con alcune sorelle maturò una scelta alternativa d’impronta monastica. Aiutata dal sacerdote bolognese monsignor Giulio Belvederi, responsabile del Pontificio istituto di archeologia cristiana, e sostenuta dal vicario di Roma e da monsignor Pasetto della Congregazione dei religiosi, la Marchi con la sua comunità si trasferì nel convento di Montefiolo (Fara Sabina) e nella casa delle Catacombe di Priscilla. Qui nacque la congregazione delle Oblate regolari benedettine di Priscilla, un istituto di diritto diocesano che può essere considerato una prima tappa della realizzazione di ciò a cui si sentiva chiamata la Marchi. La comunità crebbe velocemente, ma emersero presto le divergenze con l’impostazione che monsignor Belvederi intendeva realizzata dall’istituto. La Marchi non volle rinunciare all’indirizzo monastico che andava crescendo, mentre s’intensificava la formazione grazie al contributo dei monaci di S. Girolamo e di Monserrat, esuli dalla Spagna a causa della guerra civile. Dal gennaio del 1938, su invito di monsignor Pasetto, la comunità fu coadiuvata nella ricerca di una forma di vita monastica da padre Emanuele Caronti, abate generale dei Sublacensi e visitatore apostolico delle Benedettine italiane. Sarà lui a seguire lo sviluppo della comunità fino al suo definitivo approdo a Viboldone74, dove nel 1941 furono accolte dal cardinale Schuster75.
Nel giugno 1938 l’abate Caronti veniva incaricato ufficialmente dalla Santa Sede di compiere una visita apostolica nei monasteri delle Benedettine di lingua italiana, compresi quelli della Svizzera, di Malta e della Dalmazia. Il provvedimento della Congregazione dei religiosi era dovuto all’evidente situazione precaria in cui versavano tanti monasteri. A Caronti vennero concesse ampie facoltà di delegare altri benedettini idonei a compiere la visita e prestare assistenza alle monache. L’abate generale dei Sublacensi chiese e ottenne la collaborazione degli abati Fornaroli di Praglia76, Paolazzi di Pontida e Vannucci di S. Paolo fuori le mura. Ma ben presto lo scoppio della Seconda guerra mondiale costrinse a sospendere le visite e a rinviarne la prosecuzione77.
Nel 1940 suor Maria Giovanna Dore, formatasi nella trappa di Grottaferrata dopo una breve esperienza a S. Paolo di Sorrento, inizia la serie delle sue numerose fondazioni a Olzai, in Sardegna78.
Negli anni che vedono il consolidamento del regime fascista le comunità monastiche, prese dai loro problemi interni, vivono ai margini della vita politica e istituzionale del paese, lontane anche dall’incontro o dallo scontro tra Chiesa e fascismo. Anche la scarsità se non l’assenza di documenti appare significativa di un atteggiamento di distacco rispetto ai temi ricorrenti tra i cattolici impegnati in campo sociale e politico. Non si può negare, però, che il regime fascista abbia esercitato il suo fascino e raccolto consensi anche all’interno delle comunità monastiche, come del resto nella Chiesa cattolica italiana, soprattutto grazie agli aspetti più superficiali del nazionalismo: sia la difesa dell’ordine e dell’autorità che la necessità del sacrificio per il raggiungimento di un ideale superiore si coniugavano bene, infatti, con la mentalità monastica dell’epoca. Complessivamente non si riscontrano rapporti frequenti con personalità legate al regime e alcuni di essi sono da ritenersi di natura del tutto istituzionale, dovuti al fatto cioè che i fascisti ricoprivano importanti cariche nella pubblica amministrazione. Generalmente i monaci postulavano una serie di facilitazioni riguardanti la gestione degli edifici da loro abitati che erano stati assorbiti dal demanio in seguito alle soppressioni. È questo il caso dei Camaldolesi sia eremiti di Toscana79 che cenobiti80, i quali, nelle loro richieste, esprimevano il riconoscimento della funzione storica del regime, la restaurazione della pace religiosa e la rimessa in valore della Chiesa nella società italiana. Ovunque, si riscontrano commenti molto positivi al raggiungimento della Conciliazione tra Stato e Chiesa del 1929, giudicata un atto doveroso di giustizia che poneva termine a un lungo e lacerante dissidio. Lunardi, storico della congregazione sublacense, circa i rapporti tra monaci e partito fascista osserva, edulcorante:
«Nel complesso, a differenza di molti Istituti con scuole o altre attività educative, i monasteri sembra non abbiano dovuto subire difficoltà, salvo là dove esistevano gruppi di Scouts e parrocchie con Azione Cattolica. Comunque, non c’è da meravigliarsi che l’atteggiamento dei monaci di fronte al partito non fosse concorde, e che qualcuno di essi, probabilmente per ingenuità, avesse nei suoi riguardi parole di elogio»81.
La Seconda guerra mondiale provocò anche nei monasteri difficoltà, momenti di incertezza e di pericolo, pur essendo i disagi più contenuti rispetto a quelli del precedente conflitto. Una quota minore di case fu infatti requisita o occupata, e grazie alle norme concordatarie un numero inferiore di monaci fu chiamato a svolgere il servizio di cappellano militare82. Alcune comunità femminili dovettero sfollare dal loro monastero83.
Molte comunità si prodigarono in aiuto della popolazione, divenendo rifugio di persone e cose. I primi a essere accolti furono i dissidenti politici e gli ebrei84, poi gli ex prigionieri alleati e i renitenti alla leva. Avvicinandosi il fronte dei combattimenti, i monasteri di campagna e di montagna videro bussare alle loro porte numerose persone, famiglie e intere comunità religiose sfollate85; quelli di città dettero aiuto alla gente che non sapeva dove trovare riparo o un pasto86. Presso alcuni edifici monastici vennero trasferiti, nella speranza di preservarli dai bombardamenti e dallo sciacallaggio, beni storico-artistici di straordinario valore87, o più semplicemente le masserizie messe in salvo dalla popolazione circostante. In alcuni luoghi, infine, trovarono accoglienza persino fascisti e soldati tedeschi in ritirata.
I momenti più difficili si ebbero dopo l’annuncio dell’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre 1943, soprattutto da parte delle comunità che si trovavano sulla linea del fronte. Con la tragica eccezione dei Certosini di Farneta88, generalmente le famiglie monastiche mantennero rapporti rispettosi con i tedeschi, che permisero loro di non subire minacce e oltraggi e di scongiurare la distruzione degli edifici. L’immagine delle macerie di Montecassino, bombardata dall’aviazione alleata, resta una delle terribili icone a perpetua memoria della Seconda guerra mondiale89. Quasi tutte le comunità conservano, fissati nelle loro cronache o in diari scritti dai religiosi, la memoria di episodi in cui si mostra l’impegno profuso a soccorso delle popolazioni e il coraggio manifestato in quei frangenti da alcuni monaci90.
Gli anni che seguirono alla Seconda guerra mondiale appaiono caratterizzati da un notevole fermento nella vita delle comunità monastiche italiane, quasi inaugurati nel 1947 dalle manifestazioni e iniziative culturali intraprese da diversi monasteri in occasione del XIV centenario della morte di s. Benedetto91. Proprio allora, in un momento particolarmente vivace per gli studi di storia ecclesiastica in Italia, a vent’anni dalla cessazione della «Rivista storica benedettina», veniva fondata per volere dell’abate di S. Paolo fuori le mura, monsignor Ildebrando Vannucci92, la rivista «Benedictina», il cui contributo alla storiografia monastica italiana è stato recentemente evidenziato da Gregorio Penco93. Ai Cassinesi va il pieno merito del progetto e degli sforzi necessari per realizzarlo; inizialmente furono infatti tre monaci di Montecassino a sostenere fattivamente l’impresa: Tommaso Leccisotti94 come direttore, Anselmo Lentini e Angelo Pantoni come validi e fedeli collaboratori. Nonostante sia stata pensata sul principio come rivista di ‘studi benedettini’ nel senso più ampio, di fatto essa ospitò da subito pressoché esclusivamente studi storici.
L’abate Ildefonso Rea, raccolta l’eredità del suo predecessore Gregorio Diamare95, scomparso nel settembre del 1945, si prodigava insieme ai suoi monaci esuli nei monasteri romani e di Farfa, Assisi e Perugia nell’opera di ricostruzione di Montecassino. In questo contesto, il ritrovamento dei sepolcri di s. Benedetto e s. Scolastica il 1° agosto del 1950 sotto le macerie dell’altare maggiore della basilica assunse un significato augurale per l’opera intrapresa96.
Anche la vita delle certose d’Italia mostrava segni di cambiamento. Il capitolo generale del 1947 decideva la chiusura delle case di Pavia e Trisulti, mentre veniva rafforzata quella di Farneta; quella di Calci fu invece destinata ad accogliere una comunità di certosini olandesi. Più tardi, nel 1956, toccherà alla certosa del Galluzzo veder partire i suoi monaci a causa delle difficoltà arrecate alla vita regolare dal crescente numero di visitatori e dal calo delle vocazioni. Alla fine degli anni Cinquanta restavano aperte in Italia quattro certose maschili e due femminili, oltre alla procura generale a Roma. Queste scelte sembrano essere state dettate dalla volontà di richiamare le comunità a una più stretta osservanza e alla custodia della tradizione certosina: per cui si rinunciò a mantenere una presenza in quei luoghi che non garantivano una rigida separazione dal mondo esterno97.
I Silvestrini, invece, guidati dall’abate generale Ildebrando Gregori98, per rispondere alle esigenze sociali del paese prostrato dalla guerra e per andare incontro alle necessità materiali della popolazione, decisero di trasformare i loro principali monasteri in rifugi per l’infanzia orfana e abbandonata e ne aprirono anche altri, fiduciosi che anche da questa impresa caritativa avrebbero potuto affluire nuove vocazioni. Così operando però, lo stile di vita che si conduceva nelle case italiane si distanziava da quello dei Silvestrini degli altri paesi99.
Nel 1947 si tenne il congresso degli abati della confederazione benedettina al quale potevano partecipare di diritto tutti i superiori di monasteri sui iuris delle congregazioni confederate. Di fatto, fino al successivo congresso del 1959, il monachesimo italiano era rappresentato solo da una quindicina di abati: quelli della congregazione cassinese e della provincia italiana della congregazione sublacense. In realtà, era iniziato anche un movimento di convergenza delle congregazioni storiche italiane verso la confederazione. L’impedimento maggiore che vi si opponeva era la struttura eccessivamente centralizzata e non basata sulla autonomia delle singole case, essendo i monasteri sui iuris ritenuti comunemente un elemento essenziale della struttura dell’ordo benedettino. Si pensò allora di creare un’associazione che favorisse i rapporti tra le congregazioni confederate e quelle che non lo erano. La Liga monastica raccoglieva sotto la presidenza dell’abate primate gli abati e priori presidenti, che attraverso i loro rapporti poterono chiarire molti punti oggetto di discussione e preparare l’ingresso delle congregazioni benedettine storiche nella confederazione100. In occasione del congresso del 1959, fu la congregazione olivetana a presentare per prima la domanda di entrare nella confederazione, e a esservi accolta101.
Nella Congregazione dei monaci-eremiti camaldolesi, nata nel 1935 dall’annessione dei Cenobiti agli Eremiti di Toscana, era iniziato, dopo il 1941, un processo che avrebbe portato, prima a piccoli passi poi con andatura più sostenuta, allo smantellamento della costruzione creata dall’abate Caronti e dal cardinale Rossi e che essi avevano giustificato in base all’assioma che la vita camaldolese potesse essere solo di tipo eremitico. Lentamente si tornò a valorizzare anche la forma cenobitica. La procedura attivata suscitò però malumori e l’approvazione romana degli statuti nel 1957 non fu sufficiente a rasserenare gli animi e a placare lo scontro. Il metodo autoritario con cui veniva ancora gestita la vita della congregazione da parte del priore generale Anselmo Giabbani, peraltro primo fautore dei mutamenti e desideroso di un aggiornamento della forma comunitaria, impediva di fatto un serio dibattito e quindi contribuì a inasprire ulteriormente gli animi. Gli statuti approvati nel 1957 apparivano ai sostenitori della sola vita eremitica un capovolgimento della struttura spirituale e giuridica tradizionale oltre che in contrasto con la costituzione apostolica Inter religiosos coetus del 1935. Numerosi ricorsi furono inviati alla Congregazione dei religiosi e uno a papa Pio XII, sottoscritto da ventuno eremiti, con la richiesta dell’invio di un nuovo visitatore apostolico. I due partiti continuarono a fronteggiarsi con toni sempre più aspri e anche le vicende legate a un tentativo di secessione della nuova fondazione americana, l’Immaculate Heart Hermitage a Big Sur in California (1958), portò nuovi motivi di tensione e scontro. Il priore Giabbani riuscì a mantenere l’unità dell’istituto102, ma le proteste che giungevano a Roma contro di lui e i suoi metodi severi e sbrigativi, che non facilitavano un rasserenamento della comunità, finirono per fargli perdere la protezione di cui aveva goduto nella Congregazione dei religiosi. Alla vigilia del capitolo generale dell’agosto 1963 giunsero nuovi ricorsi alla Santa Sede; essa inviò allora a presiedere il capitolo monsignor Luigi Romoli, domenicano e vescovo di Pescia. Avvenuta la votazione per l’elezione del priore generale e del consiglio generalizio, monsignor Romoli portò le schede votate a Roma, dove, presso la Congregazione dei religiosi, si procedette alle operazioni di spoglio e alla designazione del nuovo superiore generale dei camaldolesi. Infatti, nonostante Giabbani avesse ancora una volta raccolto la maggioranza dei voti, fu proclamato eletto don Aliprando Catani, che sembrava poter favorire una pacificazione all’interno dell’istituto. Il nuovo priore era espressione di una minoranza composita che teneva insieme i rappresentanti del partito difensore della vita eremitica e due monaci della congregazione cenobitica soppressa. In questo modo veniva a consacrarsi e consolidarsi uno schieramento di conservazione e opposizione alle riforme presente poi anche nel periodo postconciliare, pur perdendo velocemente di rilevanza concreta.
Verso la metà degli anni Cinquanta, a Bologna andava formandosi una nuova esperienza di vita comunitaria e religiosa: la Piccola famiglia dell’Annunziata, un tempo comunemente chiamata Comunità di Monteveglio poi, dal 1985, di Monte Sole, dai luoghi dove si era stabilito il suo nucleo più consistente. L’esperienza nasceva all’interno di un gruppo di giovani ricercatori radunato nel 1953 nel capoluogo emiliano dal professor Giuseppe Dossetti103, una delle figure più significative della storia civile ed ecclesiastica italiana del Novecento. Lentamente in lui, già consacrato nell’istituto secolare dei Milites Christi, e in alcuni membri del Centro di documentazione, maturava un itinerario spirituale che portava alla redazione di una Forma communitatis (Pentecoste 1954) nella quale cominciava a delinearsi un maggiore impegno di appartenenza a una comunità. Risale al settembre del 1955 la stesura di una regola che viene approvata oralmente dal cardinale Lercaro il 22 dicembre successivo. Il 6 gennaio 1956 Dossetti pronunciava con un fratello e cinque sorelle i primi voti nelle mani del cardinale. Con questo atto nasceva ufficialmente una nuova comunità monastica che già prima del concilio Vaticano II aveva sottolineato l’importanza della lettura quotidiana delle Sacre Scritture per la vita di ogni cristiano, anche laico, e di un’accentuata vita di orazione, il cui centro è la celebrazione eucaristica quotidiana. Successivamente Dossetti abbandonò l’impegno accademico e dopo qualche tempo anche il seggio nel Consiglio comunale di Bologna, dove sedeva in seguito a una precisa obbedienza prestata a Lercaro, per giungere a ricevere l’ordinazione presbiterale all’inizio del 1959. L’annuncio del concilio da parte di papa Giovanni XXIII costituirà la premessa di grandi cambiamenti per la vita della piccola comunità e in particolare per quella di don Dossetti, che verrà condotto a Roma dall’arcivescovo di Bologna per partecipare alla grande assise come proprio perito conciliare.
Nel 1958 venne aperto nella casa di Monte Cistello, vicino all’abbazia delle Tre Fontane (Roma), uno studentato internazionale dell’Ordine trappista, a cui affluirono giovani monaci per gli studi filosofico-teologici. «Fu questo gruppo della generazione più giovane che rispose con entusiasmo all’invito del Vaticano II per il rinnovamento della vita religiosa; da essi venne la successiva ondata di cambiamenti […] soprattutto da parte degli Americani più progressisti»104. Le antiche abbazie europee, invece, che non risentivano della sorprendente crescita numerica avvenuta negli Stati Uniti dopo la guerra, non avvertivano la sollecitazione a promuovere cambiamenti, preferendo continuare a camminare a un passo più lento105.
Gli anni che precedettero il concilio furono segnati dalla riflessione anche all’interno del monachesimo italiano. Nella consapevolezza che si stesse vivendo un periodo di crisi, di trasformazione e di ripensamento anche nel campo delle cosiddette scienze sacre e più complessivamente della vita ecclesiale e religiosa e che ci si stesse preparando per l’importante assise conciliare, furono organizzati alcuni momenti di studio e approfondimento della spiritualità monastica. Questi incontri ebbero come animatore Cipriano Vagaggini106, allora vicerettore e decano di teologia dell’Ateneo S. Anselmo, che intendeva stimolare una riflessione teologica più profonda sulla vita monastica a partire dai suoi fondamenti, come già avveniva in altri paesi europei e nel Nord America. Gli incontri furono ospitati nel biennio 1959-1960 al monastero di S. Gregorio al Celio dal procuratore dei Camaldolesi don Benedetto Calati e nell’ottobre 1962 a San Pietro di Sorres (Sassari). Ne derivarono in seguito due volumi che raccolgono i vari contributi, in gran parte redatti da monaci italiani107.
I monaci camaldolesi nel 1958 subentrarono all’eremo ai Camaldoli di Napoli al posto degli Eremiti di Monte Corona che lo avevano riaperto dopo le soppressioni nel 1885; ma negli anni successivi, insieme a don Bernardo Ignesti senza un vero progetto di rilancio, si concentrarono in questa casa gli elementi considerati di disturbo a Camaldoli.
Per quanto riguarda i Silvestrini, nel 1961 fondavano un monastero ad Arcadia, in Australia, e l’anno seguente ne aprivano un altro a Makkiyad, in India. Queste fondazioni trovano la loro origine dalla ricollocazione dei monaci stranieri espulsi da Ceylon in seguito alla raggiunta indipendenza dello Sri Lanka108.
Questo segmento temporale può essere prolungato fino all’anno 1978, fine del pontificato di Paolo VI, pur nella consapevolezza che si era già esaurita la fase di maggiore intensità riformatrice del concilio Vaticano II, mentre si erano innescate interpretazioni discordanti e forti resistenze nei confronti delle sue istanze di rinnovamento. La data risulta comunque significativa non solo per i passaggi di pontificato ma anche perché occorre riconoscere una certa lentezza nell’accogliere e tradurre queste dinamiche innovative all’interno del mondo monastico, in particolare per quanto riguarda la sua parte numericamente maggioritaria, che era e rimane quella femminile109. Tensioni novatrici che, soprattutto nel campo liturgico, avevano visto alcuni benedettini italiani anticipatori del concilio e poi – durante e dopo – tra i protagonisti della riforma (Vagaggini, Visentin110, Marsili111).
Dal 1979 si segnalano poi all’interno del mondo religioso italiano alcuni convegni che compiono analisi retrospettive particolarmente interessanti112. Dopo il concilio, in tutti gli ordini e le congregazioni si è celebrato – generalmente in distinte sessioni intervallate da anni in cui lavoravano commissioni preparatorie – un capitolo generale speciale o più capitoli, secondo lo scopo e le modalità previsti dal motu proprio Ecclesiae Sanctae di Paolo VI, in applicazione del decreto conciliare Perfectae Caritatis, che offriva i criteri per la revisione delle costituzioni e degli statuti propri. I lavori capitolari sono stati preparati attraverso questionari di consultazione e commissioni di studio che elaborarono per anni la redazione dei testi da approvare con la ratifica definitiva dopo un periodo di sperimentazione.
La congregazione silvestrina dette alle case italiane la configurazione istituzionale già da tempo provata in Sri Lanka e negli USA. Questa istituzione, denominata ‘priorato maggiore’, raggruppava tutti i monasteri sotto un unico superiore chiamato priore maggiore e il suo consiglio113. Questo nuovo coordinamento e un rinnovato clima monastico hanno favorito lo studio delle fonti e della spiritualità silvestrina.
A Camaldoli i primi tre anni di generalato del priore Aliprando Catani (1915-2005), imposto dalla Santa Sede, si rivelarono complessi per lui e per la comunità. La situazione gli imponeva di acquisire legittimazione e credibilità, e grazie al suo carattere mite e al suo stile improntato al basso profilo, si ottenne un rasserenamento degli animi all’interno della comunità. Durante il suo priorato, Catani ebbe modo di partecipare al concilio dalla seconda sessione, anche con alcuni contributi scritti. Con la consulta generale del 1966, la commissione per la revisione delle nuove costituzioni poté lavorare alacremente e giungere a un testo largamente condiviso. Le nuove costituzioni permisero, nel capitolo generale del 1969, la libera elezione di don Benedetto Calati114 come nuovo priore generale, incarico che avrebbe mantenuto fino all’ottobre 1987. Il suo magistero spirituale e l’azione pastorale
«riassumono emblematicamente le linee fondamentali di un percorso profondamente innovativo, radicato nella parola di Dio e nella tradizione viva dei padri ed evangelicamente libero nello scrutare e riconoscere i segni della misteriosa presenza dello Spirito nelle vicende ambivalenti della Chiesa e della società»115.
Negli anni che seguono il concilio, cresce velocemente e su vari piani la collaborazione all’interno del mondo benedettino italiano, pur mantenendosi la vita delle singole congregazioni del tutto indipendente. È al loro interno, preso come insieme, che vanno cercati i segni di possibili mutamenti. Infatti, mentre l’autonomia dei monasteri fonda il tradizionale pluralismo del monachesimo e rende difficile cercare caratterizzazioni specifiche per aree linguistiche, sembra più adeguato considerare la dimensione congregazionale come quella all’interno della quale si rappresenta una certa uniformità di orientamenti e di stile116.
Da un punto di vista istituzionale, si registra allora l’adesione alla confederazione benedettina anche di altre congregazioni che si erano considerate in passato un ordo affiancato e parallelo a quello di s. Benedetto, le quali dovettero prima acquisire una struttura che valorizzasse maggiormente l’autonomia delle singole comunità, ascrivendo i singoli monaci a una delle rispettive case. Nel 1966 era la volta delle congregazioni vallombrosana e camaldolese, alcuni anni più tardi, nel 1973, di quella silvestrina. L’ingresso nella confederazione restava invece precluso agli Eremiti camaldolesi di Monte Corona per la loro struttura fortemente centralizzata ed esclusivamente eremitica.
Nel 1973, in seguito ad alcune prese di posizione che gli alienavano la fiducia della Santa Sede, Giovanni Franzoni si dimetteva da abate ordinario di S. Paolo fuori le mura. Al suo posto veniva eletto Giuseppe Turbessi117.
In ambito femminile si registra, nel 1973, la fondazione del monastero Mater Ecclesiae sull’Isola di San Giulio (NO)118, e la nascita di due federazioni tra le Benedettine dell’adorazione perpetua, quella che fa capo al monastero di S. Benedetto di Milano (1975) e l’altra con riferimento alla comunità di Ghiffa (1976), che giungono a consociarsi nel 1998119.
L’adeguamento in ogni comunità dei modi di celebrare l’Opus Dei120 e dei libri liturgici ai criteri stabiliti dalla riforma voluta dal concilio vedeva la famiglia benedettina cooperare all’edizione del Supplemento proprio al Messale romano e a testi per la Liturgia delle ore. Nel 1969 le monache dettero vita alla Unione monastica italiana per la liturgia (Umil) . Intanto, in alcuni monasteri si sperimentavano, per incarico della Santa Sede, alcuni aspetti della riforma liturgica, tra i quali la concelebrazione eucaristica.
Dal 6 all’11 settembre 1979 si tenne, nel cenobio di S. Giovanni di Parma, il terzo convegno monastico intercongregazionale, con partecipazione maschile e femminile. L’intento dell’incontro era quello di esaminare il cammino che stava percorrendo il monachesimo nella realtà italiana per tentare di conoscere quali fossero le forze operanti nella molteplicità di forme in cui si presenta la vita monastica121.
In questa occasione madre Maria Ildegarde Sutto, abbadessa di Citerna, tenne una relazione sulla situazione del monachesimo femminile italiano nel postconcilio da cui si possono ricavare elementi importanti per cercare di delineare lo stato della situazione. Madre Sutto evidenziava «una iniziativa assolutamente inedita: quella del Congresso nazionale delle abbadesse già tenuto due volte, nel 1966 e nel 1976. […] Sono stati momenti di felice rottura di quell’isolamento in cui le nostre comunità vivevano da secoli»122. Si trattava solo dei primi passi di una collaborazione che stava nascendo tra comunità abituate a vivere autonomamente e isolate, solo in parte federate tra loro e sottoposte all’autorità di vescovi diocesani non sempre in grado di comprendere il carisma monastico e di aiutarle convenientemente. Affrontava poi un nodo fondamentale del mondo monastico femminile italiano, che faceva affiorare in tutta la sua gravità il problema della scarsa formazione culturale delle monache. Se un tempo una giovane, entrando in monastero, riceveva una formazione spirituale e culturale adeguata alla classe sociale da cui proveniva o addirittura migliorativa, come capitava frequentemente, ora la situazione non era più la medesima. Mentre nel corso degli ultimi decenni nella società il livello culturale medio della donna italiana era fortemente cresciuto, lo stesso non era avvenuto all’interno dei monasteri che ora, carenti di nuove reclute, non potevano né beneficiare di questo miglioramento, né proporre una prospettiva attraente per le giovani. Quello di un’adeguata formazione veniva visto di conseguenza come problema primario.
«Di fronte alle prime esortazioni della Chiesa a rinnovarci, ritrovando le linee vitali del progetto monastico, e contemporaneamente di fronte alla presa di coscienza della nostra carente situazione culturale, che ci avrebbe creato insormontabili difficoltà nel tentativo di realizzare quell’aggiornamento, sorrette e aiutate dalla vigile premura dell’allora Primate dell’Ordine, l’Abate don Remberto Weakland, che nessuna difficoltà ha potuto arrestare, abbiamo organizzato, con comprensibili incertezze iniziali e relativi esperimenti, questi corsi a cicli triennali, dislocati in punti diversi della penisola per facilitarne la frequenza alle monache di tutta Italia»123.
Parole forti quelle della abbadessa di Citerna, che mette in campo la ‘presa di coscienza’ di una realtà esistente, tollerata per lungo tempo perché non suscitava alcun problema, limitandosi le monache chiuse nei chiostri al solo servire Dio nella preghiera, recitata in una lingua sconosciuta, e nel lavoro. Furono le richieste conciliari a provocare questa presa di coscienza, che in molti casi giunse troppo tardi. Espressioni come ‘difficoltà’, ‘incertezze’, ‘esperimenti’, fanno comprendere come il cammino per provvedere a una formazione delle monache non fosse affatto scontato e come anzi non siano mancati ostacoli.
Il primo corso triennale di aggiornamento biblico-teologico per le monache prese avvio nel 1969 grazie all’iniziativa coraggiosa di alcune di esse, e in particolare di madre Ildegarde Ghinassi, allora abbadessa delle camaldolesi di S. Antonio di Roma, e suor Anselma Abignente, monaca del monastero di Citerna. Tali corsi proseguirono senza interruzione nei decenni successivi, trasformandosi all’inizio degli anni Ottanta in Studio teologico delle Benedettine italiane. I docenti erano professori di S. Anselmo, ai quali iniziò ad aggiungersi la voce di qualche monaca. Oltre a questo, ogni anno il convegno delle abbadesse costituiva un importante momento di formazione124.
Dopo il concilio, ovunque la clausura era diventata meno rigida e si era avviato un processo di riscoperta della lectio divina125. Con sempre maggior frequenza, inoltre, anche i monasteri femminili ricevevano richieste di ospitalità da parte di singole persone o gruppi ecclesiali per motivi spirituali: un fenomeno nuovo, di grande importanza nella vita ecclesiale. Uno tra i maggiori problemi del monachesimo femminile benedettino in quegli anni consisteva nel rilevante calo di vocazioni con il conseguente invecchiamento complessivo delle comunità, insieme a un sempre più accentuato divario tra l’evoluzione delle comunità stesse e quello della società e della Chiesa.
Madre Sutto attribuiva poi la situazione delle Carmelitane, che parevano non soffrire di un’altrettanto grave carenza di ingressi, al fascino promanato dalla loro spiritualità, che poteva offrire figure di santità assai prossime nel tempo come quella di Teresa di Lisieux e di Elisabetta della Trinità. Mancavano invece testi recenti di spiritualità benedettina che presentassero esperienze reali, e non solo riflessioni teoriche, da offrire per un approfondimento della vita monastica alle giovani che manifestavano il desiderio di verificare una possibile vocazione126. Quelli utilizzati prima del concilio, come Cristo ideale del monaco dell’abate Columba Marmion, risultavano infatti non più proponibili per impostazione e linguaggio.
In molte comunità maschili, intanto, il lavoro monastico si era andato sempre più identificando con l’attività pastorale. Ma anche quando la dimensione del lavoro non è assente, le comunità dimostrano una scarsa propensione a tematizzarlo127. Spesso l’attività pastorale esterna è stata concentrata all’interno dei cenobi, riordinando e attrezzando le foresterie per recuperare e sviluppare la tradizionale ospitalità benedettina.
Malgrado questi anni appaiano caratterizzati da molti abbandoni e dal calo delle vocazioni, è in aumento il numero dei monasteri, il che ha implicato una presenza minore di religiosi per ogni casa e il formarsi di comunità più piccole128.
Questo periodo ha visto anche la nascita di nuove forme di vita religiosa, comprese le comunità monastiche, alcune delle quali – sorte all’interno di ordini e congregazioni religiose come tentativo di rinnovamento – rappresentano un’evoluzione dell’esistente, mentre altre possono essere considerate cellule monastiche generatesi all’interno di movimenti ecclesiali. Si sono verificate anche vere e proprie nuove fondazioni di tipo monastico scaturite dalla precisa scelta di non appartenere all’ordo monasticus tradizionale129. Si tratta di piccole o grandi comunità cenobitiche, alcune delle quali hanno avuto breve durata, con una configurazione canonica molto varia (pie unioni, associazioni private o pubbliche di fedeli) e di genere misto, cioè aperte a uomini e donne. Non è mancato neppure il rifiorire di esperienze dall’accentuata dimensione eremitica, fenomeno che ha ricevuto una prima configurazione giuridica nel nuovo codice di diritto canonico (1983) con il canone 603.
Nell’immediato periodo postconciliare nasce – per intuizione di Enzo Bianchi, un giovane del Monferrato giunto a Torino per gli studi universitari130 –, la comunità di Bose. Si tratta della prima del suo genere, diventata ben presto la più numerosa e la più nota in Italia e all’estero131. Dall’esperienza di un gruppo di preghiera e studio della Bibbia da parte di giovani universitari di diverse confessioni cristiane matura il desiderio di un luogo nel quale continuare a incontrarsi, che sarà individuato a Bose, dove sorge una piccola chiesa romanica dedicata a s. Secondo che ha bisogno di essere riparata. Alcuni anni dopo, con l’arrivo dei primi tre compagni, proprio lì comincia l’esperienza di vita comune del gruppo che diverrà nel 1968 il primo nucleo della comunità monastica. Cinque anni più tardi, sette degli undici membri della comunità, con l’approvazione del cardinale Michele Pellegrino, che da sempre ne seguiva gli sviluppi, pronunzieranno il loro impegno definitivo a condurre una vita in comune nel celibato dinanzi a un gruppo di parenti e amici. I fratelli e le sorelle di Bose pregano insieme tre volte al giorno, studiano la Sacra Scrittura e la tradizione monastica, lavorano fuori comunità per mantenersi, ristrutturano le case fatiscenti in cui hanno iniziato ad abitare, praticano l’ospitalità. Gli anni Settanta sono stati anche quelli di una prima espansione. Nel 1972 si apre una fraternità nel cantone di Neuchâtel, in Svizzera, come presenza ecumenica di servizio agli immigrati italiani. L’esperienza si conclude dopo cinque anni. Qualche tempo dopo il ritorno dei fratelli a Bose si darà vita a una nuova fraternità, mentre la comunità continua a crescere e a strutturarsi.
La Piccola famiglia dell’Annunziata comincia già alla fine del 1965 a organizzare incontri per promuovere la conoscenza dei testi conciliari. Nel 1966 don Dossetti riceve dal cardinale Lercaro l’incarico di seguire da vicino i gruppi di studio per la riforma della diocesi secondo le disposizioni conciliari; l’anno successivo viene nominato pro-vicario generale dell’arcidiocesi. Ma alla fine del 1967, con l’ingresso in diocesi di un vescovo coadiutore di Lercaro, egli rinuncia all’ufficio. La nomina di monsignor Antonio Poma e le dimissioni del cardinale Lercaro, accettate nel febbraio 1968, erano state causate dalle proteste avanzate dall’ambasciata statunitense presso la Santa Sede, dopo le prese di posizione dell’allora pro-vicario contro la guerra in Vietnam. Nel 1972 Dossetti lasciava Bologna per stabilirsi a Gerico, nel deserto palestinese.
La successiva nascita di alcune nuove famiglie monastiche che si rifanno al suo carisma, testimonia una fecondità spirituale che superava i confini della comunità di Monteveglio. È il caso, dal 1977, delle Famiglie della visitazione a Sammartini, radunatesi intorno a don Giovanni Nicolini, poi della Piccola famiglia dell’Assunta (Rimini) di don Lanfranco Bellavista, e nel 1978 della Piccola famiglia della Resurrezione (Cesena), sorta per iniziativa del diacono Orfeo Suzzi. Alcuni anni dopo, nel 1981, si registra infine la nascita della Piccola famiglia della Risurrezione, di cui don Giorgio Scatto è l’iniziatore132.
Le celebrazioni del XV centenario della nascita di s. Benedetto divengono, nel 1980, l’occasione per studi e pubblicazioni commemorative, tra cui una serie di fascicoli a carattere regionale contenenti brevi presentazioni della storia e delle attività di tutte le comunità maschili e femminili della famiglia benedettina. Nello stesso anno, è sorto ufficialmente lo Studio teologico delle benedettine italiane (Stbi) voluto dalla Conferenza italiana delle monache benedettine (Cimb) presso il monastero romano di S. Antonio. Nel 1983 la Congregazione per l’educazione cattolica autorizzava l’Ateneo S. Anselmo a rilasciare un diploma di riconoscimento alle religiose iscritte.
Nel 1981 nacque a Roma presso l’abbazia di S. Paolo la Fraternità monastica missionaria, una famiglia spirituale che coniuga la contemplazione con il servizio, realizzando una condivisione di vita tra persone consacrate nella verginità e nel matrimonio133. Lo scopo è quello di offrire all’uomo d’oggi un’esperienza di ricerca di Dio, di promozione della persona e delle famiglie. Un contributo determinante a questa fondazione venne dal cassinese Giuseppe Nardin134, succeduto l’anno prima a Giuseppe Turbessi come abate ordinario del monastero ostiense.
Anche gli ultimi due decenni del Novecento appaiono ricchi di nuove fondazioni. Nel 1986 i Vallombrosani riaprirono la badia di Passignano (FI) soppressa nel 1866, nella cui chiesa è sepolto s. Giovanni Gualberto. Nello stesso anno i monaci cistercensi di Lérins (Francia) accolsero l’invito della Chiesa piemontese ad aprire un nuovo monastero. La scelta cadde su Pra ΄d Mill (Bagnolo Piemonte, CN) e nel 1995 due fratelli vennero a risiedervi stabilmente. Il monastero Dominus Tecum ricevette la carta di fondazione dall’abate di Lérins il 25 marzo 1998; nell’autunno 2009 è diventato monastero autonomo135.
Risale al gennaio 1980 la decisione della comunità di Bose di aprire, l’anno successivo, una fraternità ecumenica a Gerusalemme. La costante crescita del numero dei fratelli e delle sorelle consigliava l’avvio di altre due fraternità: nel 1994 quella delle sorelle ad Assisi nel monastero di S. Benedetto al Subasio, che però veniva abbandonato già nel 1997 a causa di difficoltà interne e del terremoto. Nell’ottobre 1998 veniva fondata una fraternità maschile a Ostuni (BR). Nel 2010 era in fase di preparazione l’apertura di un’altra residenza maschile a S. Masseo di Assisi. La conoscenza della comunità si diffondeva anche tramite la casa editrice Qiqajon (1983), collegata al lavoro di molti suoi membri, che mettevano a disposizione dei lettori italiani un vasto patrimonio di letteratura spirituale antica e contemporanea. L’apertura ecumenica, sempre presente dagli inizi della comunità136, dal 1993 si esprimeva anche attraverso gli annuali convegni di spiritualità ortodossa e dal 1996 di quella riformata con cadenza triennale.
Con il capitolo generale dell’ottobre 1987, don Benedetto Calati terminava il suo servizio di priore generale della congregazione camaldolese dell’Ordine benedettino e di priore di Camaldoli; al suo posto veniva eletto Emanuele Bargellini, suo ‘braccio destro’ fin dal 1969, che avrebbe ricoperto l’ufficio per diciotto anni proseguendo a guidare il cammino comunitario nel solco calatiano. Nel frattempo anche i camaldolesi, che fino ai primi anni Novanta avevano registrato un buon numero di candidati, cominciavano a risentire le conseguenze del calo vocazionale. Una serie di decessi prematuri e improvvisi assottigliarono inoltre la generazione intermedia, indebolendo le comunità e rendendo più difficile il ricambio dei quadri.
Sempre nel 1987, dopo una prolungata esperienza di due confratelli ex missionari, la comunità di Camaldoli dava inizio a una fondazione a Mogi das Cruzes, in Brasile, caratterizzata da una forma di vita più semplice rispetto a quella di altre comunità benedettine brasiliane. Nonostante il generoso impegno dimostrato da un numero elevato di fratelli italiani, a distanza di ventitre anni la comunità ancora non riusciva a crescere attraverso vocazioni locali. Nel 2005 Bernardino Cozzarini divenne priore generale dei monaci camaldolesi; ha dato inizio a una fondazione a Mafinga (Tanzania), inviando a questo scopo, da solo, l’unico candidato che aveva perseverato del gruppo di giovani tanzaniani giunti in Italia per la formazione.
Nel 1993 il «triplex bonum», tramandato da Bruno di Querfurt nella Vita Quinque Fratrum – fraternità del cenobio, solitudine dell’eremo, testimonianza all’evangelo – veniva per la prima volta collocato dal capitolo generale al centro ideale dell’identità camaldolese per esprimere la visione d’insieme che la caratterizza137. Nella congregazione camaldolese il cammino degli ultimi decenni ha tenuto presenti come principali parametri di riferimento un rinnovato rapporto con le origini, l’orientamento del concilio e la visione dinamica della realtà propria in rapporto alla cultura moderna138.
Le Benedettine dell’adorazione perpetua di Milano, che da sempre si erano impegnate nell’educazione della gioventù, nel 1996 determinavano di chiudere le attività della loro scuola, che comprendeva classi dalla materna alle secondarie superiori. Erano giunte a questa decisione a causa delle accresciute difficoltà di gestione e per il mutato clima culturale che rendeva meno facile e proficua la collaborazione tra istituto e genitori. Ma le monache di via Bellotti, convinte assertrici del monastero come luogo di irradiazione culturale, l’anno dopo avviarono una scuola di cultura monastica con il patrocinio dell’Ateneo S. Anselmo di Roma. Nel settembre 2009 hanno inoltre dato vita al centro culturale cattolico Deificum Lumen a cui fanno capo una scuola di preghiera, corsi di ebraico biblico, di canto gregoriano e di iconografia, oltre a ritiri spirituali.
Proseguiva intanto la ripresa delle esperienze di vita eremitica, che si moltiplicano malgrado i numeri rimangano – in cifre assolute – sempre molto contenuti. Prima di affrontare la solitudine, gli aspiranti eremiti spesso hanno trascorso un periodo di preparazione presso istituzioni monastiche secolari o hanno trovato collocazioni non distanti da un monastero con cui mantengono un legame spirituale. In Casentino, canoniche parrocchiali ormai vuote e case coloniche da lungo tempo abbandonate hanno accolto, per brevi o lunghi periodi, alcune eremite che oltre al legame con la chiesa locale coltivano un rapporto con la comunità di Camaldoli. In questi casi, alla configurazione canonica dell’eremita diocesano ha potuto unirsi anche l’appartenenza all’ordo virginum o un’oblatura monastica. Quasi tutte le donne che hanno intrapreso questa forma di vita provengono da un’esperienza in un istituto religioso femminile che non aveva appagato la loro ricerca spirituale139.
Dopo il concilio, molti fedeli laici si sono avvicinati alle comunità monastiche per cercarvi sostegno al proprio cammino spirituale, raccogliendo quei frutti del movimento biblico, del movimento liturgico e della spiritualità patristica che erano stati valorizzati dal Vaticano II. La presenza costante di ospiti nelle foresterie dei monasteri è un chiaro indice di apprezzamento della iniziative programmate e della proposta spirituale offerta. Questa frequentazione ha inoltre favorito una riscoperta della figura dell’oblato benedettino secolare: un laico, anche sposato, che stringe un rapporto ideale e spirituale con un monastero, e, secondo le sue possibilità, alimenta la propria vita di fede ispirandosi alla Regola di s. Benedetto e alla spiritualità monastica140.
La profonda trasformazione sociale, culturale e politica vissuta dal mondo occidentale attraversa anche il monachesimo. La caduta dei regimi comunisti dell’Est europeo permette la ripresa dei contatti con quella parte della cristianità orientale che era rimasta per lungo tempo isolata. Alcuni monaci benedettini di nazionalità ceca rimasti negli anni Cinquanta ‘oltre cortina’, stabilitisi per alcuni decenni a Norcia, recuperano finalmente la possibilità di rientrare in patria.
È un tempo di potenzialità, ma non mancano i segni di un malessere che serpeggia nelle file monastiche. Il calo di ingressi riduce sempre più le comunità dei grandi e secolari cenobi che risultano essere edifici sovradimensionati, vuoti, incapaci di offrire le condizioni per una stabilità di vita alle nuove generazioni di monaci che dopo pochi anni di frequente li lasciano141. Ma anche le comunità connotate da uno stile di vita più semplice, che favorisce una dimensione più orizzontale dei rapporti interni, mostrano segni di difficoltà, finanche quelle più recenti che non risultano esenti da abbandoni. Ad esempio, nel 2010 l’intera congregazione degli Eremiti camaldolesi di Monte Corona, le cui nuove costituzioni erano state approvate dalla Santa Sede solo nel 1988, annoverava meno di cinquanta membri. Tra le sfide di segno positivo si segnala invece la maggiore apertura a un dialogo franco con la cultura moderna, accettando di entrare in relazione con realtà che fino a questo momento si erano reciprocamente tenute a distanza. Ne costituiscono un esempio le giornate di riflessione organizzate dall’associazione Itinerari e incontri, ospitate dal 1987 nell’eremo camaldolese di Monte Giove (Fano), di cui è stato per una decina d’anni l’ispiratore don Benedetto Calati. Si tratta di incontri frequentati da persone di provenienze religiose, culturali, politiche diverse, motivate dal sincero interesse di ascoltare e di confrontarsi con le ragioni dell’altro. Anche l’impegno ecumenico142 e del dialogo interreligioso143, pur risentendo in questi ultimi anni della crisi generale, resta una dimensione a cui sono aperte molte comunità monastiche.
Non è ancora risolta la tensione antropologico-religiosa generatasi dopo il concilio con l’acquisizione e la valorizzazione, a livello sociale ed ecclesiale, di alcuni diritti fondamentali della persona umana. Conseguentemente si verificano conflitti tra esigenze personali dei singoli ed esigenze o missione della comunità, mentre si avverte un difficile esercizio della funzione di guida nelle famiglie monastiche. Non si può non rilevare, in questo periodo tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo-millennio, la presenza di una dissonanza nella vita di fede. La secolarizzazione, l’indifferentismo, e quello che viene chiamato dalle gerarchie ecclesiali «relativismo dilagante», ha generato dubbi, accidia dello spirito, scarso esercizio delle virtù spirituali, mentalità e comportamenti in sintonia con gli usi mondani contemporanei. Ne sono un chiaro indizio i frequenti casi di abati dimissionari e dimissionati: dal 1988 al 2007 si sono verificati almeno sette casi (cinque sublacensi, uno cassinese, uno cistercense) di superiori che hanno rinunciato o che sono stati rimossi d’autorità per gravi motivi; due di essi hanno anche lasciato definitivamente la vita monastica. Questo stato d’inquietudine si manifesta in alcune secessioni dalle comunità storiche, che hanno dato vita a nuove famiglie monastiche.
Lentamente, ma con determinazione, la Santa Sede porta avanti intanto la trasformazione delle abbazie territoriali italiane in semplici abbazie monastiche. Il primo caso era Subiaco, che se conservava formalmente la condizione di abbazia nullius, veniva però liberata dalla responsabilità pastorale su un territorio. Successivamente, nel 2005, S. Paolo fuori le mura perdeva il carattere di abbazia territoriale e, per superare un periodo di profonda crisi, veniva sottoposta alla giurisdizione dell’abate primate, che chiedeva aiuti internazionali per mantenere la comunità nel cenobio ostiense.
Più comunemente si avverte oggi una tensione centripeta nelle comunità. Questo causa problemi e mancanza di collaborazione tra le case delle federazioni o congregazioni; se l’istituto della federazione ha presentato dei limiti è perché troppo labile è il rapporto di collaborazione che ha potuto creare tra comunità estremamente gelose della propria autonomia. L’accumularsi di problemi interni assorbe tutte le forze, rendendo sporadico e scarso il contributo alla comunione e al sentire comune dell’intero corpo ecclesiale.
1 V. Cattana, Storiografia ed erudizione monastica tra Otto e Novecento, in Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II, Atti del III Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Badia di Cava de’ Tirreni, 1992), a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1995 (Italia benedettina, 15), p. 473.
2 Cfr. G. Penco, La storiografia monastica italiana tra aspetti istituzionali e indirizzi culturali, in Dove va la storiografia monastica in Europa?, Atti del Convegno internazionale (Brescia-Rodengo, 2000), a cura di G. Andenna, Milano 2001, p. 21.
3 G. Penco, La vita monastica in Italia dal Vaticano I al Vaticano II, in Il monachesimo in Italia, cit., p. 2.
4 Ibidem, p. 3.
5 Sugli eremiti italiani cfr. F. Antonioli, Cercatori di DIO. Reportage sulle tracce degli ultimi eremiti, Milano 1996; I. Turina, Esperienze eremitiche nell’Italia contemporanea. Valutazione di un’indagine sociologica, «Sanctorum», 3, 2006, pp. 165-180; Id., I nuovi eremiti. La “fuga mundi” nell’Italia di oggi, Milano 2007.
6 Cfr. Spes una in reditu. Miscellanea di studi nel centenario della ripresa della vita monastica a Praglia 1904-2004, a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 2006; per Montecassino cfr. M. Dell’Omo, Montecassino. Un’abbazia nella storia, Montecassino 1999.
7 È il caso ad es. di L’abate Giuseppe Cozza-Luzi archeologo, liturgista, filologo, Atti della Giornata di studio (Bolsena, 1995), a cura di S. Parenti, E. Velkovska, Grottaferrata 1998 (Αnalekta Κryptopherrēs, 1). Vi sono opere biografiche scritte in occasione dei processi di canonizzazione, come nei casi di Giuseppe Benedetto Dusmet, Ildebrando Gregori, Placido Riccardi, Maria Gabriella Sagheddu, Ildefonso Schuster, Maria Fortunata Viti.
8 L. Molignini, Gli abati claustrali dell’abbazia di Casamari. Dall’introduzione della riforma trappista (1717) all’erezione canonica della Congregazione di Casamari (1929), Casamari 2007.
9 G.I. Gargano, Camaldolesi nella spiritualità italiana del Novecento, 3 voll., Bologna 2000-2002.
10 G. Penco, La storiografia monastica italiana tra aspetti istituzionali e indirizzi culturali, cit., p. 19.
11 Ibidem, pp. 21-22.
12 G. Spinelli, Il monachesimo nella vita della Chiesa e nell’esperienza spirituale degli ultimi due secoli, in Monachesimo e vita religiosa. Rinnovamento e storia tra i secoli XIX-XX, Atti del XXII Convegno del Centro Studi Avellaniti, S. Pietro in Cariano 2002, p. 85.
13 G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Roma 1968.
14 Il monachesimo in Italia, cit.
15 G. Lunardi, La Congregazione sublacense O.S.B, I, (1810-1878), II, (1878-1972), Noci 2003-2005; cfr. anche Congregazione Sublacense O.S.B. Provincia italiana, I monasteri italiani della Congregazione sublacense (1843-1972). Saggi storici nel primo centenario della congregazione, Parma 1972.
16 Per le ragioni che introdussero in Italia tra il 1848 e il 1873 una legislazione ostile alla vita religiosa cfr. M. Dell’Omo, In tema di soppressione degli Istituti religiosi in Italia nel secolo XIX. Testi scelti delle discussioni parlamentari (1848-73) e qualche riflessione per una tipologia delle motivazioni in favore della soppressione, «Benedictina», 41, 1994, pp. 377-391.
17 Gli eremiti camaldolesi di Monte Corona mentre perdettero numerosi eremi, tra cui la casa generalizia che dava loro il nome, riuscirono a conservare, anche dopo l’annessione del Veneto, l’eremo di Monte Rua tra i Colli Euganei: G.M. Croce, I camaldolesi nell’età contemporanea. Declino, metamorfosi e rinascita di un movimento monastico, in Il monachesimo in Italia, cit., pp. 101-102.
18 G.M. Croce, La Congregazione basiliana d’Italia nell’età moderna e contemporanea, in Il monachesimo in Italia, cit., p. 216.
19 Diversamente la comunità di Praglia, che dopo la soppressione napoleonica nel 1834 era stata autorizzata al rientro, dovette lasciare l’abbazia nuovamente nel giugno 1867, trasferendosi in buona parte a Daila, nell’Istria austriaca, dove alcuni anni prima aveva ricevuto in dono un’estesa proprietà. Altri monaci si dispersero in monasteri italiani ed esteri. Nel 1900 la comunità poté riacquistare una parte del monastero, e nel 1904 iniziò a rientrarvi. Cfr. G. Romanato, La riapertura dopo le vicende ottocentesche, in Spes una in reditu, cit., pp. 17-20. Sul periodo in cui la comunità risiedette a Daila (1867-1905), cfr. nello stesso vol. il contributo di P. Fassera, pp. 32-87.
20 Cfr. G. Penco, La vita monastica in Italia, cit., p. 5.
21 G. Fabbri, s.v. Casaretto, Pietro Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, XXI, Roma 1978, pp. 185-186.
22 Nel 1867 la ‘provincia sublacense’ ricevette l’autonomia ad experimentum, già nel 1871 il papa concesse l’approvazione delle Costituzioni della nuova congregazione solo per un decennio, ma dietro insistente richiesta dell’abate Casaretto concesse l’approvazione definitiva che erigeva la nuova congregazione indipendente il 12 gennaio 1872. Cfr. G. Lunardi, La Congregazione Sublacense O.S.B., I, cit., passim; Id., Subiaco e lo sviluppo della Congregazione cassinese della primitiva osservanza (oggi detta Sublacense), in Il monachesimo in Italia, cit., pp. 43-48.
23 Da S. Martino delle Scale provennero due cardinali (Giuseppe Benedetto Dusmet e Pietro Michelangelo Celesia) e otto vescovi. Da Cava de’ Tirreni un cardinale (Guglielmo Sanfelice) e tre vescovi. Cfr. G. Bianco, s.v., Bonazzi, Benedetto, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, XI, Roma 1969, pp. 661-662; F. Malgeri, s.v. Celesia, Michelangelo, ibidem, Roma 1979, pp. 374-377; G. Monsagrati, s.v. Dusmet, Giuseppe Benedetto, ibidem, XLII, Roma 1993, pp. 237-240; A. Longhitano, Le relazioni «ad limina» delle diocesi di Catania (1595-1890), II, Catania-Firenze 2009, pp. 759-762.
24 Ovvero dalla congregazione inizialmente detta di S. Giustina di Padova, cfr. in proposito G. Penco, La vita monastica in Italia, I, cit., p. 6.
25 Ibidem, pp. 6-7.
26 G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di storia della Chiesa (La Mendola, 1971), II, Relazioni, Milano 1973, p. 223.
27 Cfr. V. Cattana, Il declino della congregazione di Monte Oliveto tra la Restaurazione e la metà del XIX secolo, in Il monachesimo italiano dalle riforme illuministiche all’unità nazionale (1768-1870), Atti del II Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Abbazia di Rodengo, 1989), a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1992, pp. 347-391 (Italia benedettina, 11). Per una visione complessiva, Id., Momenti di storia e spiritualità olivetana (secoli XIV-XX), a cura di M. Tagliabue, Cesena 2007.
28 Cfr. R.U. Montini, s.v. Tosti Luigi, in Enciclopedia cattolica, XII, Roma 1954, coll. 367-369; A. Capecelatro, Commemorazione di D. Luigi Tosti, Montecassino 1898; S. Vismara, L’abate Luigi Tosti nella corrispondenza col senatore Gabrio Casati. Montecassino e la questione romana, Roma 1908, pp. 40; A. Quacquarelli, Il P. Tosti nella politica del Risorgimento, Roma 1945; T. Leccisotti, D. Luigi Tosti agli inizi della sua attività intellettuale, «Benedictina», 1, 1947, pp. 259-317; Id., Don Simplicio Pappalettere e la restaurazione monastica del secolo XIX, ibidem, 19, 1972, pp. 108-121.
29 Cfr. G. Turbessi, Vita monastica dell’Abbazia di San Paolo nel secolo XIX, «Revue Bénédictine», 83, 1973, pp. 85-95.
30 P. Delatte, Dom Guéranger, Abbé de Solesmes, Abbaye de Solesmes (France) 1984.
31 Cfr. A. Acerbi, La rinascita del monachesimo benedettino nel XIX secolo fra Solesmes e Beuron, «Annali di scienze religiose», II parte, 6, 2001, pp. 319-322; Monachesimo e vita religiosa. Rinnovamento e storia tra i secoli XIX – XX, Atti del XXII Convegno del Centro Studi Avellaniti, S. Pietro in Cariano 2002, pp. 72-75.
32 A. Acerbi, La rinascita del monachesimo benedettino, cit., I parte, 5, 2000, pp. 243-267; II parte, 6, 2001, pp. 301-325. Anche la creazione della Congregazione americano-cassinese (1855) rientra in questo processo, cfr. J. Oetgen, The American-Cassinese Congregation: Origins and Early Development (1855-1905), I, «The American Benedictine Review», 56, 2005, pp. 235-264.
33 Cfr. G. Penco, La vita monastica in Italia, a cura di F.G.B. Trolese, cit., pp. 15-16.
34 Cfr. R. Donghi, La ripresa della Congregazione olivetana tra Ottocento e Novecento, in Il monachesimo in Italia, cit., p. 170.
35 Gli olivetani fecero ritorno a S. Maria in Campis di Foligno nel 1903, a S. Maria del Pilastrello di Lendinara (Rovigo) nel 1905, a S. Miniato al Monte di Firenze nel 1924, a S. Michele in Bosco di Bologna nel 1933 e a S. Giorgio di Ferrara nel 1941. Le fondazioni olivetane dal 1876 al 1960 furono 29, per il loro elenco v. R. Donghi, La ripresa della Congregazione olivetana, cit., p. 193.
36 R. Donghi, La ripresa della Congregazione olivetana, cit., p. 177. Una parte di queste fondazioni si trovava all’estero: Mensnil-Saint-Loup, Francia (1886); Tanzenberg, Austria (1899-1953); Ribeirão Prêto, Brasile (1919).
37 G. Tamburrino, I monasteri italiani e la Confederazione benedettina, in Il monachesimo in Italia, cit., p. 26.
38 Cfr. G. Tamburrino, I monasteri italiani e la Confederazione, cit., pp. 32-33; T. Leccisotti , G. Farnedi, s.v. Sant’Anselmo (Roma), in DIP, VIII, Roma 1988, coll. 760-763.
39 Cfr. R. Fornaciari, Appunti per una storia della Congregazione dei monaci cenobiti camaldolesi O.S.B. (1616-1907), «Claretianum», 45, 2005, p. 192.
40 Cfr. R. Fornaciari, I monaci cenobiti camaldolesi tra soppressioni civili ed ecclesiastiche, in Il monachesimo nelle Marche, Atti del XLII Convegno di Studi maceratesi (Abbadia di Fiastra, 2006), Macerata 2008, p. 201.
41 Cfr. P. Lugano, L’Abate Don Alberto Gibelli generale dell’Ordine Camaldolese cenobitico (1825-1907). Note bio-bibliografiche, «Rivista storica benedettina», 2, 1907, pp. 242-252; U. Fossa, introduzione a L’antica abbazia dei Santi Ippolito e Lorenzo di Faenza. I suoi abbati e gli abbati generali camaldolesi, a cura di P. Campana, Faenza 1987, opera dello stesso Gibelli.
42 L.B. Giustarini, «Lotta per una stanza». Le vicissitudini della congregazione vallombrosana OSB nei secoli XIX-XX, in Il monachesimo in Italia, cit., p.148.
43 I Camaldolesi in diocesi di Fréjus, «Rivista storica benedettina», 13, 1922, p. 108; A. Abbe, A. Benedetti, D. Gonzales, et al., Roquebrune-sur-Argens. Eglises et chapelles, Toulon 1999, pp. 49-58, 61-62; G.M. Croce, Le Congregazioni camaldolesi nella prima metà del XX secolo. Continuità e rinnovamento, in Monachesimo e vita religiosa, cit., pp. 148-149, n. 14. Quest’ultimo rileva che il piccolo romitorio provenzale non conobbe nessuna vitalità.
44 M.G. Tirelli, Dolore, lacrime, amore. Storia di una monaca camaldolese del secolo XX, a cura di A. Galuppi, Camaldoli 2004.
45 Cfr. Minimus [T. Chimenti], Gli Eremiti Camaldolesi di Toscana in Brasile per 27 anni, «Rivista camaldolese», nr. ultimo, 1928, pp. 566-570; F. Di Domenicantonio, Schuster e Camaldoli (1922-1925), «Benedictina», 27, 1980, pp. 224-231; H. Dall’Alba, A saga dos Camaldulenses no Rio Grande do Sul, Porto Alegre 1999; G.M. Croce, I camaldolesi nell’età contemporanea, cit., p. 104.
46 Cfr. A. Pantaloni, Un pioniere della fondazione silvestrina negli U.S.A.: d. Filippo Bartoccetti, «Inter fratres», 53, 2003, pp. 11-41.
47 L. Molignini, Gli abati claustrali dell’abbazia di Casamari dall’introduzione della riforma trappista (1717) all’erezione canonica della Congregazione di Casamari (1929), Casamari 2007, p. 185; per l’osservanza comune cfr. V. Cattana, Storia della Congregazione di San Bernardo in Italia, Roma 1997, pp. 38-40.
48 N. Raponi, L’accueil en Italie des congrégations religieuses françaises après les lois de suppression. Problèmes et perspectives, in Le grand exil des congrégations religieuses françaises 1901-1914. Colloque international de Lyon, (Université Jean-Moulin-Lyon-III, 2003), diretto da P. Cabanel, J.D. Durand, Paris 2005.
49 P. Lazzarini, La Certosa di Farneta, Lucca 1975, p. 67.
50 Cfr. G. Leoncini, L’ordine certosino in Italia tra XIX e XX secolo, in Il monachesimo in Italia, cit., pp. 281-283.
51 G. Febbo, Madre Maria della Croce (Amalia Frati) cofondatrice delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua del SS. Sacramento in Italia e fondatrice del monastero SS. Trinità di Genova, Bologna 1979.
52 G. Lunardi, “Raccontiamo le tue meraviglie”. Storia del monastero “San Benedetto” in Milano, Milano 1992.
53 A. Bedina, Il castello dello spirito. Storia del monastero della SS.ma Trinità di Ghiffa, Verbania 2006.
54 G. Zito, Le benedettine dell’adorazione perpetua in Italia (1880-1960), in Il monachesimo in Italia, cit., pp. 331-371; B. Marchetti, La Federazione di Ghiffa, in Il monachesimo nel dopo Concilio, cit., pp. 315-319.
55 P. Fassera, “La comunità di Praglia che è in Daila”. Dalla soppressione dell’abbazia alla sua riapertura (1867-1804), in Spes una in reditu, cit., pp. 77-81.
56 Cfr. G. Lunardi, Subiaco e lo sviluppo della congregazione cassinese della primitiva osservanza (oggi detta sublacense), in Il monachesimo in Italia, cit., p. 57.
57 G. Penco, La vita monastica in Italia, cit., p. 7.
58 Cfr. la Cronaca dell’Ordine (Il nuovo abate generale dell’Ordine Camaldolese Cenobitico) «Rivista storica benedettina», 11, 1907, p. 603.
59 Diversa la situazione tra i sublacensi: cfr. G. Lunardi, Subiaco e lo sviluppo della congregazione cassinese, cit., p. 57; E. Caronti, Diario di guerra (1917-1918), a cura di G. Lunardi, Noci 1982. Per i certosini cfr. G. Leoncini, L’ordine certosino in Italia, cit., p. 283; cfr. G. Lunardi, La congregazione sublacense O.S.B., II, cit., pp. 117-120.
60 Si vedano le istruzioni contenute nel decreto Redeuntibus - De clericis e militia redeuntibus, emanato dalla Sacra congregazione concistoriale il 25 ottobre 1918, al quale nei mesi successivi fecero seguito numerose dichiarazioni e risposte a quesiti interpretativi.
61 L.B. Giustarini, «Lotta per una stanza», cit., p. 152. Non avendo gli istituti religiosi riconoscimento giuridico civile i beni erano intestati come comproprietà a tre-quattro monaci.
62 Contemporaneamente alla chiusura delle case in Brasile venne acquistato l’eremo di Monte Giove a Fano, abbandonato dagli eremiti di Monte Corona nel 1902. Cfr. L’Eremo di Monte Giove, fascicolo commemorativo, a cura di G. Bortone, Fano 1925, p. 13.
63 L.J. Lekai, I cistercensi. Ideali e realtà, Pavia 1989, p. 256.
64 Cfr. L. Crippa, Le vicende della congregazione benedettina cassinese nell’anno 1931. Problemi, soluzioni e protagonisti, «Benedictina», 54, 2007, pp. 121-130.
65 Cfr. R. Fornaciari, Eremitismo e cenobitismo in conflitto nell’Ordine camaldolese. La soppressione ecclesiastica dei Monaci Cenobiti nel 1935 e l’abate Emanuele Caronti, Camaldoli 2007.
66 Il 15 agosto 1929 la Congregazione dei religiosi emanava tre decreti con i quali, dopo un lungo e travagliato processo, approvava le costituzioni, erigeva in congregazione l’abbazia di Casamari e i monasteri di San Domenico, Valvisciolo, Cotrino e Martano da essa dipendenti, ed elevava il priore Angelo Savastano alla dignità abbaziale; Cfr. L. Molignini, Gli abati claustrali dell’abbazia di Casamari, cit., p. 223.
67 L.J. Lekai, I cistercensi, cit., pp. 266-267.
68 Ibidem, p. 269.
69 M.I. Sutto, I monasteri benedettini femminili in Italia dopo l’età delle soppressioni, in Il monachesimo in Italia, cit., pp. 294-295.
70 Per le vicende di Marta (Emmanuela) Moretti, Leonilda (Maria Ildegarde) Cabitza, Marzia (Eugenia) Pietromarchi e Peppina (Maria Giovanna) Dore, cfr. G. Spinelli, Per la storia del monachesimo femminile italiano del Novecento: cinque vergini sagge nell’età di Margherita Marchi, in Margherita Marchi (1901-1956) e le origini delle Benedettine di Viboldone. Saggi e ricerche nel 50° della morte, a cura di M. Tagliabue, Milano 2007, pp. 85-101.
71 Sul personaggio cfr. ad es. I. Schuster, Una grande abbadessa benedettina del secolo XX: Maria Cronier, Civitella S. Paolo 1947.
72 G. Zito, Le benedettine dell’adorazione perpetua, cit., pp. 355-360.
73 Cfr. M.G. Brutti, La comunità della madre Marchi, in Margherita Marchi (1901-1956), cit., pp. 355-369. Cfr. anche M.M. Boix, E. Cattaneo, A. Magistretti, et al., M. Margherita Marchi 1901-1956. Tracce per un profilo, Milano 1981.
74 G. Picasso, L’abbazia di Viboldone, Milano 1990; Un monastero alle porte della città, Atti del Convegno per i 650 anni dell’Abbazia di Viboldone, Milano 1999; M. Carpinello, Il monachesimo femminile, Milano 2002; Margherita Marchi (1901-1956) e le origini delle Benedettine di Viboldone. Saggi e ricerche nel 50° della morte, a cura di M. Tagliabue, Milano 2007.
75 M.G. Brutti, La comunità della madre Marchi, cit., p. 363.
76 Vedi G. Vian, Il servizio degli abati pragliesi alla Santa Sede. Visite apostoliche e rapporti con la Curia romana, in Spes una in reditu, cit., pp. 282-286.
77 M.I. Sutto, I monasteri benedettini femminili in Italia dopo l’età delle soppressioni, cit., p. 295.
78 M.M. Morganti, Maria Giovanna Dore, Brescia 2001, pp. 89-98; cfr. G. Spinelli, Per la storia del monachesimo femminile italiano del Novecento, cit., p. 95.
79 Su questo si veda F. Di Domenicantonio, Storia e spiritualità della Congregazione camaldolese degli eremiti di Toscana dall’unità d’Italia al secondo dopoguerra (1866-1951), Tesi di laurea, Università degli Studi di Roma, Facoltà di lettere e filosofia, A.A. 1977/78, p. 488.
80 Sui rapporti tra regime fascista e cenobiti camaldolesi cfr. R. Fornaciari, Eremitismo e cenobitismo in conflitto nell’Ordine camaldolese. La soppressione ecclesiastica dei Monaci Cenobiti nel 1935 e l’abate Emanuele Caronti, Tesi di dottorato, Pontificia Università Gregoriana, Facoltà della storia e dei beni culturali della Chiesa, Roma 2006, pp. 221-234.
81 G. Lunardi, La congregazione sublacense O.S.B., II, cit., p. 160.
82 Fu il caso, ad es., di quattro sublacensi di Parma, tre di Genova e uno di Finalpia, che non fece ritorno dal fronte russo; cfr. G. Lunardi, Subiaco e lo sviluppo della congregazione cassinese, cit., p. 58.
83 Erano fortunatamente sfollate, per volere del cardinale Schuster, le Benedettine dell’adorazione perpetua di Milano nel 1943 quando, a causa di un bombardamento, persero la chiesa e gran parte dei fabbricati del monastero e della scuola di via Bellotti. Le Benedettine di Rosano sfollarono a Firenze dal 13 marzo 1944 al 25 luglio 1945.
84 G. Loparco, Gli ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943-1944) dall’arrivo alla partenza, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 58, 2004, pp. 107-210. Su Praglia cfr. C. Carpanese, P. Gios, Praglia durante la guerra e la resistenza, in Spes una in reditu, a cura di F.G.B. Trolese, cit., pp. 211-215. Per l’opera di padre Beltrame Quattrocchi a Fiume e Parma, cfr. R. Rastrelli Zavattaro, L’avventuriero di Dio. Padre Paolino Beltrame un secolo di fede bruciante, Roma 2010, p. 27.
85 A Praglia trovarono ospitalità le comunità dell’istituto salesiano S. Marco di Monteortone e del seminario teologico di Lubiana, cfr. C. Carpanese, P. Gios, Praglia durante la guerra e la resistenza, cit., pp. 220-222.
86 A Faenza si distinsero le monache del monastero di S. Maglorio, ubicato allora ancora in centro città; cfr. Attualità benedettina in Emilia-Romagna. Numero unico a cura della conferenza dei Superiori benedettini dell’Emilia-Romagna nel XV centenario della nascita di San Benedetto 480-1980, Parma 1980, p. 18.
87 Per Montecassino cfr. M. Dell’Omo, Montecassino, cit., p. 125; Grazie a questo accorgimento Praglia poté evitare l’occupazione militare dei tedeschi e della milizia della Repubblica di Salò, cfr. C. Carpanese, P. Gios, Praglia durante la guerra e la resistenza, cit., pp. 216-217.
88 La certosa di Farneta subì un’irruzione nazista la notte del 1° settembre 1944, tutti i fermati, religiosi e civili, furono deportati a gruppi. Alcuni dei prigionieri furono brutalmente passati per le armi nei dintorni di Massa. Oltre ai civili, persero la vita il priore Martino Binz insieme a undici dei suoi confratelli. La vita nella certosa poté riprendere solo alla fine di dicembre del 1944; cfr. G. Leoncini, L’ordine certosino in Italia tra XIX e XX secolo, cit., pp. 285-286; P. Lazzarini, La Certosa di Farneta, cit., pp. 80-88.
89 Sulla drammatica vicenda esiste una vasta bibliografia. Cfr. ad es. Il bombardamento di Montecassino. Diario di guerra di E. Grossetti – M. Matronola, con altre testimonianze e documenti, a cura di F. Avagliano, Montecassino 1972 (Miscellanea Cassinese, 41); M. Dell’Omo, Montecassino, cit., p. 142.
90 Per Camaldoli cfr. A. Buffadini, Camaldoli nel Casentino in fiamme, Firenze 1946; ora in Casentino in fiamme 1943-1944. Diario di Guerra del P. Superiore di Camaldoli Don Antonio Buffadini. Liber Chronicus del Monastero di Camaldoli redatto da Don Giuseppe Maria Cacciamani, a cura di M. Meschini, Stia 2005.
91 Informazioni su alcune di queste iniziative sono reperibili in Note di cronaca. La Cappella Papale del 18 settembre a S. Paolo; Le altre celebrazioni del XIV centenario di S. Benedetto, «Benedictina», 1, 1947, pp. 333-337; e ibidem, 2, 1948, pp. 177-179, 192.
92 L. Crippa, Nel Cinquantesimo della morte del fondatore di «Benedictina»: Mons. Ildebrando Vannucci OSB (1890-1955), «Benedictina», 52, 2005, pp. 221-228.
93 G. Penco, La prima serie di “Benedictina” (1947-1959): Caratteri e indirizzi, «Benedictina», 54, 2007, pp. 7-22.
94 Cfr. F. Avagliano, Tommaso Leccisotti fondatore di “Benedectina”, «Studia monastica», 25, 1983, pp. 371-388.
95 F. Avagliano, Gregorio Diamare abate di Montecassino (1909-1945), Latina 2005.
96 M. Dell’Omo, Montecassino, cit., p. 137.
97 Cfr. G. Leoncini, L’ordine certosino in Italia, cit., pp. 286-287.
98 Cfr. F. Angelini, L’Uomo delle Beatitudini. Il Servo di Dio Abate Ildebrando Gregori, Roma 2000.
99 Cfr. A. Pantaloni, I Silvestrini, in Il monachesimo nel dopo Concilio, Parma 1981, pp. 234-235.
100 Cfr. J.P. Müller, Lega monastica, in DIP, V, Roma 1979, coll. 577-578.
101 Cfr. G. Tamburrino, I monasteri italiani e la Confederazione benedettina, cit., pp. 36-37.
102 Anche grazie alla fedele collaborazione del suo assistente Aliprando Catani che fu inviato in California con il compito di esplorare la situazione e offrire dialogo e chiarimenti ai confratelli americani da poco tempo entrati nella comunità.
103 Cfr. E. Galavotti, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, Bologna 2006; Giuseppe Dossetti: la fede e la storia. Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna 2007; Giuseppe Dossetti. Studies on an Italian Catholic Reformer, a cura di A. Melloni, Zürich-Berlin 2008; Giuseppe Dossetti 1913-1996, «Vita monastica», 236, 2007; R. Fornaciari, Giuseppe Dossetti (1913-1996) iniziatore della Piccola Famiglia dell’Annunziata, «Claretianum», 48, 2008, pp. 249-278; M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Casale Monferrato 2001, pp. 109-173.
104 L.J. Lekai, I Cistercensi, cit., p. 261.
105 Ibidem, p. 262. Invece per i Cistercensi italiani della comune osservanza cfr. V. Cattana, Storia della Congregazione di San Bernardo in Italia, cit., pp. 41-44.
106 Cfr. E. Massimi, Cipriano Vagaggini bio-bigliografia di un maestro del pensiero teologico, «Rivista liturgica», 96, 2009, pp. 437-448; nello stesso volume la bibliografia delle opere di Vagaggini, pp. 461-471; E. Massimi, L’actuosa participatio in alcuni scritti editi e inediti di Dom Cipriano Vagaggini (1909-1999), Pontificium Athenaeum S. Anselmi de Urbe, Facultas Sacrae Liturgiae, Tesi di licenza, anno accademico 2008/2009. Vagaggini nel 1957 aveva dato alle stampe Il senso teologico della liturgia, considerato l’anello di congiunzione tra l’enciclica Mediator dei e la costituzione conciliare sulla liturgia.
107 C. Vagaggini, S. Bovo, L. De Lorenzi et al., Problemi e orientamenti di spiritualità monastica, biblica e liturgica, Roma 1961; La preghiera nella Bibbia e nella tradizione patristica e monastica, a cura di C. Vagaggini, Roma 1964, Cinisello Balsamo 19882.
108 Cfr. A. Pantaloni, I Silvestrini, cit., pp. 232-233. Per notizie più approfondite sul contesto indiano cfr. B. Kodiampuraydam, Esperienze monastiche cristiane in India, in Il monachesimo nel Terzo Mondo, Roma 1979, pp. 221-223.
109 Cfr. M. Torcivia, Il monachesimo benedettino italiano postconciliare. Lettura del cammino percorso e proposizione di alcuni esempi di rinnovamento, «Claretianum», 41, 2001, pp. 129-179.
110 Cfr. A. Catella, In memoriam P. Pelagio Visentin OSB, «Rivista liturgica», 84, 1997, pp. 763-766; S. Visentin, Il pensiero teologico del padre Pelago Visentin, in Spes una in reditu, cit., pp.189-205.
111 Salvatore Marsili compì i suoi studi nel collegio benedettino di S. Anselmo negli anni 1927-1934, quasi gli stessi di Cipriano Vagaggini. Nel 1958 ricevette l’incarico di insegnare liturgia all’Istituto liturgico di cui fu il primo preside, fino al 1971, cfr. Salvatore Marsilli, OSB. Attualità di una mistagogia, «Rivista liturgica», 95, 2008, pp. 373-565, con l’elenco delle sue opere.
112 Mi riferisco al III convegno monastico intercongregazionale tenutosi a Parma nel 1979, i cui atti sono raccolti nel volume Il monachesimo nel dopo Concilio, Parma 1981 e al convegno organizzato dalla rivista «Testimoni» al Passo della Mendola nel 1986: La vita consacrata a vent’anni dal concilio, Atti del Convegno «Testimoni» (Mendola, 1986), a cura di L. Guccini, Bologna 1986.
113 Cfr. A. Pantaloni, I Silvestrini, cit., pp. 239-240.
114 Cfr. R. Luise, La visione di un monaco. Il futuro della fede e della chiesa nel colloquio con Benedetto Calati, Assisi 2000. Si veda anche B. Calati, Esperienza di Dio libertà spirituale, Gorle 2001. I suoi principali scritti sono raccolti nel volume B. Calati, Sapienza monastica. Saggi di storia, spiritualità e problemi monastici, a cura di A. Cislaghi, G. Remondi, Roma 1994.
115 E. Bargellini, Monaci oggi nella Chiesa, in Monaci camaldolesi, Come acqua di sorgente. La spiritualità camaldolese tra memoria e profezia, a cura di A. Barban, J.H. Wong, Bologna 2005, p. 42.
116 Cfr. M.I. Angelini, Il monaco e la parabola. Saggio sulla spiritualità monastica della ‘lectio divina’, Brescia 1981, p. 24.
117 G. Turbessi, La vita contemplativa. Dottrina tomista e sua relazione alle fonti, Roma 1944; Id., Ascetismo e monachesimo prebenedettino, Roma 1961; Regole monastiche antiche, a cura di G. Turbessi, Roma 1974; Id., Cercare Dio. Nell’ebraismo, nel mondo greco, nella patristica, Roma 1980.
118 Cfr. G. Picasso, Il ritorno della vita monastica a Viboldone. Dal 1941 a oggi, 2004, www.viboldone.it/mon_ritorno.html, (1° giugno 2010).
119 Sulla due federazioni vedi in Il monachesimo nel dopo Concilio, cit., le relazioni di B. Marchetti e C. Beltrame-Quattrocchi, rispettivamente pp. 315-319 e 320-331. Per la federazione delle Benedettine Italia-Nord cfr. 50 anni di vita della Federazione Monache Benedettine Italia Nord 1965-2006, Maniago 2006.
120 «Il rinnovamento della liturgia è stato in tutti i monasteri uno dei punti più delicati e travagliati del post-concilio, proprio per l’importanza che essa ha nella vita di ogni monastero benedettino. In più di un caso, almeno nei primi tempi, la liturgia che doveva essere segno e mezzo di comunione, è stata occasione di dissensi anche prolungati all’interno di una stessa comunità» G. Tamburrino, La Congregazione Sublacense, in Il monachesimo nel dopo concilio, cit., p. 223.
121 Cfr. C. Carini, introduzione a Il monachesimo nel dopo Concilio, cit., pp. 3-4.
122 I. Sutto, Il monachesimo femminile italiano nel post-concilio, in Il monachesimo nel dopo Concilio, cit., pp. 131-132.
123 Ibidem, p. 132
124 Argomenti e relatori in I. Sutto, Storia dei corsi della Abbadesse, 2010, www.benedettineitaliane.org/notizie/ripercorrendo%20la%20nostra%20storia%20comune.pdf.
125 Cfr. M.I. Angelini, Il monaco e la parabola, cit.
126 L’unica eccezione è costituita dalla trappista Maria Gabriella Sagheddu: cfr. M.G. Dore, Suor Maria Gabriella, Brescia 1940; P. Beltrame Quattrocchi, La Beata Maria Gabriella dell’Unità, Vitorchiano 1980.
127 Cfr. L. Saraceno, Il lavoro tra servizio e gratuità, in Monaci camaldolesi, Come acqua di sorgente, cit., pp. 284; Id., Un “lavoro monastico”? Appunti e materiali per una discussione, «Vita monastica», 58, 2004, pp. 9-28.
128 Cfr. G. Nardin, La Congregazione Cassinese; G. Tamburrino, La Congregazione Sublacense, in Il monachesimo nel dopo concilio, cit., pp. 209-211.
129 Cfr. M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, cit. Si veda inoltre Nuove forme di vita consacrata, a cura di R. Fusco, G. Rocca, Roma 2010.
130 R. Masson, Bose. La radicalità del Vangelo, Torino 2007.
131 Cfr. M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, cit., pp. 19-99, 367-379; Id., Il segno di Bose, Casale Monferrato 2003; G. Caffulli, Enzo Bianchi e l’esperienza di Bose, «Mondo e missione», 130, gennaio 2001, pp. 31-46.
132 Cfr. M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, cit., pp. 175-210.
133 Una serie di fascicoli presentano la spiritualità della Fraternità e di don Giuseppe Nardin: Fraternità Monastica Missionaria, Padre Giuseppe Nardin ancora tra noi, Roma 1991; Id., Monachesimo sulle vie del mondo. Giuseppe Nardin monaco fra la gente, a cura di P. Cipriani, Maccarese 2000; Id., Chiamati ad un cammino coraggioso. Riflessioni spirituali di P. Giuseppe Nardin osb, Roma 2004; Id., La risurrezione incarnata nel cuore dell’umanità. Riflessioni spirituali di P. Giuseppe Nardin osb, Maccarese 2005; Id., La chiamata non è un’utopia… Riflessioni di P. Giuseppe Nardin osb, Maccarese 2007; id., Le vie della pace. Giuseppe Nardin monaco tra la gente, Roma 2010.
134 Cfr. M.T. Pontara Pederiva, Giuseppe Nardin monaco nella storia. Un benedettino sulla frontiera del rinnovamento, Bologna 2010.
135 Cfr. www.dominustecum.it/monastero.php?idP=1 (10 agosto 2010).
136 Cfr. E. Bianchi, Monachesimo ed ecumenismo, in Monachesimo e vita religiosa, cit., pp. 255-270.
137 Congregazione Camaldolese dell’Ordine di S. Benedetto, Capitolo Generale 1993. Direttive pastorali e delibere, Camaldoli 1993, pp. 15-16.
138 E. Bargellini, Monaci oggi nella Chiesa, in Monaci camaldolesi, Come acqua di sorgente, cit., p. 46; B. Filippetti, Linee di rinnovamento monastico, «Vita monastica», 99, 1969, pp. 215-229.
139 Cfr. L. Lattanzi, Ritorno al deserto, «Testimoni», 9, 2005, pp. 22-29; I. Turina, Il lavoro degli eremiti contemporanei, «Vita monastica», 229, 2004, pp. 86-101; Id., I nuovi eremiti, cit.; e C. Saviozzi, Come gufi nella notte. Storie di eremiti dei nostri giorni, Cinisello Balsamo 2010.
140 Gli oblati secolari benedettini hanno statuti approvati dalla Santa Sede fin dal 1871, poi confermati nel 1904 e nel 1927. All’indomani del concilio Vaticano II, considerando la nuova situazione ecclesiale, si riconobbe l’opportunità di una loro revisione. I nuovi statuti furono approvati quasi all’unanimità nel 1997. Cfr. Monaci e oblati. Camminare insieme, Atti del Convegno di Praglia (1995), a cura di G. Tamburrino, G. Pirolo, Bresseo di Teolo 1997.
141 Ss. Patriarchae Benedicti Familiae confoederatae, Catalogus monasteriorum O.S.B.. Monacorum, editio XX, Romae 2005; Ss. Patriarchae Benedicti Familiae confoederatae communio internationalis Benedictinarum, Catalogus monasteriorum O.S.B. sororum et monialium, editio II, Romae 2006.
142 Cfr. Il ruolo del monachesimo nell’ecumenismo, Atti del Simposio ecumenico internazionale (Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, 2000), a cura di D. Giordano, Monte Oliveto Maggiore 2002.
143 Nel 1977, cresciuto l’interesse per il dialogo con le esperienze monastiche presenti in altre religioni, all’interno dell’Alliance inter-monastères (Aim), fu costituita una commissione dedita a questo scopo denominata Dialogo interreligioso monastico (Dim, in inglese Mid). Nel 1994 il Dim è divenuto autonomo, pur conservando legami profondi con l’Aim. Attualmente è diffuso in tutti i continenti e in tutte le nazioni europee.