Dharmakirti
Filosofo e logico indiano (n. 600 ca.-m. 660 ca.).
Poco sappiamo della vita di Dh., che secondo la tradizione nacque nell’India meridionale da una famiglia brahmanica e ricevette perciò un’istruzione brahmanica. Si sarebbe poi convertito al buddismo e avrebbe vissuto a Nālandā (insieme a Vallabhī il principale centro di studi, come anche di attività rituali, buddisti). Proseguendo l’opera di Dignāga (480 ca. - 540 ca.), maestro del suo maestro Īśvarasena, portò la scuola epistemologica buddista al suo apice. Le sue opere sono state oggetto di numerosi commenti in India e in Tibet, dove sono tuttora parte della formazione superiore. Secondo le ricostruzioni, la sua prima opera fu il *Hetuprakaraṇa («Trattato sulla ragione logica»), pervenutoci come primo capitolo del Pramāṇavārttika («Commento al [Compendio] sui mezzi di valida conoscenza»), opera dedicata a commentare il Pramāṇasamuccaya («Compendio sui mezzi di valida conoscenza») di Dignāga. I suoi quattro capitoli si occupano rispettivamente: (1) delle inferenze non formalizzate in forma sillogistica che ognuno mette in atto per sé (svārthānumāna, ➔ anumāna); (2) del Buddha come mezzo di valida conoscenza (pramāṇa); (3) della percezione diretta (pratyakṣa); (4) delle inferenze in forma sillogistica utilizzate nella comunicazione con gli altri (parārthānumāna). Molto del materiale testuale del Pramāṇavārttika è stato poi riutilizzato da Dh. per un’opera dedicata agli stessi temi, il Pramāṇaviniścaya («Discriminazione concernente i mezzi di valida conoscenza»), di cui il Nyāyabindu («Goccia/essenza della logica») è un compendio. Seguono il Hetubindu («Goccia/essenza della ragione logica»), dedicato allo stesso tema del *Hetuprakaraṇa, e il Vādanyāya («Regole del dibattito»). Appare chiaro già da questo elenco che l’opera di Dh. verte principalmente sul tema dei mezzi di valida conoscenza, tema centrale per l’epistemologia indiana in genere, che fa dipendere dalla loro corretta applicazione la realizzazione della ‘conoscenza valida’ (➔ pramāṇa). Le origini dialettiche di logica ed epistemologia sono invece responsabili dell’interesse per il dibattito (vāda), che Dh. dichiara dover esser volto a stabilire un’opinione certa e non (solo) alla sconfitta dell’avversario. Il fondamento propriamente buddista della scuola epistemologica appare invece evidente soprattutto nel secondo capitolo del Pramāṇavārttika (➔ oltre).
La dottrina della scuola epistemologica buddista (➔ Pramāṇavāda) circa percezione e inferenza ha ricevuto da Dh. la sua impronta fondamentale. Rispetto a Dignāga, un’innovazione di Dh. consiste nell’aver fissato a due le relazioni sulla base delle quali sia possibile condurre un’inferenza corretta. Sulla base di una relazione di identità fra probandum (sādhya, ➔ anumāna) e probans si hanno inferenze valide basate sulla ragione logica di natura essenziale (svabhāva) e non percezione (anupalabdhi). Sulla base di una relazione di causalità fra probandum e probans si hanno invece inferenze valide riguardanti una causa a partire dal suo effetto. Sulla base della ragione logica costituita dalla natura essenziale si può concludere, per es., che la śiṃśapā (l’albero dalbergia sissoo) è un albero. La non percezione serve a spiegare casi di conoscenza valida quali la conoscenza dell’assenza di un vaso qualora si veda un pavimento vuoto, senza dover ricorrere a un mezzo conoscitivo ad hoc, come fanno invece Kumārila e la sua scuola. La relazione causale, infine, permette di inferire che, per es., in un dato luogo c’è del fuoco perché si vede fumo, ossia che, dato un evento, se ne può inferire la causa. Tali relazioni danno luogo a inferenze valide, spiega Dh., perché sono relazioni di cui si fa esperienza nella realtà mondana (in cui il fuoco è la causa del fumo, ecc.).
La trattazione di questo tema in Dh. prende le mosse da un verso di Dignāga in cui il Buddha è detto pramāṇabhūta. I commentatori di Dh. e i suoi interpreti contemporanei si sono a lungo interrogati su questo composto, e lo hanno glossato dicendo o che il Buddha è «come un mezzo di valida conoscenza», o che il Buddha è «diventato un mezzo di valida conoscenza», in seguito al raggiungimento del risveglio (bodhi). Nel primo caso (adottato da Jinendrabuddhi, Devendrabuddhi, Śākyabuddhi) il senso sarebbe che la parola del Buddha non può essere detta direttamente un mezzo di valida conoscenza, giacché la scuola epistemologica buddista non accetta la comunicazione verbale (➔ śabda) come strumento conoscitivo a sé, ma di fatto può essere stabilita inferenzialmente come fonte di conoscenza valida, una volta che si sia stabilita l’affidabilità del suo autore, il Buddha. A questo compito è in effetti dedicato il secondo capitolo del Pramāṇavārttika. Nella seconda interpretazione del composto (propria di Dh.), invece, risalterebbe il fatto che il Buddha sia ‘diventato’ autorevole. La sua autorità è quindi molto più adeguatamente fondata rispetto a quella dei Veda (principale alternativa come fonte di conoscenza del dharma ➔), supposti eterni, ma la cui non eternità, secondo Dh., è dimostrabile. Più in generale, il rapporto fra il singolo verso di Dignāga e il capitolo del Pramāṇavārttika che funge da suo commento mostra come l’apologetica abbia un ruolo maggiore nell’opera di Dh., che contiene fra l’altro un tentativo esplicito di fondare la validità del cammino buddista tramite la fondazione inferenziale delle quattro nobili verità (➔ buddismo). Può forse essere intesa in quest’ottica anche l’accettazione, da parte di Dh., dello yogipratyakṣa («percezione dello yogin», ➔ pratyakṣa), una forma di intuizione intellettuale sorta in contesto meditativo che potrebbe essere stata introdotta nel sistema proprio per spiegare con quale mezzo conoscitivo il Buddha possa aver acquisito contezza di ambiti inaccessibili ai sensi, quali le quattro nobili verità.
Commentatori indiani e tibetani e interpreti contemporanei hanno variamente dibattuto circa l’ontologia di riferimento di Dignāga e Dh.; nell’opera di entrambi è infatti possibile rintracciare elementi della scuola Sautrāntika e altri della scuola Yogācāra. L’opinione prevalente, ma assolutamente non unica, è che i primi siano accettati soltanto a livello provvisorio, mentre in ultima analisi Dignāga e Dh. aderirebbero allo Yogācāra. In tal caso, i passi in cui lo svalakṣaṇa sembra esser inteso come i dharma della scuola Dārṣṭāntika (➔ Abhidharma) sarebbero da intendersi solo funzionalmente alla spiegazione di percezione e inferenza, mentre la realtà sarebbe in ultima analisi soltanto un flusso di attimi coscienziali, privi di ogni oggettualità.
Un’ulteriore innovazione di Dh. consiste nell’elaborazione di una teoria del linguaggio che prescinda dal postulare universali reali e che d’altra parte spieghi come mai sia possibile la comunicazione ordinaria. Infatti, è chiaro che i significati del linguaggio non sono singoli oggetti, né si riferiscono agli svalakṣaṇa o ad attimi di un flusso coscienziale. Essi sono quindi costruzioni concettuali, distanti dalla realtà. Ma se gli oggetti di cui parliamo non esistono se non come concettualizzazioni (vikalpa), la comunicazione dovrebbe non avere alcuna efficacia (come nel caso in cui si dicesse ‘Portami un cerchio quadrato’). Come mai, invece, la comunicazione è efficace? A cosa si riferiscono i termini che adoperiamo e che ci permettono di capirci? Secondo la teoria dell’apoha («esclusione») ogni vocabolo non significa un referente, bensì l’esclusione di tutti gli altri possibili referenti. ‘Mucca’ non indica perciò un referente concreto avente corna, mammelle, zoccoli, ecc. (né potrebbe indicarlo, dato che un tale referente, secondo la scuola epistemologica buddista, non esiste), ma piuttosto l’esclusione di tutti gli altri possibili significati, l’esclusione di tutti i dati diversi. Il termine ‘mucca’ significa quindi ‘non non-mucca’.