DHAMMAPADA
. Questa parola, che significa "massime di religione", costituisce il titolo di un florilegio di sentenze, che il Pavolini ha ben definito "il compendio più antico e genuino della morale buddhista". Le sue 423 strofe appartengono alla letteratura canonica e occupano il secondo posto nel quinto corpus (nikāya) del Suttapiṭaka o "Canestro dei dialoghi". Poiché 152 sentenze hanno riscontro in altri luoghi del canone e 29 in opere brahmaniche - Mahābhārata (20), Mānavadharmaśāstra (8), Hitopadeśa (1) - la silloge si rivela un'opera sincretica, che attinge al comune patrimonio della gnomica indiana e non a fonti esclusivamente buddhistiche. Forse tutta l'originalità del compilatore si riduce all'ordinamento della materia in 26 brevi capitoli (vagga) di 10-20 strofe, le quali o si riferiscono allo stesso argomento ovvero hanno in comune una similitudine o un ritornello. Gli ultimi capitoli sono alquanto più lunghi e il vagga finale raggiunge le quaranta strofe. I versi famosi, che la leggenda pone sulle labbra del Buddha dopo l'acquisto della chiaroveggenza, ci sono stati tramandati dal Dhammapada, XI, 153-154.
Bibl.: Dhammapada, ed. della Pāli Text Society, Londra 1914; trad. da P. E. Pavolini, in Rinnovamento, II, Milano 1908, fasc. 5-6. M. Winternitz, Geschichte der ind. Litteratur, II, Lipsia 1920, pp. 63-65.