Devozioni e politica
In pressoché totale controtendenza con l’attuale mainstream, mi sembra fondato sostenere che le devozioni e le nuove santità sociali e mistiche italiane, a partire dalla fine dell’Ottocento, alimentino il significativo contributo del cattolicesimo italiano alla costruzione dell’identità nazionale italiana:
«Tra Otto e Novecento affiora una sorta di riscoperta di San Benedetto, una conciliazione tra opus Dei e opus manuum, un giusto apprezzamento delle potenzialità trasformatrici dei singoli e del lavoro collettivo, una santità della vita ordinaria, non più quindi segregata dal tempo storico, ma tesa, invece, a farlo meno difforme dalle speranze insite nella propria ispirazione. È un’attenzione al moderno che evita puntualmente la separatezza come la subalternità, che ignora l’anatema ma non indulge certo nel mimetismo. Sono dei grandi italiani dediti alla ricostruzione del Paese, alla riscoperta del suo fondamento cristiano: una storia tutta da scrivere»1.
Così si esprimeva Giorgio Rumi nel 1995 auspicando che la memoria di ‘questi grandi italiani’ venisse sottratta al culto dei rispettivi devoti per essere restituita alla coscienza comune italiana: devozioni, culti e santità non sono contrapposti alla formazione dell’identità nazionale ma anzi costituiscono un ricco patrimonio cui poter attingere tutti.
L’evoluzione di queste espressioni religiose ha dimostrato inoltre quello che ormai nessuno studioso serio dei fenomeni religiosi potrebbe contestare e cioè che non si possono relegare questi fenomeni a una dimensione periferica e secondaria della modernità, destinata a esaurirsi con l’avanzare della secolarizzazione ma che anzi essi ne costituiscono uno dei più significativi indicatori, spie quanto mai illuminanti dei mutamenti della contemporaneità.
Nel clima religioso del primo ventennio postunitario sono compresenti due tendenze apparentemente opposte: da una parte la devozione personale, protesa alla richiesta di protezione e di grazie assolutamente individuali, fortemente dolorista, accompagnata sovente da severe pratiche ascetiche, e dall’altra la devozione come fatto sociale, sia nelle forme collettive della pietà personale, sia nella loro ostentata ritualizzazione attraverso un uso dichiaratamente politico. I culti portanti di tutta la devozione ottocentesca, oltre a quelli di Cristo e di Maria, sono rivolti al Sacro Cuore, all’angelo custode e ai santi protettori:
«Eglino possono colle loro preghiere liberarci dai mali che ci minacciano e ottenerci i beni dei quali manchiamo, tanto riguardo al corpo, quanto a riguardo dello spirito… Egli è perciò che, dopo la devozione verso Maria Santissima, noi dobbiamo coltivare la devozione verso gli Angeli e i Santi, onorandoli raccomandandoci alle loro preghiere. Primariamente dobbiamo onorare il nostro Angelo Custode e raccomandarci a lui perché ci aiuti nei nostri bisogni»2.
Così scrive nel 1867 don Giuseppe Frassinetti in La devozione illuminata.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento le devozioni rispondono sempre di più a quell’unificante ispirazione di s. Francesco di Sales che non concepiva più un confine tra vita contemplativa e attività umana. Le devozioni dovevano compenetrarsi con tutti gli ambiti della vita quotidiana: «Pretendere di eliminare la vita devota dalla caserma del soldato, dalla bottega dell’artigiano, dalla corte del principe, dall’intimità degli sposi è un errore, anzi un’eresia»3.
In un pionieristico studio condotto verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, Mario Bendiscioli ripercorre le espressioni devozionali personali e collettive attraverso i manuali di devozione più diffusi nell’Italia settentrionale del ventennio postunitario4. Ne emerge con chiarezza l’influenza di s. Francesco di Sales (La Filotea ossia introduzione alla vita devota,1608) e del suo ‘concorrente’, per diffusione e prestigio, s. Alfonso Maria de’ Liguori (Considerazioni sulle massime eterne, 1758). Nelle devozioni ottocentesche, oltre agli influssi dei Domenicani e dei Gesuiti, sono presenti echi delle tradizioni più antiche, medievali e visionarie (il Manuale di pietà tratto dalle opere di Santa Gertrude, 1881).
Un’attenzione speciale è riservata alle espressioni devozionali più specificatamente femminili; la crescente femminilizzazione della Chiesa è supportata da un corredo di indicazioni pratiche e liturgiche per le donne, perché possano, con le preghiere e con le azioni, venire in soccorso a una Chiesa sempre più abbandonata dagli uomini e dai ceti colti. Diretto al mondo femminile è il libro di pietà di don Bosco, La Figlia cristiana provveduta per la pratica de’ suoi doveri negli esercizi di cristiana pietà (1890) e il manuale di Isabella Scopoli Biasi (Elevazioni a Dio a uso delle donne cristiane, 1873). Non è sufficiente pregare per le proprie famiglie, le donne sono chiamate a esprimere, con sollecitudine e zelo, quella solidarietà alla Chiesa che sarà parte sempre più integrante della loro vocazione religiosa. Alle ‘orazioni’ dopo il Gloria è suggerito di pregare così: «Mi unisco colla S. Chiesa a pregarti, o Dio, nel tuo Spirito, e ti chiedo tutte le grazie ch’ella ti chiede […].Ti prego per il re e lo stato, affinché tu lo regga e santifichi»5.
Il dolore e la colpa, il pentimento e l’espiazione sono il cuore sia della devozione personale sia della espressione pubblica, quale tangibile penitenza volta a riscattare i peccati indotti dalla secolarizzazione, nella forma della ‘contrizione’, come dolore per l’amore di Dio offeso, o dell’‘attrizione’, cioè del dolore per il timore delle conseguenze del peccato.
In assoluto spirito controriformistico «il sacramento della Penitenza è un battesimo laborioso, come si esprime il Sacro Concilio di Trento; la più grande prova, a cui possa essere messo l’amor proprio dell’uomo; è un impegno a praticare le opere difficili e disgustose della soddisfazione», si legge in un manuale molto diffuso: il Manuale di Filotea del milanese don Giuseppe Riva6, penitenziere del duomo, che predispone istruzioni su tutte le pratiche devozionali relative ai santi, alle feste, alle novene e ai pellegrinaggi, rappresentativo non solo perché abbraccia un campo devozionale tanto ampio, ma anche perché ha sempre come riferimento il modello per eccellenza nella ‘pietà italiana’ e cioè La Filotea di s. Francesco di Sales (1608).
In assenza di messali, inesistenti anche solo per accompagnare la messa domenicale, i manuali di devozione offrono suggerimenti per seguire la liturgia in forma individuale: la partecipazione alla messa era assai lontana dall’idea della cena comunitaria. L’accompagnamento devoto alla messa si presenta per lo più come una serie di preghiere propiziatorie, formulate, nella prima parte, con generici riferimenti al Nuovo Testamento, mentre nella seconda il tema redentivo si focalizza massimamente sul sacrifico della croce. Altri manuali suggeriscono ‘effusioni lirico-sentimentali’ o considerazioni ‘morali-edificative’; in esse trovano posto anche petizioni per bisogni particolari di natura moral-ascetica, ma anche materiale.
«L’impostazione comune rimane, pertanto, sostanzialmente quella della pietà personale, che guarda all’Io, nella prospettiva delle esigenze di Dio, ma anche delle proprie, valorizzando la messa come fonte di grazie particolari e generali. Il carattere di memoriale della Cena e quindi il tratto comunitario della messa rimane del tutto trascurato o in piena penombra»7.
Il rosario diventa sempre di più una devozione e una preghiera praticata sia individualmente, sia comunitariamente. La sua recita, insieme a quella delle stazioni della via crucis, vengono introdotte stabilmente nella messa: papa Leone XIII, raccomanderà poi la recitazione del rosario durante la messa, accompagnata dalla meditazione dei misteri dolorosi, per realizzare una partecipazione più affettiva al sacrificio di Cristo rinnovando la partecipazione della messa stessa8.
Il rispetto del digiuno e quello del riposo festivo diventano pratiche esteriori che accompagnano la devozione: l’impegno ascetico si combina invero con l’intento di testimoniare il proprio lealismo ecclesiastico, la propria fedeltà alla Chiesa in una società che si vien secolarizzando nelle istituzioni e nella cultura. A questo scopo si creano leghe per il riposo festivo, con spirito polemico, nell’intento di difendere il giorno festivo come spazio sacro, non invaso da occupazioni che non siano rivolte al Signore, che possano distogliere dal senso religioso della domenica e soprattutto che non siano sguaiatamente ricreative.
Ma il rigore liturgico, il digiuno fino alla mezzanotte del giorno prima o l’astinenza dei rapporti matrimoniali prima di accostarsi alla comunione si accompagnano all’esortazione affinché venga incrementata la pratica dei sacramenti. La campagna per la comunione più frequente, infatti, non rientrava semplicemente nello spirito della controrivoluzione, come dimostrava il successo del libro tradotto in italiano proprio alla vigilia della Rivoluzione francese De la fréquente communion di Antoine Arnauld, pubblicato a Milano nel 1789.
Nella seconda metà dell’Ottocento l’influenza dello spirito alfonsiano sulla formazione dei sacerdoti promuove una maggior interiorizzazione delle funzioni liturgiche; si supera quello spirito drammaturgico che connotava l’elevazione dell’ostia durante la celebrazione della messa che, a sua volta, esibisce sempre meno i tratti di pura ritualità propiziatoria.
Un certo andamento devozionale ottocentesco – le cui pratiche eccessivamente esteriori rischiavano vere e proprie forme superstiziose – cominciavano, del resto, a esser sempre più oggetto di severi giudizi critici.
Si afferma il cosiddetto metodo storico-critico: alla storia e alla sua nuda ‘verità’ dovranno essere sottoposte opinioni e suggestioni, alla luce della sua dura prova si scandaglierà anche il mondo delle devozioni religiose. Leone XIII, nella lettera scritta il 18 agosto 1883 in occasione dell’apertura al pubblico dell’Archivio Segreto Vaticano, così raccomanda:
«Ai nudi racconti si opponga la faticosa e paziente investigazione; alla leggerezza del sentenziare la maturità de’ giudizi; al capriccio delle opinioni la salvezza della critica. I fatti travisati o supposti si faccia il possibile a fin di restituirli alla vera luce col ricorrere alle fonti; e a questo in special modo gli scrittori pongano ben mente esser primaria legge della storia, non osare dire nulla di falso, né tacere nulla di vero; che niun sospetto appaia nello scrivere di favore, niuno di odio»9.
Succederà con gli studi di Henri Bremond, di Giuseppe De Luca e di tutto il pensiero modernista che sottoporranno anche le devozioni al vaglio della ricostruzione storico-critica, fatta di rigore filologico, di ricorso alle fonti, di quella continua distinzione tra il piano della fede e quello delle prove per concludere che la fede non ha ‘bisogno’ dei miracoli, come prova, ma solo come sua calda espressione. Non è l’eccezionalità dell’evento, di un soprannaturale che magicamente fa ‘uscire’ dai parametri del naturale, ma è l’‘entrare’ del soprannaturale nella condizione umana naturale il movimento che rende la devozione frutto della grazia, e non del bisogno superstizioso. Il movimento dell’ingresso del soprannaturale nella natura, il divino nell’umano: non viceversa.
Sono tanti gli esempi di questo difficile passaggio, quello cioè di una assunzione delle pratiche di devozione distillate sempre più in un’interiorità adorante che però non sia rarefatta, troppo soggettiva e disordinata. È interessante a questo proposito vedere come le pratiche devozionali subiscano una ‘purificazione’ a opera delle influenze moderniste, che incide nella formazione del clero in un senso di sobrietà, peraltro considerata troppo pericolosa dalle gerarchie.
Un esempio illuminante lo troviamo nel sacerdote faentino Francesco Lanzoni, al quale si ispireranno generazioni di sacerdoti emiliano-romagnoli. Nel 1891 egli scriveva nei suoi diari spirituali:
«Bisogna pregare, pregare, pregare, attendere molto dalla preghiera. Una volta facevi molta stima degli esercizi di pietà, ti rincresceva di lasciarli, t’adoperavi a farli bene quanto potevi, eri rigoroso in questo… Ogni giorno facevi quei fioretti alla beata Vergine. Una volta facevi conto della devozione al Sacro cuore di Gesù. Lo tenevi nel primo anno del tuo sacerdozio sempre avanti a te nel tavolino da studio e lo pregavi spesso… E se non li mantenessi?… Prega Iddio e la Vergine che ti diano la santa perseveranza»10.
Eppure, già nella seconda metà dell’Ottocento il tabernacolo con il SS. Sacramento era divenuto meta di colloqui interiori, di contemplazione adorante: la pura preghiera si allargava in un respiro fiducioso. Del gran mezzo della preghiera per conseguire la salute eterna, di s. Alfonso Maria de’ Liguori, è stato considerato il libro più indicativo della spiritualità predominante dell’Italia dell’Ottocento11.
L’incalzare degli eventi rivoluzionari, l’irruzione della ‘politica’ nella vita religiosa non attivarono solo la Chiesa contro i nemici della fede, ma allenarono gli occhi e i cuori anche a vedere la presenza divina nel tumultuoso precipitare degli accadimenti.
Quella che – mirabilmente espressa nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni – sarà la visione provvidenziale della storia, porta anche a una crescente e sempre più interiore consapevolezza del peso e della presenza di Dio nella storia e nell’agire umano. Una presenza che non viene strumentalizzata a fini ‘politici’, che non viene vissuta nella religiosità dei semplici come punitiva e vendicatrice, ma neppure solo riparatrice. Più semplicemente Dio viene interiorizzato, manzonianamente, come misericordioso e infinitamente buono. Alla genuina, assoluta bontà di Dio si affideranno devozioni legate alla carità, sostenute da personalità come Giovanni Bosco e Giuseppe Benedetto Cottolengo, per il quale «il tema dell’abbandono nelle mani di Dio provvidente è inculcato quotidianamente. L’espressione “Deo gratias” diventa come un intercalare e una formula di saluto»12.
Intorno alla figura di papa Pio IX, alla sua immagine di prigioniero in Vaticano, s’incrementò una vera e propria devozione, composta di un corredo ricco e fantasioso, fatto di reliquie, come i pezzettini di paglia del suo giaciglio, di immagini che lo ritraevano in catene, riproduzione materiale di quei ‘vincoli’ che ne rappresentavano la condizione di carcerato, al pari di quel S. Pietro in Vincoli che era modello e icona di tutti i pontefici assediati dalla modernità.
L’aura di santità dei pontefici, molto sentita per i primi nove secoli, quando s’identificava con il martirio stesso o con la sua rappresentazione metaforica, viene lasciata sempre più in ombra in epoca postridentina, per rinascere prepotentemente nello scontro con la modernità a cavallo tra Sette e Ottocento. La contrapposizione ‘papa-mondo’ mette il successore di Pietro in una costante, endemica condizione di prigionia, di vera e propria vessazione corporale13.
È un martirio simbolico e anche fisico perpetrato dai nuovi pagani, figli della filiazione luciferina, che dalla ribellione di Lutero origina la Rivoluzione francese, quello che vivono i papi Pio VI e Pio VII. Con Pio IX, tuttavia, la devozione al papa raggiunge un’incontenibile dedizione popolare. Se ne riscopre la fisicità, umiliata e mortificata quando la Repubblica romana costringe Pio IX a fuggire a Gaeta o quando la sua salma verrà traslata tra disordini e tumulti. Il corpo fatto prigioniero, ridotto in catene, ‘vincoli’ che, sulle orme di Pietro, diventano già in vita metonimici della santità del pontefice e di tutti i pontefici in lotta contro il nemico esterno più temibile: la modernità.
Le minacce della modernità attualizzano il martirio della Chiesa delle origini.
Nella seconda metà del secolo XIX, gran parte della letteratura apologetica cattolica compiva un parallelo tra le persecuzioni dei governi liberali e quella dei martiri, vittime degli imperatori romani. La riproduzione della statua medievale di un s. Pietro bronzeo che i pellegrini francesi riportavano come souvenir, diventa, nella seconda metà dell’Ottocento, il simbolo di una devozione al primo papa martire, antesignano di tutte le future prigionie pontificie.
Nel 1877 Pio IX dispose una speciale indulgenza per chi la conservasse nella propria casa e ne baciasse il piede all’uso dei pellegrini a Roma. Allo stesso modo, i ‘vincoli’ e le catene in tutte le possibili varianti e riproduzioni diventano oggetti di culto ‘contro’ i nemici del papa che lo costringono in prigionia. Le catene a loro volta sono usate anche dalla propaganda avversa per dipingere i papalini che incatenano l’Italia.
Pio IX assocerà sempre la sua figura al culto delle catene, riprodotte come dicevamo nelle più efficaci varianti: il pontefice è ritratto in preghiera dietro le sbarre e nel lucchetto che sigilla le catene è evidente lo stemma araldico della dinastia dei Savoia.
È un culto che supera i confini della Stato pontificio e dell’Europa per diventare un accorato appello mondiale che si estende fin alle Americhe, anche se la nazione che più sentirà vivo e vicino il suo martirio fino a farne un culto veramente strutturato è naturalmente la Francia: un fenomeno che lo storico Marcel Launay definì con la fortunata espressione papolatrie14.
Non certo specificatamente italiana, quella al papa prigioniero e martire è una devozione che nasce quando, con la fine dell’intesa trono-altare, le Chiese e i fedeli europei non si sentono più protetti dagli imperi, sono alla ricerca di una protezione che plachi l’insicurezza di cattolicesimi differentemente segnati dal Kulturkampf, dal giuseppinismo, dall’ultramontanismo. E rivolgono gli occhi e il cuore a Roma e al pontefice. Il giubileo episcopale del 1877, che vede coinvolti gli episcopati dell’Europa e delle Americhe porta a Roma tanti pellegrini che riproducono ogni tipo di reliquie, mettendole a contatto con gli oggetti di culto, in primis naturalmente catene e catenelle.
Un culto che non si limita a manifestazioni esteriori di forza e di appartenenza ma che fa appello, e con successo, a un sentito coinvolgimento affettivo che tocca il cuore dei fedeli. «La Civiltà cattolica» parla di «tenerezza di devozione», che a proposito dei tre giubilei festeggiati così commenta:
«Egli è stato visitato, consolato, regalato, venerato, applaudito, esaltato da un continuo accorrere di pellegrini da ogni parte del globo, i quali senza interruzione, si succedevano e decantavano le meraviglie di Dio nel suo Pontefice. Egli vi è stato oggetto della tenerezza di tutta la cristianità, delizia di ogni cuore credente, speranza e sostegno di tutte le anime viventi in Cristo per l’amore»15.
Un’empatia che era venuta crescendo con il peggiorare delle condizioni di salute dell’anziano pontefice, dei quali i fedeli riscoprono quel senso di paternità, ferita e umiliata, che li fa sentire figli protetti e quasi colpevolmente responsabili delle sue sofferenze. Una pietà, che comunque ammorbidisce lo spirito battagliero della sua difesa, trasformatasi nel compassionevole accompagnamento alla morte, nel bisogno di consolazione e benedizione.
La dévotion au pape degli ultramontani si veicola prevalentemente nei pellegrinaggi che, favoriti dallo sviluppo delle ferrovie, vengono ora vissuti come la ‘nuova crociata’, volta non tanto a liberare la Roma papale quale nuova Gerusalemme, quanto il corpo stesso del papa. Nel percorso che porta alla caduta del potere temporale è sempre meno Roma, ‘la città sacra’, da salvare e sempre più la figura del pontefice, il suo corpo prigioniero, le sue doti miracolistiche, le sue sofferenze, la sua materialità soprannaturale.
Una vera e propria devozione strutturata eppure non facilmente governabile dall’alto, come si vide dall’impatto simbolico fortissimo che ebbe la vicenda della processione che accompagnò la salma di Pio IX, nello sfondo di una Roma attonita, lungo quelle vie nelle quali dal 1876 il governo aveva vietato si svolgessero processioni pubbliche16.
I pellegrinaggi e anche più semplicemente le processioni si confermano come gli strumenti ancora più preziosi per quel nuovo movimento cattolico che con il pontificato di Leone XIII si esprime nelle forme politico-sociali. Le manifestazioni devozionali pubbliche, nel suo pontificato, assumono un carattere meno difensivo, meno oppositivo verso le idee patriottiche e laiche. Il piano sociale è piuttosto palestra per sperimentare nuove e inventive forme caritative, il riferimento costante a s. Vincenzo de’ Paoli si accompagna alle devozioni dei ‘santi sociali’ e alle opere, quella della società di mutuo soccorso, delle casse rurali, dei patronati e infine delle leghe operaie17. Come afferma Gianbattista Paganuzzi, nel suo discorso del dicembre 1898 sull’attività dell’Opera dei congressi da lui presieduta
«Le nostre grandi manifestazioni nazionali cominciarono con la fede e finirono coll’azione feconda. I grandi pellegrinaggi ai santuari della Vergine di Loreto, a Monte Berico, a Monte Senario, ai piedi del santo padre condussero i cattolici italiani ai grandi congressi di Torino, di Fiesole, di Milano»18.
O ancora:
«I pellegrinaggi [scriveva sul bollettino dell’Opera dei Congressi Enrico Massara, esponente dell’ala più decisa dell’intransigentismo in Lombardia] giovano per tante ragioni; ebbene si facciano, si ripetano, si esaltino, si dirigano a vantaggio dell’Opera, ed ai framassoni che ci vogliono morti, mostriamoci vivi non solo, ma in fazione al nostro posto, colle nostre armi spirituali, la croce e la Corona, al grido di Viva il papa! Viva l’Italia Cattolica»19.
Da sponde cattolico-liberali venivano avanzate le consuete critiche alle possibili derive superstiziose in nome di una fede più sobria e interiore20, polemiche che venivano riprese nell’ambito dello scontro tra l’Opera dei congressi e l’organizzazione della Gioventù cattolica.
Il sacro, esibito pubblicamente, divide i cattolici perché entra direttamente in concorrenza con i riti civili, le commemorazioni dei miti risorgimentali. S’ingaggia così un vero e proprio conflitto sulle lapidi, i monumenti, i nomi delle strade: uno scontro sui simboli della religione civile che si ricomporrà solo con i monumenti al milite ignoto, i sacrari e gli ossari delle guerre mondiali che diventeranno forme di santuari laici e religiosi insieme. L’edificio religioso dei ‘caduti della patria’ diventerà:
«una forma di mutua convalida fra autorità ecclesiastica e laica che non aveva potuto avere corso dopo le divisioni e i radicali contrasti tra la Chiesa di Pio IX e il Risorgimento scomunicato […]. Il presidio in comune di uno spazio sacro che dall’edificio parrocchiale si protende verso quella sorta di altare all’aperto che […] i riti, la celebrazione della messa faranno diventare monumento ai caduti, è un passo successivo che le autorità civili e religiose compiono con naturalezza»21.
Tra i tanti episodi di scontri uno dei più noti fu la sostituzione dell’epigrafe di Felice Cavallotti con l’effige di Garibaldi a Loreto che recita: «Loreto / nota ai due mondi / per i miracoli della superstizione / qui / con affetto, con orgoglio italiano / scrive il tuo nome / o Garibaldi / o liberatore / che terribile e buono / ai due mondi portavi / i miracoli / dell’amore armato»22.
Il confronto con i pellegrinaggi laici più studiati – quello al Pantheon nel gennaio del 1884 in occasione del venticinquesimo anniversario del Risorgimento italiano e quello a Porta Pia nel 1895, voluto dal governo per solennizzare il venticinquesimo anniversario della breccia di Porta Pia – si misurava sulla sacralità degli atti fondativi dei nuovi regimi politici. La concorrenza con cotanto valore mitico-simbolico poteva ben essere sostenuto, per esempio dal mito fondativo di Loreto, dato che la casa di Nazaret era in grado di evocare un passato ancora tangibile, sacro eppure distante, anzi, alla portata di tutti, accostabile in modalità addirittura fisiche. I gesti dei fedeli a Loreto traducevano con inequivocabile chiarezza tali convincimenti, quando per esempio percorrevano in ginocchio il perimetro della Santa Casa, baciavano i fregi e le immagini, ma soprattutto sfioravano le ‘sante pietre’, asportandone frammenti, o raccoglievano ‘la polvere della Santa Casa’.
Le celebrazioni indette nel 1894 per ricordare il VI centenario dell’inizio del culto mariano a Loreto spinsero anche a un riesame della sua storia. Protagonisti furono Ulisse Chevalier, il principale oppositore dell’identificazione della cappella di Loreto con la casa della Madonna, e il gesuita Ilario Rinieri, il maggior difensore della tradizione lauretana23.
Questa discussione diventa emblematica dei limiti d’un approccio solo storicistico, palesemente inadeguato a dar conto di una tradizione così intrisa di elementi mitico-simbolico-favolistici: la dimora della Vergine prodigiosamente trasportata con un volo di angeli fin dal 1294, costituiva un intreccio insolubile tra storia e leggenda, tra arte e archeologia, tra mito e dogma. Per non parlare delle implicazioni del ‘santuario-replica’, uno di quei santuari cioè sorti in occidente a seguito dell’occupazione islamica per ‘rimpiazzare’ i perduti santuari della Palestina24.
Il santuario di Loreto galvanizzava le energie intransigenti anche per l’avvicinarsi delle feste centenarie della Santa Casa del 1894-1895 e per l’indulgenza plenaria che Leone XIII aveva concesso nel 1891 a chi vi partecipava. Ciò corrispondeva a una idea generale dell’Opera dei congressi, sotto la direzione di Paganuzzi, la cui forza era accresciuta dopo la delusione delle speranze conciliatoriste del 1887. I pellegrinaggi non si limitavano a essere un investimento episodico e occasionale, ma su di essi convergevano un consistente sforzo organizzativo e una strategia mirata del movimento intransigente che li inglobava in quella più prettamente politica, come si vede anche dalle preoccupazioni del prefetto di Padova per le influenze sulle elezioni.
«Il fatto del pellegrinaggio – scrive il prefetto di Padova nel dicembre del 1892 – non avrebbe certo per se stesso alcuna importanza se, a quanto mi viene riferito, esso non nascondesse lo scopo di stabilire un’organizzazione di comitati parrocchiali elettorali per fare scrivere i contadini nelle liste amministrative ed esercitare maggiore influenza nelle elezioni amministrative e politiche»25.
Il culto antoniano e il suo santuario risultarono legati, dopo il 1870, al successivo movimento ‘intransigentista’, nel quale tanta parte ebbero proprio le finalità devozionali e di pietà. A Padova, dopo l’annessione del Veneto, si configurò quella che Gabriele De Rosa ha definito «un’attività pietistica»26: negli anni Ottanta e Novanta e soprattutto in occasione del VII centenario della nascita di s. Antonio, Leone XIII rilanciò il suo culto proclamandolo ‘santo di tutto il mondo’.
Del resto, via via che il movimento mariano e la devozione alla Vergine stemperavano i toni più irriducibilmente bellicosi e militanti – è del 1895 il primo congresso mariano nazionale – il culto mariano diventa sempre meno un’arma in mano agli intransigenti per essere assimilato e valorizzato da tutte le anime della cattolicità, come si vede per esempio nel discorso pronunciato da Giacomo Radini Tedeschi al decimo congresso cattolico a Genova nell’ottobre del 1892.
E infatti il culto mariano, che è la devozione per eccellenza dell’Ottocento con le sue grandi apparizioni di La Salette (1846), di Lourdes (1858) e di Fatima (1917), meriterebbe un approfondimento a sé che non è possibile in questa sede.
Quella alla Vergine Maria è ben più che una devozione, rappresentando la sua figura, fin dall’origine, il centro stesso delle più importanti controversie cristologiche, che dai primi secoli arrivano fino alla contemporaneità, quando si concludono con la proclamazione dei due dogmi dell’Immacolata Concezione (1854) e dell’Assunzione (1950). La tradizione devozionistica meditteranea e italiana in particolare daranno al culto mariano una centralità tutta speciale per il ruolo della donna e della madre in quelle civiltà.
Ossimoro periodizzante della storia contemporanea, la Grande guerra rappresenta il nostalgico rimpianto della tradizione e, insieme, l’attesa trepidante verso la piena secolarizzazione. Concentrato mitico-religioso di profetismi millenaristi, la Grande guerra è vissuta come un evento sacro-salvifico che per le potenze centrali significa identificazione tra fede nella nazione e fede cristiana. ‘Dio sta dalla parte degli Imperi centrali’ ripete non un oscuro parroco bavarese ma l’arcivescovo di Monaco Michael von Faulhaber, figura centrale del cattolicesimo tedesco per i decenni seguenti.
I cattolicesimi dei vari paesi sono gli uni contro gli altri armati. I cattolici tedeschi rinfacciando a quelli francesi di non essere abbastanza cattolici, i francesi di essere solo loro i beniamini della Vergine. Superate le antiche ostilità e le continue diffidenze verso gli stati nazionali, i cattolicesimi europei non solo s’identificano con le sorti delle loro nazioni, ma ne diventano gli strenui paladini: lo spirito universalistico della cattolicità si trasforma spesso in una deriva pericolosamente vicina ai nazionalismi, che mandano a gambe all’aria vecchi steccati e antiche divisioni.
Non hanno il successo sperato i tentavi di contenere il ‘nazionalismo cattolico’, concedendo ampia autonomia alle realtà ecclesiastiche degli episcopati nazionali come prescrive il nuovo Codex Iuris Canonici del 1917; del pari, cade nel vuoto l’invocazione di Benedetto XV a interrompere ‘l’inutile strage’, un appello di cui neppure le diverse cattolicità colgono il profondo significato religioso e la lungimirante intuizione politico-diplomatica.
La sintonia del progetto di restaurazione cristiana della società con il carattere apocalittico del mito rigeneratore della guerra rischia di sfuggire, nei suoi eccessi, a un pontificato che potrebbe cominciare a godere dei migliori frutti spirituali della fine del temporalismo. I valori della comunità, del sentimento unificante, di quella religiosità intrisa nello spirito degli imperi centrali, così mirabilmente riassunti da Max Scheler, assurgono a metonimia, a modello comune di una nuova non più ghettizzata presenza cristiana nel cuore dell’Europa. Occasione di rigenerazione morale, di purificazione e insieme di accreditamento della propria fedeltà nazionale, il cattolicesimo per la prima volta trova una piena legittimazione nei governi nazionali come nella cultura laica.
In Italia, il carattere mitico e simbolico della Grande guerra non produrrà né il sentimento del nazionalismo cattolico francese né il senso di sacralità con cui combatterono i cattolici tedeschi liberati dal Kulturkampf.
L’anima germanica vive all’estremo quest’intimo conflitto: l’idea di Volk, con il suo riflesso religioso, si nutre di quell’inguaribile nostalgia per un conservatorismo religioso, fondato sull’idea di comunità e di appartenenza che rischiava di essere spazzato via dai nuovi miti del progresso, del razionalismo borghese del tardo impero guglielmino, così sfacciatamente e disperatamente messi in scena dalla Repubblica di Weimar.
Quella tedesca non si limiterà a essere una lotta contro le influenze illuministiche che avrebbero defraudato la fede dei suoi aggettivi, il culto dei santi, delle reliquie, secondo il tradizionale attacco che viene mosso alla secolarizzazione, ma esprime soprattutto il rimpianto per un’Europa cristiana, per la sua unità, tanto evocata da Novalis. L’oggetto del rimpianto è dotato di tale potenza evocativa da risolvere la nostalgia in un rimpianto inconsolabile al punto tale che la nostalgia finisce con l’alimentare se stessa. Una sorta d’impotenza struggente, un sentimento dolente tra realtà e utopia, una cattolicità ferita che non trova sollievo nelle battaglie di rivincita francesi o italiane e che si consola invece solo nella melanconia, in quella Sensucht che non esprime semplicemente la nostalgia (Heimweh) per un oggetto perduto e che dunque può produrre la forza per riconquistarlo, ma che si risolve piuttosto in un sentimento di perdita irreversibile e assoluta. Una condizione di abbandono, esso stesso rifugio crepuscolare che alimenta non certo i miti aggressivi e battaglieri, cari al cattolicesimo francese e italiano – pensiamo a una certa accezione del culto del Sacro Cuore del Cristo Re – ma un dolente snervamento, uno svuotamento che allude alla mancanza di una, neppure pensabile, identità sociale della religione cattolica.
Nel difficile avvicinamento delle cattolicità agli stati borghesi che brandisce l’arma della propaganda religiosa riemerge la predilezione, in tutt’Europa, per il culto mariano. Le devozioni, che lo spirito religioso ottocentesco tedesco condivide con quello italiano, come il culto mariano e soprattutto il Rosario, saranno dunque tradotte in forme molto diverse, incardinate, secondo una sottile influenza romantica, nell’intimità della vita domestica, nell’interiorità di una dimensione personale fortemente accentuata dalla riforma liturgica proposta da Romano Guardini, che saprà cogliere il senso di questa nuova condizione storica della coscienza religiosa tedesca.
La Grande guerra, depone il suo intrinseco spirito religioso in una rivitalizzazione devozionale nazionalistica sul piano pubblico e in una personale richiesta di protezione sul piano intimo. Un’effervescenza di culti e simboli ampiamente studiata e catalogata come vera e propria devozione di guerra.
Da un esame delle preghiere si vede, ad esempio, che la formula retorica classica della richiesta di protezione per tutti i soggetti tristemente coinvolti nel conflitto è interrotta da reiterazioni di tipo marcatamente nazionalistico: «È Iddio che lo vuole, è la Patria che lo domanda!». In un triduo dell’estate del 1915 presso il santuario di Loreto si
«benedice esplicitamente la guerra combattuta nel nome della giustizia, e per la vita di una nazione, la quale sentiva stringersi e soffocarsi dai confini dominati dagli austriaci forti, dal mare reso amaro dalle insidie di una squadra sempre pronta a sparare […] combattuta nel nome della libertà dei nostri fratelli oppressi»27.
Le autorità civili, del resto, erano sempre molto guardinghe verso i sospetti di un eventuale ‘pacifismo cattolico’: gli episodi sono tanti, alcuni minori, altri importanti.
«Monsignor [Luigi] Pellizzo, vescovo di Padova, in una lettera al papa ricordava che la censura militare volle fosse cancellata nel santino ricordo di un soldato sacerdote novello, l’espressione Ostia di pace, riferita all’eucarestia, e quella di regno pacifico riferita al regno di Gesù. Ad evitare ulteriori abusi, il ministro Alfieri provvide con decreto a reprimere ogni forma di propaganda dagli ospedali, sia civili che militari, da parte del personale religioso […]. Lo stesso pontefice con una lettera del giugno 1915, aveva autorizzato […] di aggiungere nelle Litanie Lauretane l’invocazione regina pacis. Ma in varie diocesi, per evitare contestazioni o dissidi con l’autorità civile e politica si cambiano le espressioni»28.
La preghiera più rassicurante restava il rosario, direttamente incoraggiata da Benedetto XV perché tendeva a omogeneizzare e incanalare devozioni eccessivamente emotive o troppo individualistiche. Essa rappresentava un richiamo all’amore e alla reiterazione.
«In questa costanza della preghiera, in quell’insistere di tutta l’umanità nella medesima orazione, vi è la legge dell’amore, vi è la legge del bisogno. L’amore è sempre eloquente. Esso non si stanca mai nel celebrare l’oggetto degli affetti suoi. Il bisogno è sempre insistente, esso non si stanca mai nel ripetere le sue suppliche»29.
Nel clima di censura promossa dai vertici dell’esercito verso l’equazione fra pacifismo e disfattismo di cui venivano accusati i cattolici:
«La preghiera del Rosario appariva quella più innocente e alla portata di tutti, né poteva essere perseguita da motivi politici o militari, perché praticata anche fuori dalle chiese, per cui in molte circostanze essa suppliva, soprattutto nelle zone più esposte ai combattimenti, alla stessa frequentazione delle funzioni religiose nelle chiese»30.
Dopo Caporetto s’intensificano le richieste di salvezza per l’Italia nel rinsaldato clima di unità nazionale (a Venezia il patriarca propone di erigere un tempio al Lido da dedicarsi all’Immacolata, anche a Torino si propone la costruzione d’un nuovo tempio, a Bologna si rilancia la devozione verso la Madonna di S. Luca, a Vicenza, in una solenne processione alla Basilica di Monte Berico, si fa voto di intitolare una nuova chiesa alla Regina della pace).
La popolazione civile resta sullo sfondo nelle suppliche della Prima guerra mondiale e diventa invece, nel corso della Seconda guerra mondiale, protagonista di richieste pressanti, come sta a dimostrare il grande numero di ex voto. Comune alle devozioni di tutte e due le guerre mondiali è lo scarso senso di appartenenza nazionale e tanto meno il ricorso a un santuario nazionale di riferimento, mentre aumentano gli ex voto nei santuari regionali o locali.
Del resto, c’è assai poco di eroico e di nazionale nelle devozioni dei soldati, mentre prevalgono lo sconforto e la disperazione personale. Sono frequenti le devozioni regressive e infantili, come le presunte reliquie, i santini, le medagliette prese spesso dal santuario più vicino al proprio paese: tutte forme che lo stesso Agostino Gemelli, l’unico che tenterà un’uniformità nazionale tramite la consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore, condannerà come superstiziose.
Eppure i riti collettivi legati al Sacro Cuore e le stesse liturgie militari non sono realmente interiorizzate, essendo frutto di una prescrizione che nasce dall’alto, sul modello francese: ciò che prevale davvero è invece il bisogno di affidamento e di rassicurazione di fronte alla paura della guerra che portava
«ad una religiosità, che si potrebbe definire del pericolo e dell’invocazione di grazia […] che mal si integrava negli schemi della civiltà cristiana proposta dai cappellani militari […] [che] viveva di molteplici forme di pietà, volentieri riprese da tradizioni locali, di paese, e [che] in parte si richiamava alle devozioni dei santuari»31.
Come annota un cappellano di fanteria:
«Dalle 16 alle 17, una cinquantina di soldati circa, tutti e[u]gubini, sono usciti fuori in processione, hanno fatto la processione dei ceri, costruiti in legno in segreto, dai soldati stessi, sul medesimo sistema dei veri ceri, che si sogliono portare tutti gli anni in processione a Gubbio»32.
Medagliette, scapolari, abitini, corone servivano per placare l’ansia, spesso, come lamentano i cappellani in guisa però di amuleti e talismani; anche gli ex voto, pur accettati dalla Chiesa divennero sospetti ai cappellani perché queste devozioni esplodevano di fronte al momento più drammatico, per non lasciare alcun segno a grazia ricevuta.
Un universo di segni di pietà ben lontano da quella religione razionale, politica, nazionale e moderna voluta da Agostino Gemelli: in realtà ognuno sceglieva in cuor suo la sua Madonna e il suo santuario di riferimento, più spesso quello del paese d’origine, come testimoniano le decine di migliaia di ex voto nei santuari locali con la richiesta di ritorno a casa o di avere salva la vita degli uomini di famiglia. Non c’è traccia di un legame esplicito del culto del Sacro Cuore a uno o più santuari se non, ovviamente, a quello francese di Paray-le-Monial, a cui andarono in pellegrinaggio anche gli italiani quando ci fu la consacrazione degli eserciti nazionali, secondo direttive impartite dall’alto. Ma anche queste non furono occasioni di particolare successo perché – anche per il tiepido incoraggiamento del papa dell’inutile strage – sarà sempre difficile tradurre lo spirito nazionalista francese in una vera appartenenza italiana del culto del Sacro Cuore.
Come per gli emigrati e anche per i soldati la cultura nazionalistica non avrà mai la meglio sull’identificazione del fedele con la propria Madonna locale, come fu ben sottolineato da Romana Guarnieri: «Le lettere degli emigrati meridionali ai rettori del proprio santuario locale, rivelano un interessante processo di identificazione, non già con il paese natio, bensì con il proprio santuario, per l’emigrato lontano la patria è il santuario, è la sua Madonna»33.
«Volevo un atto di consacrazione proprio della Gioventù femminile»:
«In questa tua prima festa che la nostra Gioventù femminile cattolica italiana come tale, celebra, gradisci o nostro Sacro Cuore, che essa si consacri a te. Ti decretiamo Re dell’associazione nostra come dei nostri cuori. Con Commozione e con gioia ti riconosciamo capo della nostra spirituale famiglia. Nata dal tuo cuore perché eretta dal tuo Vicario, la GFCI vuol essere il giardino fiorito nel quale tu, diletto, possa compiacerti. Vogliamo essere i fiori profumati dei tuoi altari e dei tuoi tabernacoli, le ardenti adoratrici, la difesa appassionata. Prendici a tuoi umili strumenti per l’avvento del Regno sociale del tuo Sacro Cuore»34.
Con il consueto entusiasmo militante e il suo tipico slancio volitivo Armida Barelli consacra il 24 giugno del 1919 la Gioventù femminile cattolica italiana al Sacro Cuore. Una devozione senza riserve; è praticamente impossibile isolare negli scritti della Barelli le espressioni relative al Sacro Cuore: «ogni occasione, di ringraziamento o di richiesta, personale o collettiva, lieta o triste, diventava per lei motivo per appellarsi al Sacro cuore»35.
È dunque interessante seguire la personale pista devozionale di questa pioniera dell’emancipazionismo femminile cattolico perché modello di una totale dedizione al Sacro Cuore e rappresentativa del risvegliarsi di quel protagonismo femminile che, paradossalmente, avrà nel movimento cattolico femminile un importante stimolo, più che un freno.
La devozione al Cuore di Cristo affonda le sue radici in una storia lontana. Nasce in ambito claustrale in seguito alle rivelazioni della visitandina francese Margherita Maria Alacoque, dopo due anni dalla sua entrata (1671) nel monastero della Visitazione di Paray-le-Monial in Borgogna. Diffusasi inizialmente tra i membri dell’aristocrazia, conobbe un portentoso rilancio nel corso dell’Ottocento, penetrando in tutti gli strati sociali fino a raggiungere una diffusione mondiale con l’enciclica Annum Sacrum, con cui Leone XIII, nel maggio 1899, consacrò al Cuore di Gesù il nuovo secolo e tutta la terra.
Il Cuore di Cristo, sanguinante a motivo dei dolori per i mali inferti dalla modernità, era divenuto un oggetto di culto sempre più sentito e invocato, come espiazione e riparazione. I significati politici, palesemente dichiarati all’indomani della Rivoluzione francese, si sposano, nel corso del secolo, con la lotta per l’instaurazione del ‘Regno sociale del Sacro Cuore’, fino a una regalità sociale e politica cristiana attraverso l’edificazione del ‘Regno sociale di Cristo’.
Oltre a questo utilizzo schiettamente restaurativo si svilupparono, nel tempo, diverse specifiche pratiche di pietà connesse al culto del Sacro Cuore: la consacrazione delle famiglie da parte dell’Apostolato della preghiera, gestito dai Gesuiti, e l’«intronizzazione» nelle case, ossia il rito di collocazione in un punto centrale della casa, come in un trono, di un’immagine del Sacro Cuore36. Nella cerimonia, ideata da padre Matheo Crawley, il peruviano «apostolo del S[acro] Cuore», che tanta parte ebbe nella devozione di Armida Barelli per il Cuore di Gesù37, è evidente il riferimento alla regalità di Cristo, sviluppata poi in modo più compiuto da Pio XI nel 1925 con l’enciclica Quas primas38.
Nella prima metà del Novecento, la consacrazione del Sacro Cuore alle famiglie, all’esercito e alla nazione diede a questa devozione una spiccata ispirazione nazionalistica in funzione antiliberale e antisocialista. Il Sacro Cuore potrebbe allora essere considerato come la devozione-modello di un efficace uso delle devozioni in chiave di restaurazione ierocratica39. Eppure esso, per la sua intrinseca vocazione alla pietà, alla misericordia e alla compassione, è nondimeno introiettato nel sentimento personale più intimo. Il Sacro Cuore chiama in causa la fisicità e allude alla parte più evocativa del corpo umano: il cuore fa vivere, il cuore fa amare, il cuore è l’organo per eccellenza del secolo romantico. E infatti il culto del Sacro Cuore di Gesù tocca davvero il cuore della devota e del devoto, nutre i suoi sentimenti, suscita le sue emozioni, alimenta le sue passioni mistiche. E, com’è naturale, esercita un fascino tutto particolare sulla religiosità femminile tardo-ottocentesca, sensibile non solo alle suggestioni ma anche alla vera e propria forza evocativa che il discorso romantico esercita sul sentimento religioso.
Esempi sdolcinati ed estenuati, dolorismi fusionali, identificazioni regressive: infinita è la gamma del devozionismo femminile che s’infiamma per il Sacro Cuore. Ma esiste anche una devozione al Sacro Cuore che pur essendo fatta di dolcezza e di intimità si conserva autentica, ed è quella mirabilmente espressa da Teresa di Lisieux, la quale, sorda ai rumori dell’uso politico del Sacro Cuore, lo sentiva «dans la solitude de ce délicieux cœur à cœur»40.
Non ha propriamente toni di questo tipo il trasporto della Barelli per il Sacro Cuore. Esso possiede infatti tratti più battaglieri: la Barelli non poteva rimanere indifferente soprattutto a un culto che, per la sua forza iconografica, evocativa e politica, aderiva come nessun altro al suo carattere e alla modalità del suo militante proselitismo. Al Sacro Cuore, che divenne il fulcro del suo impegno apostolico, consacrò l’esercito italiano durante la Prima guerra mondiale e l’Università cattolica, mentre alla filiazione del culto del Regno di Cristo furono consacrate la famiglia di laiche francescane, divenute in seguito le Missionarie della Regalità, e poi ancora l’Opera della Regalità.
In Italia, il culto del Sacro Cuore che fino a questo momento viene ‘utilizzato’ a fini temporalistici, assume ora, con la consacrazione dell’esercito e della nazione, come in Francia per esempio, un chiaro valore nazionalista41, molto apprezzato dai vertici militari e dal re. Tuttavia, questo entusiasmo si raffredda ben presto, non appena l’esaltazione nazionalista diventa la via maestra per rilanciare il proselitismo temporalistico di Gemelli. È evidente dallo scontro sui simboli esibiti, come la bandierina del Sacro Cuore che, applicato in sostituzione dello stemma sabaudo nella banda bianca della bandiera del regno, viene duramente condannato, nel febbraio del 1917, dai vertici militari.
La particolare sensibilità ‘femminil-militarista’ della Barelli è decisiva nell’ideare la consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore. È lei che con il suo consueto spirito volitivo in modo quasi padronale lo impone a padre Gemelli, che, a sua volta, lo propose a un benedicente quanto poco entusiasta Benedetto XV il 22 giugno del 191642. Nell’agosto 1916 si costituì il Comitato per la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore, che fu poi promotore di altre iniziative dedicate al Cuore di Gesù, come la stessa Opera della Regalità. La Barelli si occupò della parte organizzativa: propaganda, confezione di coccarde tricolori, spedizione di pacchi al fronte, preparazione di conferenze43. Doti pratiche di eccezionale efficienza, intuizione nel coinvolgere emotivamente larghe masse: propose di consacrare tutto l’esercito italiano contemporaneamente44 piuttosto che per battaglioni, perché la celebrazione di un’unica funzione avrebbe avuto una risonanza esterna e un valore per i partecipanti sicuramente maggiore rispetto a singole cerimonie. La consacrazione collettiva di due milioni di uomini, celebrata il primo venerdì di gennaio 1917, fu in effetti un evento di grande portata simbolica: i soldati che vi presero parte si sentirono idealmente ricondotti e protetti da Dio, in un momento di così grande smarrimento.
«Fu un lavoro massacrante se si pensa alla fabbricazione, cucitura, impacchettatura di due milioni e mezzo di bandierine del sacro cuore e relative immagini, nonché la spedizione di esse ai cappellani militari» scrive la Barelli. «Oltre le bandierine si spedirono cinquemila copie di un arazzo economico rappresentante il Sacro cuore, in sostituzione dei quadri che non si potevano trovare. Bandierine speciali di seta furono fatte per gli ufficiali»45.
Attraverso un bollettino, una rivista mensile e delle circolari ai cappellani militari fu raggiunto lo scopo:
«Il primo venerdì del gennaio 1917» – scrive la Barelli, «con squillante gioia di cattolica e d’italiana» commenta la sua agiografa Maria Sticco – «in tutti i reggimenti, in tutti gli ospedali, su tutte le navi, in molti presidi di città e dislocamenti, nei villaggi, in Italia, in Albania, in Macedonia, in Libia ovunque si trovavano soldati italiani si fece la solenne consacrazione del nostro esercito al sacro cuore»46.
Benito Mussolini, tutt’altro che restio a ricorrere a rituali protettivi, a cavallo tra la reliquia e il portafortuna, è coinvolto personalmente nella consacrazione del Sacro Cuore. Bersagliere in trincea presso Doberdò scriveva nel suo diario:
«Padre Michele è passato nelle trincee, offrendo un distintivo tricolore e un foglietto. Ho accettato il distintivo e mi sono fatto dare il foglietto. Si tratta della Solenne consacrazione dei soldati del regio Esercito Italiano al sacro Cuore di Gesù. Io non commento, trascrivo. Nell’interno del foglietto l’istruzione dice: “La devozione al sacro cuore è la grande speranza dei nostri tempi […]. Egli stesso apparendo alla Beata Margherita Maria in Francia ha detto: Voi non mancherete di soccorso che quando io mancherò di potenza. Vedete i francesi alla battaglia della Marna: tutto pareva perduto, quando il generale Castelnau ebbe l’ispirazione di invocare il Sacro Cuore e consacragli l’esercito. E il risultato fu la meravigliosa vittoria che salvò la Francia. Vittoria vogliamo noi pure, duplice vittoria: una sui nemici politici per la grandezza della patria nostra, l’altra per noi stessi per purificarci ed elevarci”»47.
Per poi scrivere a proposito del Sacro Cuore, nel giugno del 1917: «Gran furbi i preti. Per fortuna che se ne accorgono solo ora, perché in caso contrario, la Italia era bella e fritta»48.
La personalità della Barelli, che solo con un pallido eufemismo potremmo definire volitiva, la porta a stringere abitualmente accordi con il divino: quando un’infiltrazione polmonare la costrinse a limitare fortemente la sua attività di apostolato scrisse «io sto facendo un patto col S. cuore perché mi lasci intervenire a qualche settimana regionale»49; nel 1916 chiese al Sacro Cuore la guarigione solo per potersi occupare della consacrazione dei soldati, dichiarandosi poi disposta ad accettare la malattia per tutta la vita50; promise d’intitolargli l’Università se avesse ottenuto la grazia di vederla sorgere51; e ancora, dopo il primo bombardamento su Milano, annotava :«Se non viene più incursione su Milano, lire 100 mila beneficienza; se, venendo, è risparmiata Università e Opere annesse, casa mia e dei miei, lire 50 mila»52. Ma dopo il bombardamento che distrusse il centro nazionale della Gioventù femminile, la sede dell’Opera della Regalità, l’editrice Vita e Pensiero, parte dell’Università e il suo appartamento scrisse: «noi confidiamo sempre più nel Sacro Cuore»53, «siamo serene e continuiamo a fidarci del S. Cuore e del Cuor di Maria, offrendo tutto per la pace delle armi e delle anime»54: il Sacro Cuore è a portata di mano, vicino e disponibile, pronto a ogni bisogno.
Lo spirito ottimista, reattivo, nazionalista e belligerante proposto da un Gemelli si scontrava con la stagnante e sfiduciata stanchezza dell’esercito e delle famiglie dell’estate del 1917. La stessa indefessa Barelli subì un crollo, un vero collasso per quest’eccesso di attivismo cui si accompagnò una acuta nostalgia per l’interiorità, per la solitudine e la preghiera che cercò ad Assisi, dove andò alla fine di luglio e per la prima volta: «Sentii subito che Assisi55 era la patria dell’anima mia: come s. Francesco e santa Chiara erano vicini e presenti». In seguito, il santuario di Assisi sarà una meta obbligata non solo per lei ma per i ritiri della Gioventù cattolica femminile, di cui la Barelli diventò presidentessa.
Assistiamo qui per la prima volta a un topos della spiritualità delle classi dirigenti cattoliche, soprattutto femminili, impegnate con spirito attivistico-militante nell’apostolato: il ricorso al culto mariano e quello al Sacro Cuore sono certo devozioni di battaglia, con i pellegrinaggi e le processioni collettive – pensiamo soprattutto al secondo dopoguerra, con le peregrinazioni delle Madonne pellegrine – ma supportano quel ritiro personale, quel bisogno d’interiorizzazione che richiede spazi e momenti separati soprattutto presso qualche luogo monastico, che consente una rigenerazione spirituale per poi rituffarsi nel mondo. Ma a essi è delegata dunque più la parte spirituale personale che non quella di simboli di una milizia nazionale e poi politica che si gioca altrove.
«Anche in materia di miracoli, bisogna adottare l’autarchia […] preferire il prodotto nazionale anche e soprattutto nei miracoli» sosteneva perentorio Mussolini, che aveva fatto pressione sull’Opera italiana dei pellegrinaggi per diminuire il numero dei pellegrinaggi a Lourdes e potenziare quelli di Loreto, dove Mussolini stesso si recò il 24 ottobre 1936 (il 28 agosto si era recato in visita al santuario di Montevergine presso Avellino). Sentiamo il racconto ingenuo di un giovane chierico:
«[…] nel primo pomeriggio egli giungeva a Loreto per visitare l’Istituto Baracca per gli orfani degli aviatori. Arrivò in aereo, a quanto si diceva pilotato da lui stesso […]. Accompagnato da monsignor Malchiodi, salendo sul sagrato, domandò che raffigurasse la statua sulla sinistra. All’udire il nome di Sisto V, aggiunse lapidariamente: “Il primo fascista”. Intanto l’organista della basilica, in uniforme secondo l’uso del tempo, ne salutava l’entrata con il ritmo degli inni nazionali […]»56.
Quanto e fino a che punto Mussolini riuscì nell’impresa di ‘nazionalizzare i santuari’ non è facile stabilire con esattezza: si tratterebbe di vedere quanti e quali santuari si sono sottratti all’uso direttamente strumentale voluto dal regime, a quali ordini religiosi o movimenti essi facessero capo prima del 1929, quando con il Concordato si regolarizza per la prima volta lo statuto giuridico dei santuari, equiparati, d’ora in poi, a una chiesa normale57.
Come sappiamo, il 24 marzo del 1920 Benedetto XV proclama la vergine lauretana ‘Celeste patrona di tutti gli aviatori’. Meno noto è il ripetuto interessamento – che con ogni probabilità non influenzò minimamente il papa nella sua decisione – di Gabriele D’Annunzio al volo di Loreto. Un interessamento che risale addirittura al 1899, quando visitò un dipinto della Traslazione della Santa Casa nella basilica romana di S. Maria in Cosmedin.
Del resto, fin dal 1912 la Società degli aviatori si era affidata alla Madonna e tra questi aviatori sembra esserci il vate, che il 10 dicembre del 1937 così scrive al generale Giuseppe Valle:
«Oggi dieci dicembre ricorre la Traslazione della santa casa di Loreto che nel primo ardore della guerra fu da me proposta al riconoscimento degli Aviatori e dichiarata Tutelare degli Aviatori in guerra e in pace. Il grande reliquiario delle vittorie celesti, fortificato nel Vittoriale della nostra insonne devozione, è stanotte illuminato in onore della Patrona memorabile. Noi qui veglieremo nella fede e nell’amore, attendendo la parola del gran Consiglio e la tua. Ti abbraccio e ti sono grato»58.
Ci sarebbe poi un’altra e ben più convincente prova del suo decisivo appoggio di cui si vanta probabilmente anche per ottenere il riconoscimento dal Gran Consiglio. In una xilografia dell’artista triestino Guido Marussig, che aveva curato la messa in scena di varie opere teatrali di D’Annunzio, oltre a esserci la stessa citazione in latino già contenuta nella lettera del 1937 c’è anche un commento che egli stesso volle vergare in calce al disegno59.
«La leggenda della traslazione della S. Casa trovava così nella fantasia del poeta soldato (e aviatore) una nuova e singolare versione, tra sacro e profano. L’evento rimaneva un miracolo, ma gli angeli si trasformavano negli “spiriti celestiali dei martiri dalmati” e le litanie lauretane si mischiavano agli auspici di riscatto e di vittoria. Ciò potrebbe sembrare strano per una persona le cui opere erano messe all’Indice»60.
Tante sono le suggestioni che si possono ricavare dalla singolare vicenda del rapporto di D’Annunzio con Loreto: per esempio l’evocazione del mitico volo della casa e la modernità del volo, il fascino delle imprese nei cieli. Del 1927 è la trasvolata atlantica di Charles Lindbergh, che pare sia stato svegliato da un colpo di sonno nella lunga attraversata dal tintinnio della madonnina nella carlinga, del 1928 quella di Francesco De Pinedo e del 1931 quella di Italo Balbo. Famosa sarà la ‘Madonna della tenda rossa’, una piccola statua della Madonna di Loreto portata dal generale Nobile nella trasvolata polare del 15 aprile-25 maggio 1928 e precipitata sul pack nella caduta dell’aeronave.
La vicenda di d’Annunzio è significativa della diffidenza di una certa cultura delle élites fasciste, e non solo, verso i fenomeni religiosi così detti ‘popolari’, un’estraneità e insofferenza per le espressioni più semplici; affascinato da Loreto, il poeta in realtà inorridisce di fronte al fenomeno dei santuari, quelli più prosaici, meno suggestivi. Più d’una volta si era recato alla Madonna dei Miracoli di Casalbordino, nei pressi di Chieti, rimanendone sconvolto: «[…] al santuario, mi straziai ferocemente i nervi assistendo allo spettacolo selvaggio dei fanatici che giungevano in compagnie innumerabili […]»61. Per stendere il suo romanzo, aveva raccolto la leggenda di fondazione e i documenti («che» dice «per atrocità faranno impallidire quelli raccolti a Lourdes da Zola»); insomma ‘disgusto’, ‘ripugnanza’, ‘spettacolo divenuto intollerabile’, per la ‘folla becera in attesa del miracolo’, da cui fuggì inorridito verso il mare.
Se ci spostiamo al Sud, vediamo che non è quasi neppure tentata quella sorta di nazionalizzazione dei santuari mariani del Nord; nel Mezzogiorno essi riflettono in modo molto immediato la generale condizione di povertà e d’incertezza dei ceti medi. Le ricerche (suppliche, lettere, ex voto ) fatte al riguardo dimostrano che le richieste si rivolgono più alle insicurezze materiali, che non alle guarigioni. Disoccupazione, ricerca di un posto fisso, concorsi, viaggi, così come tutte le occasioni di ascesa e di ricerca di un nuovo status sono al centro delle richieste alla Madonna di Pompei, «essa è vista soprattutto come protettrice dell’esistenza globale di una persona e delle sorti di una famiglia nei momenti decisivi, più che occasionale e straordinaria risolutrici di casi impossibili»62. Così come nelle malattie l’aiuto divino non è richiesto quale miracolo sostitutivo della scienza medica, ma come suo potente alleato, perché la cura o l’operazione riescano al suo meglio. Non mancano poi gli stessi medici che scrivono personalmente per testimoniare di una guarigione avvenuta o di avvocati e professionisti che ringraziano per il buon esito di una causa. Quel mix tipico di una certa religiosità meridionale fatta di un massimo di concretezza e insieme di affidamento. Le numerose lettere degli emigrati negli Stati Uniti rendono bene questo spirito insieme disincantato ma sempre riconoscente verso il divino: così si apprezzano le capacità umane nell’affrontare le avversità, ma sempre sotto la protezione della Madonna di Pompei, come scrive per esempio Vincenzina, salvata da un incendio a New York nell’estate del 1932: «Sarebbe ingiusto ora negare l’opera pietosa ed efficace degli uomini accorsi quasi prodigiosamente in nostro aiuto, ma ho la persuasione che solo la Madonna potè guidarli per darci una prova della sua protezione»63.
Il culto della Madonna di Pompei era nato a fine Ottocento sotto l’insegna della laicità: il suo fondatore Bartolo Longo, giustamente definito da Gabriele De Rosa, «anticipatore dell’intelligenza laicale del cristiano moderno»64, è un inedito intreccio di laicità per quel nuovo senso dell’amministrazione pubblica e di spiritualità matura lontana da un certo devozionismo meridionalista.
«La valle di Pompei dove mise piede la prima volta il 2 ottobre del 1872 era in uno stato di incredibile abbandono: povertà e miseria dappertutto […] false credenze e superstizioni […] assenza di qualsiasi istituto, bisognava creare dal nulla una struttura amministrativa e viaria attorno alla chiesetta, una sezione municipale e un servizio di ordine: in questo suo progetto si avvertiva la sua consuetudine con il diritto, che lo faceva attento e sensibile agli aspetti istituzionali dell’invenzione urbana»65.
Laicità nel suo rapporto con la cultura e la scienza e in una politica indipendente, lontana dagli schemi intransigenti, senza essere però neppure subalterna ai liberali.
Laicità anche nel rapporto clero-fedeli, nell’autonomia del santuario da qualsiasi ordine religioso e per un suo affidamento solo alla Santa Sede: una sorta di ‘irizzazione’ del santuario da parte della Santa Sede. Si rivendica qui, nei confronti della gerarchia, l’iniziativa del laico di farsi interprete di un’universale disponibilità alla preghiera e di tradurre questo atteggiamento nella costruzione del santuario intorno a un progetto di promozione civile.
Una sfida con il pensiero laico, dunque, tutt’altro che arretrata, ma più avanzata sul suo stesso terreno, lontana dal contrasto scienza-miracolo, che tanto segnò le origini di Lourdes. Anche nell’intervento sociale le espressioni di modernità si presentano in forme originali, uniscono certe arcaicità meridionali a iniziative avanzatissime, ma non del tipo associazionistico delle società di mutuo soccorso tanto forti al Nord. Le sue realizzazioni sembrano avere come modello la carità e la pietà di un don Giovanni Bosco. Bartolo Longo, il fondatore del santuario di Pompei, potrebbe sembrare, in qualche modo, un don Bosco trasportato al Sud. La nascita stessa del santuario si ricollega dunque ai simboli moderni di un’Italia nascente: la stazione dei carabinieri, l’ufficio postale, il telegrafo, la stazione ferroviaria, che sembrano sostituire gli elementi tradizionali per la scelta del luogo sacro.
Anche don Bosco, teologicamente ultramontano, era praticamente pronto ad accettare gli aiuti che gli venivano dai liberali moderati. Entrambi, tuttavia, non si curarono di fondare leghe contadine, sindacati bianchi, cooperative, che rappresentavano invece l’immancabile attrezzatura del movimento cattolico-sociale dell’età di Leone XIII.
Bartolo Longo seguiva con attenzione, affascinato dalla imprenditorialità di don Bosco, da come sapeva intrattenere i rapporti con la stampa, gestire la propaganda e soprattutto ammirava le opere rivolte alla gioventù e la vita del santuario di Torino66.
Bartolo Longo ebbe esperienze negative con la stampa cattolica napoletana che gli chiese denaro per la pubblicazione del suo programma di edificazione del santuario: «da allora […] mi nacque nell’anima una tal quale antipatia contro certi giornali così detti cattolici e deliberai in cuor mio che giammai mi sarei servito di giornali in genere e che la pubblicità me la sarei fatta da me stesso, dando alle stampe libri e opuscoli». L’aiuto gli venne poi da «L’Unità cattolica» di Torino, che pubblicò gratuitamente l’annuncio.
Lontano dalle dinamiche dell’Opera dei congressi ed estraneo alla protesta cattolica, anche di quella meridionalistica, con la quale anzi entrò in conflitto67, il fondatore del santuario di Pompei intrattenne rapporti con politici e uomini dei governi liberali, con intellettuali che non avevano mai nascosto la loro diffidenza, se non la loro ostilità verso il cattolicesimo papale. Nel processo per la sua canonizzazione, del resto, le frequentazioni liberali gli furono rimproverate.
«La chiave delle amicizie politiche di Longo è altrove: nel suo modo di concepire il rapporto tra Chiesa e Stato, tra mondo risorgimentale e pietà cattolica. Senza essere un cattolico-liberale, egli era favorevole alla Conciliazione, così come lo era tutta una corrente di cattolici napoletani, anche ecclesiastici, da padre Tosti ad Alfonso Capecelatro al padre Ludovico da Casoria […] più propriamente dovremmo parlare del gruppo neoguelfo napoletano»68.
Il culto mariano di Pompei, molto più di quello contiguo della Madonna dell’Arco, espresse contenuti che non si attardavano intorno al pensiero teologico più arretrato (schemi e linguaggio devoti a s. Alfonso Maria de΄ Liguori, più vicini a Luigi Settembrini che a uno Joseph de Maistre). Del resto, fin dalla spiritualità delle sue origini vediamo un tipo di religiosità assai laica, dai caratteri austeri e sobri, che si affranca dalle forme più estenuate di devozionismo mariano e meridionale ottocentesco, assai lontano da forme fanatiche e miracolistiche. Il silenzio adorante, una pratica molto moderna era, per esempio, una devozione praticata da nobili donne napoletane e da Caterina Volpicelli, fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore e le stesse preghiere alla Madonna di Pompei durante la Prima guerra mondiale saranno, come vedremo, più intime e consolatrici che nazionalistiche o belligeranti.
Per tutt’altre ragioni e in un diverso contesto anche la devozione verso padre Pio da Pietralcina non risponde a quel modello antimoderno che ci si aspetterebbe da un culto che evoca gli aspetti più arcaici, al limite della superstizione e del fanatismo. Quasi truculenti e rozzi, si materializzano nelle forme carnalmente medievali dell’esposizione del corpo: le stigmate, il sangue, gli odori, i profumi. Nonché nella rudezza ed essenzialità del suo carattere: burbero, quasi brutale. Come di chi va al sodo delle cose e della fede: grandi opere, come l’ospedale Casa sollievo della sofferenza, grande ascesi spirituale. Preghiera e sofferenza. Poche sottigliezze, pochi dubbi.
Tra afflati e olezzi premoderni anche i suoi miracoli sono estremi come quelli medievali, molto tangibili e, insieme, più contemporanei come il malato terminale, ormai inoperabile sul quale la scienza medica ha sperimentato tutto il possibile e che, inspiegabilmente, guarisce completamente. Il corpo torna dunque protagonista in questa figura di cerniera tra antico e moderno, com’era successo a Lourdes. E il corpo torna per sconfiggere la minaccia più insidiosa della modernità: la scienza, la medicina che si erge come la grande concorrente della fede durante tutto l’Ottocento per competere con essa nelle guarigioni del corpo.
Eppure anche quando non si usano rozze e semplificate categorie scientiste, ma quelle più sapientemente storiche, resta difficile dar conto di cosa sia davvero il miracolo-padre Pio69.
Padre Pio è davvero l’icona della più genuina santità nazional-popolare, l’esempio più eloquente dei rapporti tra fede e modernità dell’Italia cattolica contemporanea. Perché dimostra chiaramente come più che di religiosità popolare, per la nostra nazione, sia corretto parlare di religione di popolo, alludendo al concetto di pietà come la intendeva Giuseppe De Luca, e non a quel misto di superstizione e arretratezza cui ci hanno abituato gli studi etnologici e antropologici sul folklore.
La nostra è una religiosità nella quale espressione alta delle élites e partecipazione dal basso s’incontrano strettamente. Lo sta a dimostrare la stessa vicenda di padre Pio, culto all’apparenza quanto più lontano dalla fede adulta, dubbiosa e raffinata. Eppure, tra i suoi tanti detrattori interni alla Chiesa figurano le personalità più conservatrici come il cardinal Rafael Merry del Val, Segretario del Sant’Uffizio, padre Agostino Gemelli, dalle appartenenze clerico-fasciste indubbie, fino a quel papa buono la cui immaginetta affiancherà quella del frate barbuto nelle case e negli ospedali. Papa Giovanni provò sempre molta ostilità per il culto di padre Pio, per tutto ciò – è bene precisare – che si muoveva intorno a lui, e molto spesso malgré lui.
Mentre è dal papa più intellettuale e algido che il cappuccino, poco uso alla lettura e molto alla preghiera, troverà un pieno appoggio e incoraggiamento, quel Paolo VI che insieme al fratello Lodovico Montini, antesignano della classe dirigente democristiana tecnocratica, agevolerà i sussidi per la costruzione del grande ospedale di San Giovanni Rotondo.
Quella italiana, insomma, è una religione che si è quasi sempre incontrata, intesa, plasmata con le élites, e dunque più che una religiosità popolare è una vera e autentica religione di popolo nell’epoca secolare degli anni Sessanta come in quella relativista del postsecolarismo attuale.
La devozione della Madonna del Divino Amore di Roma è emblematica dello spirito di ricostruzione dell’Italia che esce distrutta dal secondo conflitto mondiale: la costruzione della stazione ferroviaria, l’ufficio postale, il telefono e, molto importate, la stazione dei carabinieri; questa avrà un rilevante valore simbolico e pratico nel rapporto con le autorità. Autorità interpretata soprattutto nella figura di Gian Galeazzo Ciano, personalmente impegnato nella promozione del Divino Amore. L’aspetto moderno, propagandistico e di astuto inserimento nei cambiamenti sociali e politici esporranno, dopo la guerra, l’ideatore e l’anima del Divino Amore, il sacerdote Umberto Terenzi, al sospetto di una certa spregiudicata gestione economica70.
Com’è noto, l’episodio che sancì definitivamente la consacrazione della Madonna del Divino Amore quale santuario romano fu il voto fatto dalla cittadinanza a papa Pio XII durante la Seconda guerra mondiale: nel maggio 1944, nel momento del passaggio del fronte, quando i tedeschi incalzati dagli americani sbarcati ad Anzio minacciavano di devastare Roma prima di raggiungere il Nord. L’immagine della Madonna era stata portata nella chiesa di S. Ignazio, e davanti a essa Pio XII s’inginocchiò in atto di ringraziamento dopo la liberazione del 4 giugno. C’è qui uno dei rari quanto intensi e scenografici topoi del legame di papa Pacelli con la religiosità romana popolare, come la visita a S. Lorenzo o il controverso intervento in favore degli ebrei romani.
Nel secondo dopoguerra si coagula intorno a un rinnovato culto mariano, un’effervescenza devozionale e liturgica spontanea che rifletteva un bisogno di rassicurazione comunitaria, un ‘sentirsi insieme’ generato dal senso collettivo dell’epoca, dal forte coinvolgimento della società civile nella guerra e infine dalla rinnovata credibilità della Chiesa e della religione, viste come pressoché uniche speranze nel panorama di macerie materiali e simboliche della nazione.
Il culto mariano focalizza, ancora una volta, queste attese: rassicurazione e condivisione materna della sofferenza pervadono le variegate devozioni mariane, dalle statue della Madonna che lacrimano (pensiamo alla Madonna di Siracusa, piangente il 29 agosto del 1953, madre di tutte le successive lacrimazioni) alla devozione rivolta all’Addolorata, la variante mariana certamente più sentita nella desolazione postbellica. Nel clima della guerra fredda la devozione alla Madonna si tinge del profetismo anticomunista e antibellicista che comincia a sprigionarsi dai segreti di Fatima. Mistero, profezia, messianismi rivitalizzano una presenza mariana molto attiva e militante che raggiunge, in una continua peregrinatio, i suoi figli dispersi e impauriti, facili prede delle lusinghe consumistiche del miracolo americano e del palingenetico sogno comunista. Le Madonne pellegrine avvicinano direttamente i fedeli diventando una sorta di santuari itineranti che precedono o accompagnano i comizi nelle piazze di un’Italia che si ritrova intorno ai partiti, alla televisione e alle sue Madonne. Molto s’è parlato dell’uso direttamente politico di queste famose Madonne pellegrine degli anni Cinquanta più interessante per il suo significato simbolico che per i risultati pratici ottenuti essendo scarso il peso politico reale di queste manifestazioni71.
Mano a mano che avanzano le demitizzazioni degli anni Sessanta, le devozioni diventano quasi imbarazzanti per le classi colte e per i giovani, che del resto escono dalla ribalta pubblica. Esse fanno quindi meno notizia, anche se sopravvivono poi del tutto indisturbate.
E così accade anche nella cultura cattolica che si prepara al concilio Vaticano II: nulla sembra più lontano da quella sensibilità delle devozioni, dei miracoli e di tutto ciò che si può in qualche modo ascrivere alla cosiddetta religiosità popolare. ‘Il popolo di Dio’, l’anima teologica e pastorale della Chiesa conciliare, non aveva nessuna parentela con ciò che poteva essere percepito come ‘popolare’. «Si dovrebbe aver preso atto» scriveva Hans Küng nel 1968 «della pericolosità del degenerante marianismo, che manca di vicinanza alla Bibbia e di una concezione cristocentrica»72.
Fanatismo, superstizione, massificazione si contrappongono senza possibilità di scampo a responsabilità, coscienza, consapevolezza, insomma a quella non di rado fraintesa fede adulta che aveva nella denuncia del ‘Dio tappabuchi’ di Dietrich Bonhoeffer la sua indiscussa bandiera. Nella Lumen gentium, si osserva che «la vera devozione non consiste né in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vana credulità […]»73.
Al di là di queste inevitabili semplificazioni, c’era allora la convinzione – suffragata da un’errata ricezione delle tesi di Antonio Gramsci sulla religione e da una grossolana lettura di Ernesto de Martino – che i processi di secolarizzazione fossero incompatibili con queste manifestazioni, in quanto legate irreversibilmente a una religiosità dei semplici, relegate al sottosviluppo e all’arretratezza. E così infatti la religiosità popolare poteva essere recuperata dal cattolicesimo postconciliare progressista italiano per le sue potenzialità rivoluzionarie74.
Ma per il Vaticano II la questione non è la scelta tra fede adulta e fede dei semplici quanto piuttosto riuscire davvero a rivitalizzare una liturgia stanca e ormai vuota perché sia sempre più vissuta e partecipata. Eppure, se la frequenza dei fedeli alle messe e alle attività parrocchiali è sempre più saltuaria, i pellegrinaggi ai santuari vecchi e nuovi, le devozioni tradizionali o quelle rinnovate dai nuovi movimenti, proseguono senza la minima interruzione. Guardate con diffidenza o con compiacimento dai vescovi le devozioni sembrano animate da vita propria75.
Dal concilio alla metà degli anni Novanta si contano almeno 35 apparizioni mariane. Ancora ai nostri giorni, il loro numero non accenna a diminuire. Del pari, si moltiplicano i veggenti e i guaritori, soprattutto nel Mezzogiorno, e in Calabria in particolare76. A fronte di questa nuova effervescenza devozionistica, non si affievolisce la devozione legata ai santi di sempre: il santuario di s. Antonio da Padova o quello di padre Pio in Puglia rafforzano la rete delle loro associazioni e pubblicazioni. Per tutti valga come esempio «Il Messaggero di Sant’Antonio», un periodico che vende in Italia circa 700.000 copie e che viene tradotto in undici lingue raggiungendo la tiratura complessiva di 1.200.000 copie.
Un posto a sé merita poi la devozione della Sindone, che l’ultimo re d’Italia, Umberto II, ha lasciato in eredità alla Chiesa: una reliquia che, riguardando direttamente il corpo di Cristo, non è entrata in ombra – come è successo per altre – e che, sposatasi con il fascino per il mistero che promana dalle reliquie, ha prodotto un vero e proprio filone di ricerche, una sorta di disciplina: la ‘sindonologia’.
Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, le tradizionali devozioni novecentesche, dunque, non solo sopravvivono ma anzi – anche e forse proprio perché non incanalate nella struttura parrocchiale in crisi – si rimodellano e si ripropongono attraverso i nuovi movimenti ecclesiali e secondo modalità inedite.
Legate più all’appartenenza regionale e locale che non a un’identità nazionale, com’era successo invece nei pontificati di Benedetto XV e di Pio XI, le devozioni subiscono un doppio processo: confermano ed esaltano, fin quasi all’esasperazione, le radici locali mentre l’utilizzo mediatico e informatico ne altera profondamente le coordinate spazio-temporali. Le devozioni, d’altra parte, si internazionalizzano in tempi rapidissimi e possono diventare ‘virtuali’. Interessante allora seguire il modificarsi delle loro morfologie ormai globalizzate, quelle di un popolo di fedeli dal vissuto religioso che non si ritrova in una comunità stabile, che si muove a fisarmonica, su bisogni specifici, che si connette in rete e non fisicamente in un luogo sacro. Gruppi di preghiera sempre più numerosi piuttosto che venerare un santo protettore tradizionale scelgono di affidarsi ad un insieme di devozioni spesso dalla dubbia ortodossia.
L’impulso che Wojtyla ha voluto e saputo dare alle devozioni tradizionali, specialmente quelle a Maria e ai santi, ha reso definitivamente chiaro che le devozioni non muoiono con la modernità. Non solo: riappare una devozione al papa così potente da rasentare di nuovo una sorta di ‘papolatria’ per la corporeità di Wojtyla, quando, con il carisma del suo corpo giovane ed espressivo trascinava le folle di tutti i continenti e poi le coinvolgeva nella dolente partecipazione alla decadenza del suo corpo, esausto e moribondo. La fedeltà del papa polacco ai culti e alle devozioni tradizionali è stata spesso banalmente riferita al suo conservatorismo polacco, a una sorta di fissazione residuale, mentre con lui i culti non si limitavano a rivitalizzarsi e finivano per identificarsi con la sua stessa persona. I devoti che percorrevano le campagne e le città per incontrarlo in nome e sotto i vessilli della Vergine Maria partecipavano, essi stessi a un nuovo e vecchio culto.
Giovanni Paolo II concretizza l’affermazione di Paolo VI, secondo cui non esiste soltanto una storia della salvezza ma anche una geografia della salvezza: il papa polacco sembra incarnare in sé una sorta di ‘principio geopolitico del sacro’. Le devozioni e i pellegrinaggi sono il cuore postsecolare della geografia di salvezza contemporanea. Le aspre polemiche sulle radici cristiane d’Europa, hanno messo in ombra il loro significato spirituale, quello evocato sempre da Paolo VI il 24 ottobre del 1964 a Montecassino, quando aveva proclamato s. Benedetto patrono e protettore dell’Europa, lui «grande monaco solitario e sociale, modello di fede e di unità»77.
E come dicevamo all’inizio, a proposito della riscoperta di s. Benedetto tra Ottocento e Novecento e alla sua conciliazione tra opus Dei e opus manuum, è in questa vicinanza alla santità della vita ordinaria, individuale e collettiva, radicata nel proprio vissuto, nella propria esperienza concreta, che risiede il prezioso significato delle devozioni, una risorsa cui la storia italiana potrebbe ancora attingere, e non irridere.
1 G. Rumi, Santità sociale in Italia tra Otto e Novecento, Torino 1995, p. X.
2 G. Frassinetti, Istruzioni sulla devozione verso gli angeli e i santi, in La devozione illuminata, Genova 1867. Roberto Rusconi ripercorre in un suo saggio alcune ‘tappe delle devozioni’ che vanno dal Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica di Gaetano Moroni (ben 103 volumi editi a Venezia dal 1840 al 1861) – ispirato al decreto De invocatione, veneratione et reliquiis sanctorum, et de sacris imaginibus, approvato nel corso della XXV sessione (1563) e sulla disciplina delle canonizzazioni di Urbano VIII del 1634 – fino a quella sorta di ‘revisione critica’ che le devozioni e tutto l’apparato simbolico e agiografico subiranno nella cultura ecclesiale a cavallo del secolo, soprattutto per gli effetti del fenomeno modernista, o più propriamente dei fantasmi e delle paure da esso suscitate. Cfr. R. Rusconi, Erudizione, devozione, reazione. L’itinerario di una cultura ecclesiastica da Gaetano Moroni a Francesco Lanzoni, in Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), a cura di E. Fattorini, Torino 1997.
3 S. Francesco di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, Milano 1994, pp. 27-28.
4 M. Bendiscioli, La pietà specialmente del laicato, sulla scorta di manuali di devozione diffusi nell’Italia settentrionale, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del IV Convegno di storia della Chiesa (La Mendola 1971), 4 voll., Milano 1973: II, pp. 154-176.
5 I. Scopoli Biasi, Elevazioni a Dio ad uso delle donne cristiane, [Milano 1873], pp. 77, 87-88.
6 G. Riva, Manuale di Filotea, Bergamo 1891, XXXVI edizione di 1170 pagine, p. 102.
7 M. Bendiscioli, La pietà specialmente del laicato, cit., p. 163.
8 Ibidem.
9 Cfr. Lettera del Santissimo Signor Nostro Leone per divina provvidenza Papa XIII ai Cardinali di S. R. Chiesa Antonio de Luca vicecancelliere di S. R. C. Giovanni Battista Pitra bibliotecario di S. R. C. Giuseppe Hergenroether prefetto degli archivii vaticani, «La Civiltà cattolica», 34, 1883, 3, pp. 609-617.
10 M. Ferrini, Cultura, verità e storia. Francesco Lanzoni (1862-1929), Bologna 2009, p. 120.
11 Edita per la prima volta a Napoli nel 1759, l’opera ebbe una trentina di edizioni nell’Ottocento. Si tratta, secondo Pietro Stella, di un caposaldo della trasformazione della preghiera non più pronunciata per i suoi effetti ‘magico-propiziatori’. Cfr. P. Stella, Prassi religiosa, spiritualità e mistica nell’Ottocento in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1995.
12 P. Stella, Prassi religiosa, spiritualità e mistica, cit., p. 117.
13 R. Rusconi, Santo Padre. La santità del papa da san Pietro a Giovanni Paolo II, Roma 2010.
14 Cfr. D.I. Kertzer, Prigioniero del Vaticano. Pio IX e lo scontro tra la Chiesa e lo Stato italiano, Milano 2005, p. 117.
15 Il Papa Pio IX, «La Civiltà cattolica», 29, 1878, cit. in R. Rusconi, Santo Padre, cit., p. 358.
16 Su questo cfr. l’affascinante racconto di D.I. Kertzer, La salma del papa, in Id., Prigioniero del Vaticano, cit., pp.189-207.
17 A. Zambarbieri, Loreto santuario “Sociale”, in Loreto, crocevia religioso tra Italia, Europa e oriente, a cura di F. Citterio, L. Vaccaro, Brescia 1997.
18 I discorsi di Giambattista Paganuzzi, a cura di F. Olgiati, Milano 1926, p. 26.
19 E. Massara, I vantaggi dei pellegrinaggi, «Il Movimento cattolico», 30 giugno 1880, pp. 182-184.
20 A. Stoppani, Il bel paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica d’Italia, Milano 1876, pp. 157-166.
21 M. Isnenghi, Le guerre degli italiani, parole, immagini, ricordi, 1848-1945, Milano 1989, p. 344.
22 Ibidem, p. 337.
23 L. Scaraffia, Loreto, Bologna 1998.
24 G. Cracco, Alle origini dei santuari mariani: il caso di Loreto, in Loreto, crocevia religioso, cit., pp. 98-164.
25 Lettera del Prefetto di Padova al Prefetto di Treviso del 12 dicembre 1892, cit. in G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 1970, p. 104.
26 G. De Rosa, Pietà attivistica e intransigenza cattolica a Padova alla fine dell’Ottocento, «Rassegna di politica e di storia», 1965, 126, pp. 1-8.
27 Ibidem, p.189.
28 A. Scottà, La devozione alla Madonna del rosario nel Veneto durante il conflitto mondiale 1915-1918, in Bartolo Longo alle soglie del duemila, Atti del Convegno storico (Pompei 1998), a cura di F. Barra, 2 voll., Pompei 2001: I, p. 159.
29 «Il Rosario e la nuova Pompei», 1915, 6, pp. 286-287.
30 A. Scottà, La devozione alla Madonna, cit., pp.155-187.
31 R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra, Roma 1980, p. 203.
32 Ibidem.
33 Così scrive con la consueta acutezza Romana Guarnieri nel suo sempre suggestivo saggio, che andrebbe davvero proseguito fino all’età contemporanea: R. Guarnieri, Fonti vecchie e nuove per una “ nuova” storia dei santuari, Roma 1981, p. 502.
34 A. Barelli, La sorella maggiore racconta. Storia della GF dal 1918 al 1948, Milano 1981, p. 27.
35 A. Acerbi, Fra utopia e progetto, Roma 1988, p. 11.
36 P. Di Cori, Rosso e bianco. La devozione al Sacro Cuore di Gesù nel primo dopoguerra, «Memoria», 2, 1982, 5, p. 93.
37 M. Sticco, Una donna fra due secoli: Armida Barelli, Milano 1983, p. 36; A. Acerbi, Fra utopia e progetto, cit., pp. 13-18.
38 A. Acerbi, Fra utopia e progetto, cit., pp. 18-23; D. Menozzi, Devozione al Sacro Cuore e instaurazione del regno sociale di Cristo, la politicizzazione del culto nella Chiesa ottocentesca, in Santi, culti, simboli, cit., pp. 161-94; Id., Sacro cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Roma 2001.
39 D. Menozzi, Devozione al Sacro Cuore, cit.; F. De Giorgi, Il culto al Sacro Cuore di Gesù, forme spirituali, forme simboliche, forme politiche nei processi di modernizzazione, in Santi, culti, simboli, cit., pp. 195-211.
40 Cfr. i pionieristici studi di M. De Giorgio, P. Di Cori, Politica e sentimenti: le organizzazioni femminili cattoliche dall’età giolittiana al fascismo, «Rivista di storia contemporanea», 3, 1980, pp. 337-371; P. Di Cori, Rosso e bianco, cit., pp. 93-94.
41 F. De Giorgi, Forme spirituali, forme simboliche, forme politiche. Le devozioni al S. Cuore, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 48, 1994, pp. 364-459.
42 «Lo stesso Benedetto XV che, aveva insistito nel ricordare l’esigenza che la pratica pia comportasse anche la trasformazione dei comportamenti verso il nemico, sembra lasciare cadere questo aspetto davanti ai risultati che ne possono derivare sul piano istituzionale», D. Menozzi, Devozione al Sacro Cuore, cit., p. 278.
43 Ibidem, p. 54.
44 M. Sticco, Una donna fra due secoli, cit., p. 79.
45 Ibidem, p. 83-84.
46 Ibidem.
47 B. Mussolini, Il mio diario di guerra, Milano 19232, pp. 218-219.
48 Id., Il cuore, «Popolo d’Italia», 16 giugno 1917.
49 «Squilli di risurrezione», 1 marzo 1921.
50 M. Sticco, Una donna fra due secoli, cit., pp. 81-82.
51 Ibidem, p. 171.
52 Ibidem, p. 674.
53 «Rivista degli amici dell’università cattolica», cit. in M. Sticco, Una donna fra due secoli, cit., p. 672.
54 Lettera a Giovanna Papasogli, collaboratrice della Barelli, 15 agosto 1943.
55 M. Sticco, Una donna fra due secoli, cit., p. 87.
56 P.S. Santachiara, Personaggi d’altri tempi: Umberto II e Mussolini, «Il Messaggio della santa casa», aprile 1987, pp. 122-123.
57 E. Fattorini, Storia dei santuari mariani d’Italia tra Ottocento e Novecento, «Mefrim», 117, 2, 2005, pp. 457-486.
58 G. Procacci, ha ricostruito con precisione tutta la vicenda del rapporto di D’Annunzio con Loreto: Id., D’Annunzio, Mussolini e la Madonna Di Loreto, «Studi storici», 3, 1998, 39, pp. 739-744.
59 Ibidem, «Questa è l’Arca del patto – Foederis Arca – che valica ogni notte l’Adriatico traslatata dagli spiriti celestiali dei martiri dalmati e il principe dell’angelico stuolo è l’Aquila del Dinara, Francesco Rismondo. Ogni notte i fedeli alle litanie lauretane aggiungono l’invocazione ineffabile dell’Alba. Il Rismondo era un giovane irredentista spalatino, probabilmente condannato a morte. Ed è del 7 agosto 1915 il primo volo di D’Annunzio su Trieste».
60 Ibidem.
61 G. D’Annunzio, Lettere a Barbara Leoni, Firenze 1954, p. 331.
62 R.P. Violi, Religiosità e identità collettive, Roma 1996, p. 67.
63 Ibidem, p. 225.
64 G. De Rosa, Bartolo Longo, anticipatore dell’intelligenza laicale del cristiano moderno, in Bartolo Longo e il suo tempo, Atti del Convegno storico (Pompei 1982), a cura di F. Volpe, 2 voll., Roma 1983: II, pp. 23-52.
65 Ibidem, p. 30.
66 Tornato a Pompei, Longo riporta tutto questo fervore sul suo periodico «Il Rosario e la nuova Pompei». Nel 1885 era vivo il ricordo di quanto era accaduto l’anno precedente in concomitanza con la esposizione universale di Torino. «L’Unità cattolica» del 27 maggio 1884 scrive: «Non ci peritiamo di chiamarla un’Esposizione cattolica e per l’affluenza del popolo e per la singolare pietà manifestata, e per la magnificenza di culto e di apparato».
67 P. Borzomati, Bartolo Longo e la via meridionale alla santità, in Bartolo Longo e il suo tempo, II, cit., pp. 511-529.
68 G. De Rosa, Bartolo Longo, anticipatore dell’intelligenza laicale, cit., p. 36. Come ha notato Giuseppe Galasso, siamo di fronte a tipi di santità dai connotati nuovi: Bartolo Longo e Ludovico da Casoria, sono «santi della nuova assistenza sociale mentre Giuseppe Moscati santo della scienza intesa come missione etica e opera di carità», in Bartolo Longo e il suo tempo, II, cit., pp. 592-599.
69 S. Luzzatto, Padre Pio, Torino 2007, dove l’autore premette correttamente di non volere esprimersi se i prodigi intorno e sul corpo del cappuccino del Gargano siano veri oppure no. È evidente come non solo con la scienza ma neppure con un’ottima analisi storica come la sua si possa rispondere alla domanda ultima, quella messa al centro della storia della spiritualità e della pietà popolare nell’accezione espressa da Giuseppe De Luca. Persiste la sensazione di quanto sia difficile fare storia su un santo e i suoi miracoli senza entrare nella sua dimensione spirituale. Senza entrare cioè all’interno dell’oggetto stesso della ricerca dello storico che ci fa capire tutto sull’uso e sull’utilizzo della figura di padre Pio ma assai poco su chi fosse lui davvero, nella sua nuda esistenza. Alla fine di questo libro sappiamo tutto sul contesto che determina gli albori di santità: quel 1918 quando il formarsi delle stigmate del santo coincide con un clima di spuria ma intensa e appassionata sacralità: il mito catartico e religioso della Grande guerra, l’anticlericalismo socialista che vagheggiava un «Gesù primo socialista», i prodromi culturali del primo fascismo, i volti del Cristo di Papini e tanto altro ancora. Sappiamo tutto sugli intrecci perversi tra l’affermarsi del culto e il regime di Mussolini attraverso loschi figuri che ne irradiano la fama in tutto il mondo sfruttando complicità naziste e di malaffare, sappiamo tutto sulle indagini e le proibizioni inferte dalla Curia romana in varie successioni. Insomma dopo tanta vaghezza su questo frate amatissimo finalmente sappiamo praticamente tutto. Eppure, dopo questa appassionante lettura, non sappiamo chi fosse veramente padre Pio, non solo di cosa fosse icona, ma chi fosse proprio lui, in carne, ossa e sentimenti. Quale la sua fede e, soprattutto, quale la spiritualità che suscitava nell’intimità dei suoi devoti.
70 «La Questura di Roma, nel 1943, indagando sull’attività di Terenzi nota come «la raccolta delle offerte, sempre spontanee, è organizzata però con un apparato reclamistico che spiega appieno l’impressione di un sistema affaristico […]. In sostanza, il Rev. Terenzi, avendo di mira restauri ed ampliamenti del Santuario, e, pertanto, bisogno illimitato di oboli, lontano dall’atteggiarsi ad indovino o dal dire cosa alcuna che potesse letteralmente aver significato antipatriottico, accortamente propaga che la grazia della Madonna si acquista più facilmente con le opere pie»; cit. in A. Riccardi, Roma “città sacra”? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano 1979, p. 134.
71 Ibidem, p. 350: «Nell’itinerario del Divino Amore per la periferia romana c’è chiara l’esigenza di rafforzare la presenza della Chiesa laddove sembrava più tenue per la forza dei comunisti, ma resta dubbia la loro capacità di rovesciare gli orientamenti politici di interi quartieri, come mostrano i risultati elettorali».
72 H. Küng, Veracità per il futuro della Chiesa, Brescia 1968, p. 155.
73 Cfr. Storia del concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, 5 voll., Bologna 1995-2001: IV, p. 83.
74 Nel 1974 il congresso dei cristiani per il socialismo, tenuto a Napoli, aveva discusso di religiosità popolare nel Mezzogiorno. Da questi ambienti nasce un convegno, celebrato a Messina nel 1976, su Religione popolare nel Mezzogiorno, realtà e manipolazioni della dinamica culturale delle classi subalterne. Questione meridionale, religione e classi subalterne, a cura di F. Saija, Napoli 1978.
75 Come sostiene A. Riccardi, Santuari italiani e Vaticano II. Tradizioni, crisi, ripresa, «Mefrim», 117, 2, 2005, pp. 419-536, il pellegrino non sempre corrisponde all’identità del cristiano italiano proposta dai piani pastorali della Cei dagli anni Settanta: non ha sempre quelle qualità di impegno e continuità che vengono richieste ai fedeli soprattutto dai piani di iniziazione ai sacramenti della Cei. Resta legato frequentemente ad ambiti e tradizioni italiane, che persistono nelle tante e differenziate Chiese italiane, mentre l’ambizione della Cei è quella di creare una Chiesa italiana. Infatti il mondo dei santuari è più quello delle tante Chiese italiane della storia nazionale che della Chiesa italiana.
76 Secondo il censimento della Guida ai luoghi miracolosi d’Italia pubblicata da U. Cordier (Casale Monferrato 1999), che riguarda 62 culti ancora praticati nella regione di Napoli, si registrano ben 35 casi legati al culto del sangue (di santi o di spine della croce) attorno a quello maggiore del sangue di s. Gennaro nel duomo di Napoli (e a Pozzuoli).
77 Insegnamenti di Paolo VI, II, Città del Vaticano 1964, p. 606.