Detour
(USA 1946, Detour ‒ Deviazione per l'inferno, bianco e nero, 65m); regia: Edgar G. Ulmer; produzione: Leon Fromkess per PRC; soggetto: dall'omonimo romanzo di Martin Goldsmith; sceneggiatura: Martin Goldsmith, Martin Mooney; fotografia: Benjamin H. Kline; montaggio: George McGuire; scenografia: Edward C. Jewell, William Clihan Jr.; costumi: Mona Barry; musica: Leo Erdody, Jimmy McHugh.
Un pianista squattrinato, Al Roberts, decide di raggiungere a Hollywood, per sposarla, la fidanzata Sue, una cantante che sta tentando inutilmente di trovare il successo in California. Durante il viaggio in autostop ottiene un passaggio da Charles Haskell, uno strano individuo che esibisce la cicatrice di una vecchia ferita e i segni recenti di un graffio ricevuto da una donna. Mentre Al è al volante, Charles ha un malore e l'altro, nel goffo tentativo di rianimarlo, ne provoca involontariamente la morte. Temendo di essere accusato dalla polizia, Al occulta il cadavere e con i soldi e i documenti del morto prosegue il suo viaggio. Superato il confine della California, viene però ben presto smascherato e ricattato da Vera, la donna che aveva graffiato Haskell e che Al incontra in una stazione di servizio. L'uomo si trova quindi costretto a cedere ad assurde condizioni, ma quando Vera, ubriaca, minaccia di chiamare la polizia, nel tentativo di dissuaderla la strozza incidentalmente con il filo del telefono. Costretto alla fuga, ritenuto morto dalla polizia e con l'identità di un uomo scomparso, deve rinunciare al matrimonio e vagare di bar in bar nell'attesa che si compia il proprio destino.
Girato in soli sei giorni, con estrema povertà di mezzi e un cast limitato a un esiguo numero di attori poco conosciuti dal grande pubblico, Detour è considerato uno dei capolavori tra i cosiddetti b-movies prodotti a Hollywood durante gli anni Quaranta e Cinquanta, e l'opera centrale all'interno della sterminata filmografia di Edgar G. Ulmer: nel film infatti, si manifesta al meglio la capacità ulmeriana di trascendere le limitazioni imposte dai budget in un preciso progetto estetico, caratterizzato da un originale stile visivo e una pessimistica Weltanschauung, non pienamente inquadrabile nei canoni narrativi e tematici del cinema americano coevo. Partendo dall'adattamento di un romanzo di Martin Goldsmith, che il produttore Leon Fromkess era riuscito a strappare alla Warner, Ulmer utilizzò in maniera non ortodossa alcuni dei cliché del noir hollywoodiano, fino a sottoporre il classico impianto del cinema tratto dalla letteratura hard boiled a un processo di stilizzazione e scarnificazione, capace di portare allo scoperto i contenuti più eversivi e anarchici del genere di riferimento. Nella definitiva demistificazione della mitologia del perdente, nel ritratto di una feroce e sgradevole 'donna fatale' privata di qualsiasi fascino e ambiguità, o d'altra parte nell'uso massiccio dei trasparenti, o nell'insistita illuminazione degli interni claustrofobici e dagli arredi minimali, il noir in Detour si spoglia di gran parte del suo glamour superficiale, per lasciare spazio a un nucleo allucinato e paranoico, attraverso il quale il tema dell'ineluttabilità del destino, presente in tanti film americani dell'epoca, assume i connotati di un'esperienza dal sapore kafkiano. La 'devianza' della messa in scena, enunciata in chiave quasi programmatica a partire dallo stesso titolo, non intacca infatti soltanto la linearità archetipica del viaggio verso l'Ovest, aggredendo indirettamente alle radici il mito fondativo della frontiera, ma assume la critica alle illusioni e speranze del sogno americano nella forma di una deriva inarrestabile nell'assurdo, in un metaforico e impossibile percorso di avvicinamento a Hollywood e alla felicità matrimoniale che è la cifra della progressiva perdita d'identità del personaggio principale.
L'espediente narrativo del flashback sostenuto dalla pervasiva voce fuori campo del protagonista, che struttura l'intero racconto in una sorta di monologo interiore, diventa il mezzo attraverso il quale dare pieno sfogo all'elaborazione inconscia e inattendibile di un senso di colpa per un peccato che non si è commesso. L'universo visivo che ne consegue si colora così di connotazioni oniriche, irreali, e di eventi privi di logica che sembrano altresì sfuggire al controllo del personaggio narrante, impotente al punto di rimanere vittima delle sue stesse visioni. Come in un sogno, o in un delirio soggettivo, Ulmer dissemina la rappresentazione di false tracce, lascia che i singoli oggetti assumano un inquietante valore metaforico ed espressionistico, scardina i nessi logici di causa ed effetto, destrutturando la sintassi filmica fino a costruire un'opera che ancora oggi colpisce per modernità di linguaggio. La forza di Detour sta, in effetti, nel suo sapere immergerci nel falso movimento di un viaggio senza origine né meta, nel delineare l'abisso di un itinerario dell'immaginario in cui qualsiasi coordinata di riferimento si dissolve inesorabilmente, una vera e propria mappa dell'irrazionale che non a caso ha affascinato generazioni di cinefili, consolidando negli anni la fama postuma della pellicola: quella di cult movie tra i più famosi della storia del cinema; e quella di opera maledetta, ingigantita dall'atroce destino di Tom Neal, l'attore protagonista, condannato anche nella vita reale, anni dopo l'uscita del film, per aver ucciso la sua compagna in un raptus di follia.
Interpreti e personaggi: Tom Neal (Al Roberts), Ann Savage (Vera), Claudia Drake (Sue Harvey), Edmund MacDonald (Charles Haskell Jr.), Tim Ryan (proprietario del diner Nevada), Esther Howard (Holly), Pat Gleason (Joe, il camionista), Don Brodie (venditore di auto usate), Roger Clark (poliziotto), Eddie Hall (meccanico).
M. Atkinson, Film Theory's Detour, in "Screen", n. 5, November-December 1982.
A. Piccardi, Detour, in "Cineforum", n. 261, gennaio-febbraio 1987.
W. Williams, Detour, in "Filmfax", n. 11, July 1988.
D. Rodowick, Detour, in Edgar G. Ulmer, a cura di E. Martini, Bergamo 1989.
J.P. Telotte, The Call of Desire and the Film Noir, in "Literature/Film Quarterly", n. 1, January 1989.
A. Britton, Detour, in The Book of Film Noir, a cura di I. Cameron, New York 1993.
M. Atkinson, Noir and Away: Notes on the Two Detours, in "Bright Lights", n. 15, 1995; H. Hossein, Hearts of Darkness, in "Sight & Sound", n. 10, October 1996.
J. Naremore, Low is High: Budgets and Critical Discrimination, in More than Night. Film Noir and Its Contexts, Berkeley-Los Angeles 1998.
D. Polan, Detour, in "Senses of Cinema", n. 27, July-August 2003.