destino
Deverbale che ricorre una volta nelle Rime e due volte nell'Inferno: Rime CIV 77 E io... / l'essilio che m'è dato, onor mi tegno: / ché, se giudizio o forza di destino / vuol pur che il mondo versi / i bianchi fiori in persi, / cader co' buoni è pur di lode degno; If XV 46 Qual fortuna o destino / anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?; XXXII 76 se voler fu o destino o fortuna, / non so; ma, passeggiando tra le teste, / forte percossi 'l piè nel viso ad una.
Nei tre passi sopraccitati d. ricorre in costruzione disgiuntiva, costruzione usata da D. anche altrove (Pg V 91). Da notare che il passo di If XV è stato suggerito al poeta da Aen. VI 531-534 " sed te qui vivum casus, age fare vicissim, / attulerint pelagine venis erroribus actus / an monitu divum? an quae te fortuna fatigat, / ut tristis sine sole domos, loca turbida, adires? ".
I due passi dell'Inferno sono stati commentati abbondantemente dagli antichi commentatori, i quali, per lo più, li mettono in relazione con il passo sulla Fortuna di If VII. Il Boccaccio, invero, commentando il canto XV, si limita a riportare il pensiero di altri: " vogliono alcuni che destino sia alcuna cosa previsa e inevitabile ", ma in altri punti delle sue Esposizioni tratta l'argomento più diffusamente. Iacopo considera soprattutto l'aspetto filosofico, desumendo i suoi ragionamenti da s. Tommaso, da lui espressamente citato più volte. Il Buti, commentando il primo passo, così si esprime: " cioè qual felicità de' corpi celesti o ver qual grazia della providenzia di Dio: imperò che Ser Brunetto fu astrologo, come apparirà di sotto ". Secondo lui il primo membro della disgiunzione rispecchiava la credenza del vecchio maestro nell'influsso delle stelle, l'altro fu posto " per satisfare alla fede catolica [di D.] che tiene che li uomini siano predestinati o presciti da Dio ". La fortuna, poi, viene definita " l'evenimento delle cose provedute da Dio ". E il Buti conclude il paragrafo con una distinzione: " intendendo come si deve, non è fortuna senza destino, ma destino è ben senza fortuna, inanzi che le cose abbino effetto ". Assai più schematico, invece, risulta il suo commento al secondo passo: " qui [D.] tocca tre cagioni, da che procedono tutti li nostri affetti; cioè da volontà di proprio arbitrio, o da giudicio universale delle costellazioni che si chiama destino, o da giudicio particulare di alcuna costellazione che si chiama fortuna ". Il Landino riflette palesemente il pensiero del Buti che esprime quasi con le stesse parole. Per il Vellutello, finalmente, " destino e fato sono una medesima cosa, la qual non è altro che la providenza divina col suo consenso ".
Come si vede, i commentatori antichi, per d. e fortuna, hanno fatto ricorso a quattro concetti nuovi, indiscutibilmente danteschi, ma pure diversi dai due termini in questione. Occorrerà, pertanto, chiarire il significato che in D. hanno d. e fortuna e i rapporti che intercorrono tra loro.
Quanto al concetto di d., poiché, secondo D., tutto è sottoposto al dominio di Dio, che è il re de l'universo (If V 91), esso non è più, come presso i pagani, una potenza cieca e inflessibile, ma s'identifica con la volontà di Dio (e, perciò, è una parte della Provvidenza). Tale è, infatti, il senso che il termine ha nei due passi dell'Inferno. Uguale significato ha nelle Rime: l'espressione forza di destino (CIV 77) vale " intervento indiretto " di Dio (Contini). Quanto al complesso problema della ‛ Fortuna ' di D., cfr. fortuna; così per i concetti di ‛ fato ', di ‛ Provvidenza ' e di ‛ predestinazione '.