DESIGN.
– Il sistema produttivo: dalla grande industria ai makers e all’artigianato digitale. Design art. Social innovation design. Design, scienze e nuove tecnologie. Aspetti estetici e morfologici. Multiculturalismo. Virtualizzazione dell’oggetto. Design e molteplicità: estetica della casualità. Off-scale. Colore e materiali. Bibliografia
«Il design è un’attività creativa il cui scopo è di definire le molteplici qualità degli oggetti, dei processi, dei servizi e dei loro sistemi nell’intero ciclo di vita. Il design è quindi il fattore centrale per l’umanizzazione innovativa delle tecnologie e il fattore cruciale per gli scambi culturali ed economici» (ICSID, International Council of Societies of Industrial Design, 2004, https://designresearchportal.word press.com/2013/11/05/icsids-definition-of-design/, 14 maggio 2015).
La definizione data dal più autorevole organismo internazionale nell’ambito del d. aggiorna e amplia quanto già scritto da Tomás Maldonado (Congresso ICSID di Venezia del 1961) e adottato dall’istituzione. In questa più recente definizione, attraverso l’espressione «molteplici qualità», emerge la consapevolezza della complessità dei fattori che contribuiscono oggi a determinare le caratteristiche di un prodotto, di un processo e di un servizio. Si è compreso che del d. fanno parte aspetti immateriali come processi e servizi e lo si riconosce come un’attività che incide sulla cultura e sull’economia mondiale favorendone gli scambi. Nella definizione ICSID è invece poco evidente che del d. fa parte a pieno titolo l’ambito della comunicazione (grafica, multimediale ecc.) soprattutto quando la definizione adotta come fulcro dell’attività creativa l’«oggetto» e non il «progetto». Va infatti sottolineata, a completamento di tale definizione, la grande rilevanza assunta dal d. grafico e multimediale negli ultimi anni, sia per la forte integrazione di questa componente nello sviluppo di nuovi prodotti, sia per ambiti quali l’interface o l’interaction design oggi alla base degli artefatti tecnologicamente più avanzati.
Dal dibattito sul d. discende direttamente quello sui designer. In Italia, Paese cui tutto il mondo riconosce una leadership, la professione del designer è stata riconosciuta solo recentemente (l. 14 genn. 2013 nr. 4), e a questo risultato hanno contribuito le tre più rilevanti associazioni del d. (AIAP, Associazione italiana design della comunicazione visiva, ADI, Associazione per il Disegno Industriale e AIPI, Associazione Italiana dei Progettisti d’Interni) che si sono fatte promotrici della definizione di una norma UNI specifica per la professione del designer.
A livello disciplinare, negli ultimi anni si è delineata con chiarezza l’esigenza di una ricentralizzazione teorica della disciplina, che ha vissuto eccessivi fenomeni di espansione geografica, comunitaria e tipologica (Pasca 2008; Russo 2012).
Tali estensioni, fortemente influenzate dalle scienze economiche, sono state in realtà l’esito naturale di un allontanamento dalle competenze necessarie a gestire la progettazione di un artefatto complesso. Illusi di poter continuare ad avere la regia esclusiva della concezione dell’oggetto (prerogativa dei designer della prima era meccanica), i designer contemporanei, non volendo accettare la necessità di un dialogo e di una condivisione del progetto con altre figure professionali e con altre competenze, hanno forzato lo spostamento della disciplina su posizioni strategiche e di controllo intellettuale, completamente scisse dalle pratiche del fare. Un bisogno di tali pratiche che invece negli ultimi anni è riemerso con forza anche a livello culturale, come esigenza imprescindibile dell’attività umana, con il fenomeno dell’artigianato digitale (v.) e dei makers. All’opposto Roberto Verganti, in relazione al ruolo dei designer all’interno delle grandi imprese, sostiene che, per perseguire un’innovazione ci sia bisogno di una vera e propria metamorfosi dei progettisti tradizionali verso quelli che definisce «ricercatori radicali». Esperti che «immaginano ed investigano nuovi significati di prodotto attraverso un’ampia e approfondita esplorazione della società, della cultura e della tecnologia» (Verganti 2009; trad. it. 2011, p. XIII). Una transizione non facile da attuare, ma che in alcuni casi si sta compiendo con successo.
Il sistema produttivo: dalla grande industria ai makers e all’artigianato digitale. – Fondamentale è sempre stato il rapporto del d. con il sistema produttivo e con le sue evoluzioni poiché è il sistema produttivo che porta a compimento quanto ideato nel processo progettuale, delineando il complesso dei vincoli oggettivi (materici, tecnologici, economici) del d., che però al contempo spinge il sistema verso l’ottimizzazione, e quindi verso la ricerca e l’innovazione.
Il primo decennio del nuovo millennio, soprattutto dalla seconda metà, è stato connotato dall’emergere della crisi finanziaria internazionale, che ha causato profondi mutamenti del sistema produttivo portandolo a una polarizzazione: da un lato le grandi aggregazioni imprenditoriali (holding ecc.), favorite dal sistema della finanza e dalla presenza sui mercati di nuovi investitori provenienti dai Paesi emergenti dell’Estremo Oriente, dall’altro la microimpresa, oggi più che mai supportata dal fenomeno dell’autoproduzione e dei makers (o artigiani digitali, un movimento culturale nato negli Stati Uniti che rappresenta un’evoluzione del mondo del fai da te, legata allo sviluppo del mondo digitale e del web; Anderson 2012). Un’estremizzazione economica che ha generato incommensurabili ricchezze, da un lato, e grandi povertà dall’altro (Bauman 2013). Una polarizzazione che ha messo fortemente in crisi la dimensione della piccola e media impresa, caratteristica del sistema produttivo italiano, legata alla tradizione e al territorio, costretta a migrare verso uno dei due poli.
Ne consegue che il d. del nuovo millennio ha lavorato su più registri disciplinari ed etici. Nei casi in cui si è collocato al centro delle strategie dei grandi gruppi industriali ha teso a sviluppare ricerca e innovazione, più virate sugli aspetti tecnologici e scientifici, senza disdegnare una ricerca morfologica coerente. In altri, come quello della Design art, propiziato da nuove forme di mecenatismo, ha lavorato in estrema libertà sugli aspetti morfologici, senza problemi etici e di sostenibilità economica. In altri ancora, tenendo fede agli obiettivi aulici del bene sociale, si è posto a servizio delle emergenze sociali, ambientali ed economiche del mondo.
Design art. – Tra i casi più discussi nell’ambito del d. degli ultimi anni c’è quello della Design art. Come ricorda Vanni Pasca (2010), nata come fenomeno tra i mercanti d’arte e gli antiquari, in concomitanza con l’esaurimento dei prodotti e delle opere liberty e art déco e con l’ingresso nelle gallerie dei prodotti di d. realizzati negli anni Ottanta in edizioni limitate, la Design art si è trasformata nel tempo in un nuovo spazio per la ricerca e l’innovazione.
La novità più rilevante degli ultimi anni sta nel fatto che i prodotti dei designer non sono stati più ricercati e battuti all’asta, ma commissionati direttamente dai galleristi. Circuiti di gallerie d’arte di fama internazionale, da Established & Sons a Londra, a Galerie Kreo a Parigi, alla Gogosian Gallery, con sedi nelle principali capitali culturali del mondo, hanno composto negli anni dei cataloghi di prodotti/ opere a firma delle più importanti personalità del d. contemporaneo, facendo entrare nelle gallerie, non solo mobili e complementi, come accadeva con il liberty oppure con i mobili di Memphis, ma anche motoscafi, biciclette e aerei.
L’unicità dell’oggetto o la possibilità di una sua edizione limitata hanno offerto lo spunto per il disegno di artefatti in grado di indagare scenari morfologici, tipologici e tecnologici estremi. Per cui la Design art, se da una lato contraddice molti principi fondativi del d., tra i quali la riproducibilità e l’utilità sociale, come nuova forma di mecenatismo si è affiancata alla tradizionale imprenditoria colta, che aveva generato i grandi masterpieces del secolo scorso. Inoltre, intorno alla rete delle gallerie d’arte, negli ultimi anni si è attivato anche un circuito fieristico internazionale, al quale partecipano le gallerie con le loro squadre, che culmina nella Miami/Basel design fair, la più importante fiera internazionale.
Social innovation design. – Un nuovo social model per il d. è ciò che auspicava lo studioso statunitense Victor Margolin all’inizio del millennio, ossia una nuova dimensione etica per la ricerca. Esistono fasce disagiate di popolazione che esprimono una domanda di prodotti e di qualità dell’ambiente che la ricerca del d. tradizionalmente orientata al mercato, non ha storicamente considerato. Nei primi anni del nuovo secolo è maturata la consapevolezza che il d., mutuando metodologie di indagine tipiche dei social workers, assistenti e operatori sociali, debba considerare la necessità di dare risposte ai bisogni di tali fasce disagiate (che comprendono anziani, disabili, popolazioni dei Paesi in via di sviluppo), ponendosi nuovamente l’obiettivo aulico di essere un’attività finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita di tutta l’umanità, non solo di quella con elevata capacità di spesa. Consapevolezza dimostrata, per es., dal fiorire di iniziative: dalla mostra Design for the other 90% (2007) al Cooper Hewitt Smithsonian design museum di New York, in cui erano raccolti progetti pensati per risolvere i grandi problemi che investono vaste aree del mondo, a specifici programmi di studio come quelli della Design Academy di Eindhoven, alle numerose ricerche sviluppate da Margolin, dallo statunitense Jacque Fresco e dall’italiana Anna Meroni.
Il d. per la social innovation ha posto dei paradigmi lavorativi diversi dalla prassi del d., tra i quali quello dell’interdisciplinarità, e cioè della necessità di lavorare sul campo in team accanto a sociologi, medici, ingegneri, nonché quello dell’individuazione di un contesto economico, produttivo e distributivo differente, in cui i committenti non sono privati, ma sempre più istituzioni pubbliche oppure ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale).
Altra questione rilevante, e che sembra ripercorrere la vicenda dell’ecodesign, o d. per la sostenibilità, è quella relativa allo scarso peso dato all’aspetto estetico degli artefatti per il sociale. Non bisogna dimenticare che il d., come afferma Pasca (2010), si muove tra etica ed estetica e che quest’ultimo aspetto è quello che lo ha distinto storicamente da altre attività progettuali legate ai sistemi produttivi.
Design, scienze e nuove tecnologie. – Il d. in questo scorcio di secolo ha anche vissuto un’importante fase evolutiva, che lo ha visto tendere a rinnovate relazioni con le scienze naturali (botanica, etologia ecc.) e con le scienze esatte (matematica, fisica, informatica ecc.) trovando in esse nuove condizioni esistenziali. Negli ultimi dieci anni il rinnovato rapporto con la natura è stato il fenomeno più evidente sia in tutte quelle manifestazioni della progettazione applicata atte a salvaguardare le risorse naturali, sia in quelle ricerche che, dalle logiche costruttive, dagli equilibri fisici e meccanici e anche dagli esiti estetici della natura, hanno preso spunto definendo il d. bioispirato (Langella 2007). Straordinari prodotti sono stati disegnati osservando la natura, come ha fatto Ross Lovegrove, studiando le architetture delle ossa, o Mathieu Lehanneur nei suoi microhabitat o infine Takujin Yoshioka, che nelle sue istallazioni ha cercato di emulare la nebbia, le nuvole o ha studiato il deposito dei cristalli minerali, per sperimentare nuove forme e creare con questi nuovi prodotti.
Negli ultimi dieci anni le nuove frontiere dell’informatica e dell’elettronica hanno anch’esse investito appieno il d., aprendo altri scenari evolutivi del prodotto e della comunicazione che trovano una sintesi nell’aggettivo smart.
Gli oggetti, un tempo artefatti passivi ai quali diverse società avevano attribuito simbolicamente corpo e anima, si sono trasformati in oggetti realmente animati, in grado di percepire, rispondere e interagire con l’utente, e oggi più che mai di essere connessi tra loro e alla rete web. L’interaction design è, infatti, una nuova disciplina che «riguarda le persone e come esse entrano in contatto con gli altri attraverso i prodotti e i servizi che usano» (Saffer 2007; trad. it. 2007, p. XVI).
Le interazioni, oltre che tra persone, possono avvenire anche tra persone e prodotti a patto che questi ultimi siano ‘consapevoli’, cioè abbiano una qualche capacità di percezione e di risposta. L’interaction design nasce dall’osservazione dei comportamenti tra le persone e delle persone in rapporto alle cose, e ha una natura contestuale, cioè «risolve problemi in un particolare insieme di circostanze» (Saffer 2007; trad. it. 2007, p. 5). Se da un lato con esso viene assolto uno degli scopi primari del d., essere cioè problem solving, dall’altro proprio la natura contestuale rende i prodotti interattivi rapidamente obsoleti e pertanto con un forte impatto sull’ambiente. Alla percezione di comfort quotidiano e alle grandi potenzialità applicative che l’interaction design offre, si affianca la questione dell’incontrollabile proliferazione di dispositivi specifici che, vista l’obsolescenza precoce, si è già trasformata nel problema della gestione di tali dispositivi in quanto rifiuti elettronici.
La connessione al web dei sistemi intelligenti e interattivi ha allargato il campo dell’interaction design, definendo la nuova frontiera dell’Internet of things (IoT). Con questa espressione (che ha sostituito quella precedente di ubiquitous computer o computer onnipresente) si intendono quei dispositivi che uniscono all’oggetto l’insieme controllore/sen so re/attuatori e la connessione alla rete (McEwen, Cassimally 2014), traendo da quest’ultima un’espansione delle prestazioni. In quanto oggetti connessi e intelligenti, gli IoT objects possono manipolare dati, sia in ingresso per elaborarli e svolgere più funzioni, sia in uscita per raccoglierli e archiviarli, alimentando il grande tema informatico della gestione dei big data.
L’idea di una quotidianità caratterizzata dall’interazione con prodotti intelligenti e connessi, quasi magici, resa disponibile dalla grande diffusione di Internet e dai costi sempre più accessibili delle componenti elettroniche, ha aperto molte strade all’innovazione, sia nell’ambito della ricerca informatica, sia per il d. che da queste nuove potenzialità dell’oggetto ha tratto nuova linfa vitale. Allo stesso tempo il d. si è offerto, proprio per metodologia e per capacità intrinseca di previsione (progettare è sempre un’attività proiettata verso il futuro), come vettore di innovazione anche per le ricerche informatiche ed elettroniche evidenziando campi e tipologie di oggetti da trasformare in IoT.
Aspetti estetici e morfologici. – Spesso chi elabora teorie sul d. dimentica quanto questa disciplina sia chiamata originariamente a fare e quanto la società si aspetti dal designer. Ci si dimentica che quest’ultimo è ancora un operatore estetico e che, come ricorda Verganti, i manager imprenditoriali «chiedono al designer di rendere i prodotti belli» (2009; trad. it. 2011, p. XII), e che oltre all’innovazione tecnologica, all’uso di nuovi materiali o alla definizione di nuove domande prestazionali per materiali e oggetti, nonché all’innovazione socioeconomica, il designer è chiamato a stabilire nuovi canoni estetici, a ricercare il bello nel mondo artificiale contemporaneo e futuro. I designer, infatti, devono essere in grado di compiere sintesi progettuali, che si distinguono da ciò che d. non è, per trovare soluzioni morfologiche, nel variegato insieme di forme, colori, dimensioni e proporzioni. Siamo concordi nel riconoscere che, a partire dagli anni Novanta del 20° sec., la complessità che ha connotato la terza rivoluzione industriale (Russo 2012) si sia riflessa pienamente sul fronte estetico, portando alla convivenza di diversi linguaggi ed espressioni con esiti morfologici anche lontani. Questo però non esime i progettisti dal sottrarsi al loro compito principale.
Analizzando i prodotti e le immagini elaborate negli ultimi anni, è possibile affermare che le soluzioni estetiche adottate, prescindendo dalla coerenza dei segni e dalla conoscenza della loro origine, sovvertono con forza le leggi consolidate della tradizione del d. innovando linguaggi e forme. Il d. contemporaneo tende a sottolineare più le relazioni tra segni che i segni stessi, operando contaminazioni culturali e sovversioni di regole sintattiche codificate nel secolo precedente, come, per es., è accaduto con i rapporti tra l’unità e le sue parti, tra l’intero e i suoi dettagli, o con la revisione dei rapporti scalari per nuove esigenze simboliche, funzionali ed esperienziali; o ancora la tendenza a rappresentare (sia negli allestimenti sia nelle immagini pubblicitarie) l’oggetto replicato, iterato, in risposta a un’idea di molteplicità e di massa presente nell’immaginario collettivo contemporaneo e debitore delle suggestioni artistiche orientali o del mondo digitale. Infine nel d. odierno vi è la ricerca insistente della smaterializzazione e della virtualizzazione dell’artefatto.
Multiculturalismo. – In risposta alla globalizzazione e alla relativa omologazione l’esasperata ricerca della differenza è divenuto un imperativo per il d. contemporaneo. Differenza nei costi e nel valore, ma prevalentemente differenza nella forma. Da qui, in coerenza con il multiculturalismo in quanto esito di una rinnovata alterità, l’interesse per ciò che le culture altre, lontane dall’Occidente, e oggi emerse anche a livello economico, possono offrire in termini di patrimoni morfologici e decorativi nuovi da saccheggiare.
Ne è testimonianza il grande successo di prodotti a firma di designer in grado di rielaborare i suddetti patrimoni estetici come nel caso dei progetti dello studio anglo-indiano Doshi Levien (Nipa Doshi e Jonathan Levien), o dell’indiano Satyendra Pakhalé, o ancora del rinnovato d. nipponico che ha ritrovato nel rapporto con la natura, alla base della sua cultura, suggestioni apparentemente orientate al neominimalismo, come nei progetti dello studio Nendo, di Naoto Fukasawa, o ancora del più giovane Yoshioka.
Virtualizzazione dell’oggetto. – I prodotti e i servizi del d. contemporaneo tendono ormai da molti anni a una sorta di smaterializzazione, perseguita con tutti i metodi e gli strumenti disponibili, come conferma Alberto Bassi: «Con gli anni Duemila prodotti e servizi si sono progressivamente spostati verso l’immaterialità» (2013, p. 100).
È chiara la derivazione di questo fenomeno dall’espansione dell’informatica e del digitale, che ha portato l’umanità a un contatto continuo con la virtualità, con ciò che esiste in forma di immagine o di servizio, ma non è realmente tangibile. Si pensi a quei prodotti che lavorano sull’evanescenza attraverso materiali trasparenti o riflettenti, o che si sono approssimati a una consistenza bidimensionale (silhouette), o addirittura lineare (outline); o ancora agli oggetti la cui densità materica è stata ridotta al minimo, con volumi vuoti, composti da fili e matasse. Si pensi anche alla costante ricerca della leggerezza nel d., che ha sempre rappresentato un assillo per la cultura del progetto moderno, perseguita sempre con strategie di sospensione o levitazione e oggi sostenuta dalla ricerca sui materiali e sulle tecnologie di produzione.
Design e molteplicità: estetica della casualità. – Sempre legato al mondo dei bit è il fenomeno estetico che negli ultimi anni ha lavorato sui concetti di iterazione del prodotto e dell’immagine. In un’epoca in cui la produzione in grande serie può dirsi conclusa, le immagini da essa derivanti (catene di montaggio, depositi o magazzini) continuano a suggestionare l’immaginario dei designer insieme al mondo del digitale, con le sue logiche intrinseche di ripetizione, replica e moltiplicazione.
Ulteriori stimoli estetici in questa direzione provengono da culture visive altre, come, per es., quelle elaborate dall’arte contemporanea cinese, in cui la serialità e la moltiplicazione di un soggetto sono tratti ricorrenti (Jones, Salviati, Costantino 2006). Ne deriva una modalità nuova di concepire il prodotto, che vive o in una sorta di serialità ordinata esistenziale oppure contiene in sé la molteplicità sotto forma di parti o frammenti.
Off-scale. – Uno dei più potenti strumenti di progettazione che il d. contemporaneo ha elaborato negli ultimi anni è quello della manipolazione scalare dei prodotti (e delle immagini) o dei suoi dettagli. Una manipolazione che, se da un lato va dall’infinitamente piccolo (nanotecnologie ecc.) al molto grande (gigantismo, fuori scala ecc.), ha una sua forte visibilità solo in questo secondo caso. Diverse le concause. Se, infatti, il fenomeno, inteso come atavica «propensione all’immensità» (G. Bachelard, La poétique de l’espace, 1957; trad. it. 1975) è legato alla natura dell’uomo e alla sua storia, pur conservando una matrice simbolica e ludica negli ultimi anni, in quanto off-scale, ha trovato una rinnovata spinta nella domanda di comfort e di pluri esperienzialità.
Tutta la storia dell’uomo può essere vista come una costante ricerca di un riscatto dalla fatica fisica (Boni 2014), perpetuata attraverso l’invenzione di artefatti e di strategie in grado di portare a una maggiore comodità e alla neutralizzazione dell’ostile natura biologica. Negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria rivoluzione dimensionale che ha fissato nuovi standard, facendo drasticamente invecchiare quanto off-scale non è e portando il fuori scala a diventare una norma (Martino 2008).
Oggetti più grandi abitano oggi la nostra quotidianità, e la differenza è evidente quando confrontiamo quei prodotti che citano pienamente modelli del passato (si vedano i restylings automobilistici della Volkswagen New beetle, della Mini BMW e della Nuova Fiat 500), in cui la differenza più eclatante sta proprio nella variazione dimensionale.
Colore e materiali. – Innovazione tecnologica e suggestioni dal mondo estetico del digitale sono alla base di un altro dei fenomeni che ha distinto il d. di questi anni, il rinnovato ruolo del colore. Tranne alcuni casi (De Stijl, Memphis ecc.) nel d. del Novecento si è raramente posto l’accento sul colore, soprattutto nel product design, in cui tale componente veniva lasciata come opzione finale del processo progettuale. La novità di questi ultimi dieci anni sta nel fatto che il colore può essere, al contrario, un punto di partenza per lo sviluppo di un’idea e del prodotto, e lo hanno abilmente dimostrato designer autorevoli attraverso sperimentazioni condotte nell’ambito della Design art (cfr. Barber & Osgerby con i tavoli Iris del 2008 o Hella Jongerius, v., con i Coloured vases). La rinnovata attenzione verso il colore è strumentale a diverse esigenze del d. contemporaneo, come quella di trovare una risposta cromatica a tutti quei nuovi materiali che non hanno un’associazione univoca in questa direzione. Materiali ibridi che non hanno colori predefiniti e che spingono verso soluzioni di forzata artificializzazione portando alla realizzazione di tanti prodotti connotati da un unico colore in grado di azzerare le differenze materiche e di far percepire il prodotto come un unicum. All’opposto si è invece delineata una tendenza cromatica tesa a rappresentare la ricchezza del mondo dei colori rappresentata dal mondo digitale e dall’industria chimica. Oltre i già citati progetti nell’ambito della Design art rientrano in questo fenomeno tutti quei prodotti o quelle immagini di grafica che hanno fatto ricorso al tema del ‘gradiente cromatico’ e cioè a graduali passaggi da un colore a un altro, ma sono altrettanto interessanti tutti quegli esperimenti che tendono a valorizzare fenomeni di ossidazione o a coinvolgere organismi o microrganismi nei processi ‘casuali’, ma ‘naturali’ di colorazione degli artefatti. Si pensi ai prodotti della De Castelli realizzati in acciaio COR-TEN (CORrosion resistance-TENsile strength) o in rame ossidato, o alle sperimentazioni sui tessuti Faber futures di Natsai Audrey, dove particolari batteri ‘stampatori’ tracciano una texture cromatica sulla seta.
Le caratteristiche socioeconomiche e antropologiche del d. sopradescritte, e le tendenze estetico-morfologiche accennate, non esauriscono lo scenario del d. contemporaneo, che indubbiamente per complessità, dimensione e dinamicità, non si presta a letture riduzionistiche, ma fanno comprendere come, nonostante le derive rappresentate oggi dalle eccessive aperture della disciplina verso ambiti non sempre di sua pertinenza, e l’apparente perdita di fisicità del mondo artificiale, il d. continui a occupare un ruolo di primo piano nella storia dell’umanità.
Bibliografia: D. Jones, F. Salviati, M. Costantino, Arte contemporanea cinese, Milano 2006; C. Langella, Hybrid design. Progettare tra tecnologia e natura, Milano 2007; D. Saffer, Designing for interaction. Creating smart applications and clever devices, Berkeley 2007 (trad. it. Torino 2007); C. Martino, Da off-scale a in-scale/Off-scale becomes the in-scale, «DIID, Disegno Industriale Industrial Design», 2008, 31, pp. 10-16; V. Pasca, Il design oggi, «Op. cit.», 2008, 131, nr. monografico; R. Verganti, Design driven innovation. Changing the rules of competition by radically innovating what things mean, Boston 2009 (trad. it. Milano 2011); V. Pasca, Il design del futuro, in XXI Secolo. Gli spazi e le arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2010, pp. 421-31; Il design italiano. 20.00.11. Antologia, a cura di T. Paris, V. Cristallo, S. Lucibello, Roma 2011; C. Anderson, Makers. The new industrial revolution, New York 2012 (trad. it. Makers. Il ritorno dei produttori, Milano 2013); D. Russo, Il design dei nostri tempi. Dal postmoderno alla molteplicità dei linguaggi, Milano 2012; A. Bassi, Design. Progettare gli oggetti quotidiani, Bologna 2013; Z. Bauman, Does the richness of the few benefit us all?, Cambridge 2013 (trad. it. Roma-Bari 2013); S. Boni, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Milano 2014; A. McEwen, H. Cassimally, Designing the Internet of things, Chicester 2014 (trad. it. L’Internet delle cose, Milano 2014).