descensus Christi ad inferos
Con la formula descensus Christi ad inferos s'intende la discesa di Cristo nel Limbo, dopo la morte e prima della resurrezione, per la liberazione dei giusti. Fondato su alcuni passi della Scrittura (Act. Ap. 2, 24-31; Petr. I Epist. 3, 18-20; 4, 5-6; Paul. Rom. 10, 6-7, cfr. anche Eph. 4, 8-10; Col. 1, 18; Matt. 12, 38-41; 27, 52-53), fu introdotto come articolo di fede sin dal IV secolo, nei simboli apostolici, con la formula descendit ad inferos (o inferna). Data l'oscurità dei passi in questione, per tutto il Medioevo essi furono oggetto di varie e divergenti interpretazioni da parte dei padri e dei teologi, e ciò spiega i ripetuti interventi in materia da parte di papi (Leone Magno nel 447, Simmaco nel VI sec.) e dei concilii (Toledo 633 e 693, Arles IX sec., Sens 1141) fino alla solenne proclamazione del dogma della discesa di Cristo nel 1215 col IV concilio Lateranense e nel 1274 col concilio di Lione (cfr. H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, Friburgo 1942, §§ 3, 6, 40, 429, 462, 574a).
Quanto alla sostanza dottrinale D. si adegua al dogma. In If IV 53-63 egli descrive la discesa di Cristo nel Limbo con segno di vittoria coronato (ma cfr. Vangelo di Nicodemo: " posuitque Dominus crucem suam in medio inferni, quae est signum victoriae ") per ‛ trarci ' Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Giacobbe, Isacco con i dodici figli, Rachele e altri molti, e feceli beati. D., cioè, limita il d. Ch. a un atto di salvazione (che pure non è indicato nella Scrittura, ma è un dato della tradizione) dei soli patriarchi e dei giusti (così è naturale intendere le parole altri molti), escludendo con ciò le interpretazioni non ortodosse che attribuivano alla discesa un significato metaforico (Abelardo) o che, legittimate dalla complessità del testo biblico, vedevano in essa un'opera di evangelizzazione dei morti e di salvazione universale. D'altronde D. stesso afferma per bocca di Virgilio (If IV 37-38) che non esiste salvezza per coloro che se furon dinanzi al cristianesmo, / non adorar debitamente a Dio, il che risponde perfettamente al principio già nettamente affermato da Gregorio Magno: " Neque etenim infideles quosque et pro suis criminibus aeternis suppliciis deditos, ad veniam Dominus resurgendo reparavit; sed illos ex inferni claustris rapuit, quos suos in fide et actibus recognovit " (Homilia in Evangelia II 12 n. 6; P.L. 76, 1177). Ma è pur vero che la drammatizzazione del d. Ch. in D. è sulla linea degli apocrifi e della letteratura patristica e medievale in genere, che presentavano, ben oltre gli scarsi accenni biblici, ricchezza di dati sulla vicenda di Cristo. Nel passo di If IV 52-63 e, ancor più, di XII 37-45, la ‛ vittoriosa possanza ' di Cristo è rappresentata in termini certo non derivatili dal Nuovo Testamento. Per di più l'accenno di IV 38-39 colui che la gran preda / levò a Dite del cerchio superno presenta la liberazione dei giusti come una contesa vittoriosa con il mondo infernale. Tema, questo, tradizionale delle discese agl'inferi e comune nei testi cristiani, dove il d. Ch. implicava la disfatta del demonio. Vale qui ricordare Venanzio Fortunato (Vexilla regis, PL 88, 96): " Tulitque praedam Tartari " (cfr. anche lo pseudo-agostiniano Sermo 160 " ad infernorum profunda descendit; cumque tenebrarum terminum quasi depraedator splendidus ac terribilis attigisset, aspicientes eum impiae ac tartareae legiones, territae ac trementes, inquirere coeperunt dicentes: Quisnam iste terribilis, et niveo splendore coruscans? ", P.L. 39, 2060; Fulberto di Chartres Hymnus paschalis 9-13 " Quam devorarat improbus / praedam, refudit tartarus, / captivitate libera, / Jesum sequuntur agmina. / Triumphat ille splendide ").
Per quanto concerne la letteratura del d. Ch. va detto che il capitolo dei ‛ precursori ' di D. (come potremmo dire riferendoci al contributo datoci qui in Italia dal D'Ancona) o dei ‛ forerunners ' (come, invece, potremmo esprimerci riguardo all'omonimo contributo di M. Dodds che ancor meglio ci immette nel cammino da seguire in questo momento) suole per lo più prendere il via dalle note visioni medievali di origine celtica (la Navigazione di S. Brandano, il Purgatorio di S. Patrizio e la Visio Tungdali) o da analoghi documenti tra i quali posto tutto speciale occupa la Visio Alberici.
In effetti di tale letteratura esiste anche un precedente capitolo classificabile come gioco di variazioni sul tema del d. Ch., scandito secondo il duplice ritmo della reale vicenda di Cristo: descensus ad inferos ma, in pari tempo, ascensio ad coelum.
Tale ritmo trova la sua ragione, anzitutto, nei dati dei passi scritturistici della prima lettera di s. Pietro (3,18-20 e 4, 6) e della lettera di s. Paolo agli Efesini (4, 9, dove tale duplicità di ritmo è particolarmente evidenziata: " Quod autem ascendit quid est, nisi quia et descendit primum in inferiores partes terrae? ") e, in secondo luogo, nell'abbondante fioritura apocrifa su cui Dodds richiama l'attenzione: il Libro di Enoch (etiopico, slavo, ebraico), L'ascensione di Isaia, il Vangelo di S. Pietro, il Vangelo di Nicodemo e altri testi analoghi.
A un aggancio con l'opera dantesca si perviene solo se si considera che tale letteratura apocrifa e, prima ancora, tale dialettica del d. - ascensus ricevette generosa ospitalità in terra celtica proprio in coincidenza con quella fioritura culturale di cui sarà espressione soprattutto Beda (per il cui tramite, effettivamente, ci giunge la prima documentazione del capitolo che c'interessa).
Tale acquisizione di elementi apocrifi del d. Ch. si verifica nell'arco poetico che partendo da Caedmon va a concludersi in Cynewulf; e, più esattamente ancora, mediante la personale partecipazione che alla dialettica del d. - ascensus dà proprio Cynewulf, cui senz'altro dobbiamo una Ascension (seconda parte del Christ), ma molto probabilmente anche un Descent into Hell leggibile nello stesso Exeter Book che, unitamente al Vercelli Book, ci trasmette l'opera di Cynewulf.
A questo punto il problema del possibile nesso con D. tanto più si pone, quanto più gracili sono le prove di una dipendenza di D. dalle visioni celtiche e italiane sopra ricordate. Né è possibile risolverlo con certezza.
Probabilmente l'affascinante capitolo della fioritura visionaria irlandese vale non tanto come fonte dantesca, quanto come prova eloquente di una correlazione onirica, nata da un comune dinamismo interiore cui anche D. viene oggi, con sempre maggiore vastità di prove, riportato. Se indubbiamente genuino è il trasporto onirico di Caedmon, altrettanto reale è il verificarsi di un procedimento comune di espressione simbolica quale prima origine della letteratura oltremondana cui il d. Ch. dà avvio.
Bibl. - M. Dodds, Forerunners of D., Edimburgo 1903 (cap. III " The ‛ Descensus Christi ' ") utilmente integrabile sia con la letteratura che va da Caedmon a Cynewulf (ad es. E. van K. Dobbie, The manuscripts of Caedmon's Hymn and Bede's Death Song, 1937, e C.W. Kennedy, The poems of Cynewulf, 1910) sia con quella concernente le tre grandi visioni irlandesi (vedasi soprattutto O. Schade, Visio Tungdali, Halis Saxonum 1869); H. Quillet, Descente de Jésus aux Enfers, in Dictionnaire de Théologie Catholique IV 1, Parigi 1920, 565-619; J. Chaine, Descente du Christ aux Enfers, in Dictionnaire de la Bible, Supplement, II, ibid. 1934, 395-435.