GENTILE (Gentile Pignolo), Deodato
Nacque a Genova nel 1558, dalla nobile famiglia Pignolo che era stata ascritta all'"albergo" dei Gentile, con la riforma del 1528.
Avviato, secondo una tradizione familiare, alla vita religiosa tra i domenicani, il G. entrò sedicenne, il 26 sett. 1574, nel convento di S. Maria di Castello, nella sua città. Studiò nella provincia lombarda dell'ordine, ottenendo la laurea in teologia. Intenzionato a dedicarsi agli studi e all'insegnamento, nel 1583 fece stampare a Bologna la sua prima opera, la compilazione Aurea catena innovem annulos distincta hieroglyphice perquisita. Dal 1588 al 1589 fu prima priore di S. Maria di Castello e poi definitore della provincia; in tale veste prese parte al capitolo generale di Roma del 1589, durante il quale gli fu conferito il magistero. Nello stesso anno, pubblicò a Genova l'opuscolo Almae Urbis mystica descriptio.
In seguito gli impegni di governo lo distolsero dalla cattedra, indirizzandolo verso una diversa carriera: nel 1590 fu eletto priore a Bosco Marengo e l'anno seguente assunse tale carica a S. Sabina, in Roma, dando quindi inizio al suo ufficio nell'Inquisizione romana, l'attività principale della vita del Gentile. Dovette dimostrare rapidamente la sua abilità, perché già nel 1593 Clemente VIII lo nominò inquisitore di Milano.
Severo nella fase istruttoria dei processi, per le sentenze si uniformava alle direttive della congregazione del S. Uffizio, ispirate a una certa clemenza in cambio della confessione e dell'abiura dei rei. A Milano però ebbe soprattutto a che fare con le proteste dei commercianti e degli ufficiali del dazio contro i sequestri delle mercanzie provenienti dalla Germania, motivate dal divieto di rapporti, anche di natura commerciale, con eretici, fatta eccezione per quelli del Cantone dei Grigioni. Il G. scrisse a Roma facendo presente che tale provvedimento era causa di depressione delle attività economiche, ma ebbe l'ordine di confermarlo, cosa che fece subito con un editto nel 1593, seppure mitigato dal permesso di far transitare liberamente nello Stato le merci importate dai paesi protestanti non dirette a Milano, purché accuratamente sigillate. Confermò pure il visto del S. Uffizio sulle mercanzie introdotte dai Grigioni, al fine di controllare l'eventuale commercio di libri proibiti, e vietò ai mercanti milanesi di risiedere in quegli Stati eretici dove non fosse stato possibile garantire almeno la presenza di qualche religioso cattolico in grado di provvedere ai loro bisogni spirituali.
La congregazione romana rimase soddisfatta del suo modo di procedere e alla fine del 1599 lo richiamò a Roma per promuoverlo commissario generale.
Il G. non prese parte alla fase finale del lungo processo contro Giordano Bruno, conclusosi poche settimane dopo. Tuttavia ne studiò certo gli atti, insieme con quelli delle altre cause importanti allora in corso. Era ormai pronto per l'ingresso nella gerarchia ecclesiastica e, nel 1604, la morte del vescovo di Caserta e inquisitore del Regno di Napoli Benedetto Mandina sembrò liberare il posto adatto per lui. Così anch'egli, il 9 luglio, poté cumulare le due cariche.
Delle due funzioni, si dedicò molto di più alla seconda. Appena ricevuto il regio exequatur, il 24 luglio si trasferì infatti a Napoli, delegando l'esercizio del ministero vescovile al suo fiscale e al suo vicario. Provvide comunque a trasferire la sede del vescovato da Caserta Vecchia, non senza aver fatto prima ampliare quella residenza, al palazzo nella vicina località di Falciano, che ricostruì dalle fondamenta e dotò di un giardino. Ma anche nella diocesi mostrò il suo spirito inquisitorio in occasione della visita pastorale del 1614, compiuta per mezzo dei propri curiali, a lungo ricordata per i 208 ducati ricavati dalle numerose multe inflitte a parroci e rettori di chiese del Casertano, colpevoli di varie infrazioni alle consuetudini liturgiche. La realtà napoletana, fatta di profonda decadenza dei costumi religiosi e civili, dovette in larga parte deluderlo. Per anni fu assorbito dall'esame di procedimenti per abiure di cristiani prigionieri dei Barbareschi, corruzione, magia e superstizione, nei quali erano coinvolti molti sacerdoti (procedimenti che generalmente terminavano con l'ammissione di colpevolezza degli imputati, condannati a pene lievi) e dal divieto di introduzione di libri, come fece nel 1609 per l'Apologia di Giacomo I d'Inghilterra.
Il suo tribunale gli sembrava in stato di decadenza, tanto da spingerlo più volte a scrivere dei molti procedimenti che non riusciva a istruire o portare a termine per la scarsità del personale, proponendo l'applicazione più severa delle pene pecuniarie al fine di riuscire, almeno, a ingrandire le carceri del S. Uffizio di Napoli. Inoltre disapprovava il fatto che i mercanti stranieri residenti a Napoli, in particolare gli inglesi, vivessero "secondo la loro setta".
Il G. ebbe comunque a che fare con almeno due imputati di grande rilevanza: Tommaso Campanella e Giulia Di Marco. L'eccezionale lunghezza del processo a Campanella, non gli consentì di svolgere che un ruolo secondario; il caso della Di Marco, invece, fu gestito dal G. dall'inizio alla fine.
A Roma aveva già studiato gli atti contro Campanella e a Napoli lo conobbe nel luglio del 1605, quando, insieme con il nunzio I. Aldobrandini, decise di incontrarlo nel castello di Sant'Elmo, dove era tenuto prigioniero, dopo che il filosofo gli aveva inviato una supplica con la quale si scusava degli errori passati e accennava a rivelazioni avute da Dio. Come scrisse lo stesso Campanella in una lettera a Paolo V del 1606, il nunzio lo accusava di poca umiltà e il G. di opportunismo allo scopo di salvarsi la vita.
Nonostante questa diffidenza nei confronti del Campanella, in seguito alle sue ripetute suppliche, il G. nel 1607 ne accolse la richiesta di mitigazione del regime carcerario, con il consenso degli Spagnoli, e ottenne che il suo confessore G. Peña potesse assolverlo anche dai casi riservati. Quando però, nel 1608, il S. Uffizio fu insospettito dal fatto che Campanella avesse intrapreso la traduzione latina delle sue opere e ordinò al G. di farlo spostare dalle carceri regie a quelle dell'Inquisizione, egli non ebbe l'assenso vicereale e dovette far cadere la pratica. Lo stesso accadde il 16 luglio 1609, allorché gli giunse l'ordine di farlo estradare a Roma. Viste le difficili relazioni con la Spagna, il S. Uffizio si rassegnò, nel 1610, a raccomandare al G. di adoperarsi perché il prigioniero fosse severamente sorvegliato e gli venisse impedito di scrivere e di comunicare con altri, eccettuato il suo confessore. In forza di ciò il G. si mantenne sempre al corrente delle condizioni e dei vari luoghi di detenzione del prigioniero che, da parte sua, si adoperò in vari modi per eludere i divieti. Più volte, inoltre, gli sequestrò libri (tra cui i suoi Metafisica e Recognitio verae religionis, il Nuncius sidereus di G. Galilei) per farli esaminare, ma egli stesso non vi trovò nuovi errori, pur confermando la materia del contendere emersa nelle precedenti fasi del processo.
Tuttavia, nella Napoli del primo Seicento, la risonanza del caso Campanella fu minima rispetto allo scandalo suscitato dalla vicenda Di Marco e dalla sua dottrina della "carità carnale".
Sin dal suo arrivo in città, nel 1604, il G. sospettò delle voci di santità fatte circolare dal popolo e delle promiscue riunioni private nelle quali era coinvolta questa terziaria francescana, della cui moralità cominciò a dubitare. Nonostante avesse ottenuto da Roma il permesso di procedere a un'informativa e la facesse spiare, solo dopo il 1606 - e per la generica motivazione di condotta poco prudente - il G. riuscì a far richiamare a Roma padre Aniello Arciero, della Congregazione dei ministri degli infermi, uno dei principali seguaci della Di Marco, e a imporre a lei la residenza nel monastero di S. Antonio e la presenza del confessore teatino D. Antinori, un consultore del S. Uffizio.
La Di Marco, aiutata dal suo consigliere avvocato Giuseppe De Vicariis, seppe dissimulare bene quella che era, secondo il vaglio delle fonti disponibili, una forma di quietismo accompagnata da disordini sessuali, e convinse Antinori della propria santità. Il G. perseverò nei sospetti, ma non poteva far altro che insistere sulla mancanza di prudenza della donna, fino a procurarsi rimproveri per eccesso di severità, per aver confinato la Di Marco fuori Napoli, a Cerreto Sannita.
Inoltre nel marzo 1610 morì il nunzio V. Muti e il 29 marzo Paolo V nominò al suo posto il G., obbligandolo però a cedere la carica di inquisitore al vescovo di Nocera Stefano De Vicariis, all'inizio del 1611.
Tra i due nacque una certa rivalità, fomentata dal fatto che il De Vicariis, trattando come un proprio parente l'omonimo discepolo della Di Marco, revocò tutti i provvedimenti presi contro di lei dal G., permettendole di rientrare trionfalmente a Napoli, nel 1611, per riprendervi le sue pratiche di devozione. La nomea della donna crebbe al punto da attrarre tra le sue fila, a vari livelli, funzionari dei tribunali laici ed ecclesiastici, esponenti dell'alta aristocrazia e grandi ufficiali dell'amministrazione, e da ottenere la protezione della viceregina Caterina de Sandoval.
Ma il G. continuò a seguire la vicenda da lontano - discretamente, perché anche il suo uditore O. Tabellano credeva alla santità della Di Marco -, in attesa di un'occasione. Questa si presentò nel 1614, quando quattro teatini devoti della Di Marco, dopo molte esitazioni, si pentirono e, in cambio della garanzia di assoluzione, accettarono di denunciare formalmente la terziaria. Questa, informata in segreto dallo stesso inquisitore De Vicariis, si pose sotto la protezione dei gesuiti.
A quel punto la questione si trasformò in una lite tra gesuiti e teatini. Il S. Uffizio, compreso l'abbaglio, se non la complicità, del vescovo di Nocera, risolse di restituire la causa al tribunale della nunziatura, dopo l'infelice scelta di affidare il processo al vescovo di Calvi, Fabio Maranta, che aveva rivelato il contenuto di tutti gli atti al viceré Fernando de Castro conte di Lemos, provocando un ennesimo conflitto di giurisdizione tra Napoli e Santa Sede con la minaccia dell'espulsione dei teatini dal Regno. Il G., ritornato così nelle funzioni di inquisitore, fece intendere al viceré che, a differenza di altri casi dove non aveva esitato a fare il nome di potenti (aveva infatti mandato a Roma, in passato, il sommario di un processo per negromanzia dove era citato il duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga) avrebbe agito solo contro i protagonisti della vicenda, escludendo i complici altolocati "per guardare l'onore di tante illustri e nobili famiglie". Poté così prima tradurre a Roma G. De Vicariis e poi la donna, via mare, dopo averla fatta prelevare di notte a Pozzuoli, dalla casa del luogotenente della Regia Camera Bernardino Montalvo, dove era stata ospitata. Anche se il processo terminò con l'abiura solenne della Di Marco, pronunciata a Roma nella chiesa della Minerva il 12 luglio 1615 e a Napoli il 9 agosto in duomo, e la sua condanna al carcere perpetuo, restò nel popolo la convinzione che la terziaria fosse stata accusata ingiustamente dal nunzio per invidia, poiché questi all'avversione della Di Marco, protetta dai gesuiti, contrapponeva singolarmente una profonda devozione per Orsola Benincasa, la mistica dei teatini.
Di tutto questo, nulla traspare dalla corrispondenza diplomatica del G., successivamente divisa tra la segreteria di Stato e la congregazione del S. Uffizio. Il G. nunzio vi appare proteso a difendere in ogni modo la giurisdizione e le immunità ecclesiastiche, sospettoso degli Spagnoli, che gli sembravano voler "impadronirsi di quasi tutta la Cristianità senza poter avere ostacolo".
L'11 giugno 1610 riformò, secondo le istruzioni romane, il tribunale della nunziatura, lamentando però l'insufficienza del personale e delle risorse, rispetto ai bisogni delle diocesi del Regno. Nell'anno successivo cercò di far pubblicare a Napoli l'opera del Bellarmino "circa la giurisditione", senza riuscirvi perché era stata giudicata dal Lemos troppo favorevole alle tesi della S. Sede. Il 26 ag. 1611 si interessò della spedizione al cardinale Scipione Borghese del S. Giovanni Battista di Caravaggio. Nel 1614 redasse un formale richiamo alla residenza dei vescovi campani nelle loro diocesi, secondo le prescrizioni del concilio di Trento, e spedì a Roma molti avvisi sui movimenti della flotta turca. Contrariamente alla sua volontà, si vide poi costretto a sospendere l'immunità in quelle chiese del Regno diventate ricettacolo di banditi e a chiedere l'aiuto dei regi. Il 21 giugno ebbe il permesso da Roma di diminuire i gravosi censi dei luoghi pii.
Nel 1615 il G. ingaggiò una lotta con l'amministrazione vicereale, rifiutandosi di pagare l'aumentata tassa per l'exequatur, che reputava essere stato illegittimamente esteso anche agli atti di minore importanza, cui seguì poi un'altra disputa con il viceré sulla foggia degli abiti del Collegio dei teologi, imposta dal Lemos sul modello dell'Università di Salamanca.
Dopo la fine della causa Di Marco, il G. riuscì a risolvere l'annoso contenzioso sui proventi della gabella dei frutti e del grano, 14.000 ducati che gli Spagnoli si impegnarono a versare ratealmente per la fabbrica di S. Pietro. Ebbero invece esito negativo i ripetuti tentativi di moralizzare la Chiesa meridionale, nei confronti della quale il G. cercò di reprimere gli abusi più gravi, ma ammise di essersi trovato obbligato a lasciar correre i minori "perché è costume antico da quelle parti".
Il 12 marzo 1616 scrisse a Roma dolendosi dei troppi benefici concessi in passato al viceré, che ne chiedeva altri. All'inizio dell'anno, era tornato a interessarsi di Campanella, reclamando di nuovo per le sue eccessive libertà e sequestrandogli l'Apologia pro Galilaeo. Tuttavia, forse presago di non avere il tempo per condurre a termine anche questo processo e arrivare al cappello cardinalizio, la cui concessione gli era stata ventilata, poco dopo intercesse due volte per lui affinché gli venissero garantiti il vitto e i conforti della religione.
Era stato appena rassicurato di questo, alla fine di marzo, che improvvisamente, tra il 4 e il 6 apr. 1616, morì a Napoli nel palazzo della nunziatura. Fu sepolto in una ricca tomba nella chiesa napoletana di S. Caterina di Formello, appartenente all'Ordine dei domenicani riformati lombardi.
Il G. non trascurò mai gli studi. Col proposito di pubblicarli con calma in un secondo momento, aveva lasciato nella Biblioteca Borghesiana alcune sue carte e tre trattati manoscritti: un De divinis auxiliis seu de divinae gratiae concordia cum libero arbitrio, il De potestate summi pontificis e il De immunitate ecclesiastica, opere di carattere tomistico legate alla contemporanea questione de auxiliis. Questi libri però non trovarono un curatore e furono presto dimenticati.
Allievo del G. fu il vescovo di Lodi Michelangelo Seghizzi, mentre un suo nipote che prese l'abito domenicano nel 1625, assumendo il nome di Deodato, morì prima di poterne uguagliare la carriera.
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