CANEVARI (Canevaro), Demetrio
Nacque a Genova il 9 marzo 1559 da Teramo e da Pellegrina Borsona. La famiglia materna si vuole discendesse dai Sabelli di Roma, mentre l'antica stirpe dei Canevari, di origine rapallese, si fa risalire intorno al 1100.
È probabile che i Canevari traessero nome ed origine dalla parrocchia di S. Giacomo di Canevale, vicino a Rapallo, di cui si hanno notizie fin dal sec. XI. Secondo altre testimonianze i Canevari fioriti a Genova nei secoli successivi non discenderebbero direttamente da quella stirpe; il nome avrebbe invece origine dalla figlia di un Matteo Canevaro, che a Genova avrebbe sposato il discendente di una nobile famiglia di cavalieri di Costantinopoli, Demetrio Scordari. Dei cinque figli nati da questo matrimonio, che avevano preso il cognome materno, l'ultimo, di nome Matteo e nato nel 1490, ebbe a sua volta diversi figli, dei quali il primo, chiamato Teramo, fu il padre del Canevari. Teramo negoziava in lane e sete a Piacenza; occupò diverse cariche pubbliche e fu anche magistrato del Banco di S. Giorgio. Oltre al C. ebbe altri due figli: Gian Matteo, che proseguì la professione paterna, e Ottaviano, che, laureatosi in legge, fu magistrato e senatore. Teramo morì sullo scorcio del sec. XVI. Discendenti di Ottaviano furono Domenico, doge di Genova nel 1742, e Pier Maria, morto nel 1747 combattendo contro gli Austriaci.
Il C. iniziò a Genova i suoi studi di filosofia e lettere, e li proseguì nel 1577 al seminario di Roma, acquisendo una perfetta conoscenza del greco e del latino. A Pavia frequentò i corsi di medicina e scienze naturali. A Genova tornò solo nel 1580 per chiedere la riconferma della laurea, ottenuta a pieni voti. Con dottrina ed eloquenza tenne un discorso celebrativo per l'insediamento del doge Geronimo de Franchi. Esercitò la professione medica a Genova fino al 1584; nel 1583 aveva preso, all'insaputa dei genitori, gli ordini sacri minori dalle mani dell'arcivescovo Cipriano Pallavicini, e più tardi entrò nell'Ordine gerosolimitano. Pertanto rimase celibe, ed amava vivere solo e appartato, vestendo da chierico. Verso il 1585 prese a viaggiare in diversi paesi europei per conoscere e frequentare le migliori scuole mediche, oltre a quelle italiane già a lui note. Stabilitosi poi definitivamente a Roma, dove si era recato assieme al fratello Ottaviano, che rivestiva la carica di ambasciatore, proseguì la carriera professionale già iniziata a Genova, divenendo in breve molto ricercato da principi e da prelati, come il cardinale Girolamo Della Rovere, Filippo Spinola, Evangelista Pallotta ed il papa Urbano VII, genovese, che lo nominò suo protomedico. Anche sotto i successivi pontefici (Gregorio XIV, Innocenzo IX, Clemente VIII, Paolo V) egli fu riconfermato medico della Compagnia del SS. Sacramento per gli infermi di tutta la parrocchia di Borgo, carica che lo ammetteva a far parte degli archiatri palatini, addetti al palazzo apostolico, e a partecipare di tutti i loro privilegi ed emolumenti. Ricco e stimato, impiegò la sua mentalità umanistica e molte ricchezze nella raccolta di opere mediche principalmente, ma anche di teologia, di diritto, di filosofia, che costituirono una delle biblioteche private più ricche del suo tempo.
La sua vita privata a Roma porse il fianco al diffondersi della maligna diceria, riferita anche dal Marini (I, p. 468), dal Mojon (II, p. 87) e dallo Spotorno (III, p. 258), ch'egli fosse d'animo gretto e avaro, che vivesse in sordida povertà, nonostante le ingenti ricchezze accumulate, fino a nutrirsi come un mendicante; addirittura che facesse l'usuraio. Il Pescetto (I, pp. 169 ss.), ricondotta tale accusa alle pungenti affermazioni di Gian Vittorio Rossi, spiega le stranezze del carattere del C. con la sua indole malinconica e misantropica, e con l'eccessiva passione per lo studio, che lo inducevano ad un vivere sobrio e ad una tavola assai parca. Comunque i suoi lasciti testamentari stanno a dimostrare un animo non certo così duro come si è voluto far credere. Il testamento infatti, dettato il 30 apr. 1623 e più volte stampato, contiene, oltre alle disposizioni per la sepoltura, i legati ai suoi discendenti (il cosiddetto "Sussidio Canevari"), in particolare a coloro che si dedicassero agli studi di filosofia, medicina e legge, e a coloro che si addottorassero a Genova, oltre alle dotazioni per ogni familiare di sesso femminile. Erano previste altresì borse di studio per studenti di medicina meritevoli, un lascito affinché quattro medici si dedicassero alla cura dei poveri e altre disposizioni particolari. Tra esse le più rilevanti riguardano la sua famosa biblioteca che nel testamento definisce "cosa ... sommamente amata et tenuta cara". Si tratta in realtà di due biblioteche: una, di libri legali, lasciata al nipote Luigi; un'altra, composta di circa cinquemila opere mediche e filosofiche, lasciata in un primo tempo alla famiglia Canevari e poi alla Compagnia di Gesù (l'elenco completo delle opere mediche è pubblicato da Cirenei, pp. 42-116). Tale raccolta, in cui si trovano anche le opere dello stesso C., e che comprende circa duecentocinquanta autori, famosi o pressoché sconosciuti, da Avicenna a Brasavola, da Ippocrate a Montano, è un completo panorama della cultura medica del sec. XVI e dell'inizio del XVII sec.; ora è conservata presso la Civica Biblioteca Berio di Genova.
Il C. morì a Roma il 22 sett. 1625, consunto da lunga e lenta febbre, e fu sepolto nella chiesa di S. Maria in Traspontina. Una statua sepolcrale fu fatta erigere dai parenti nella chiesa di S. Maria di Castello a Genova. Il catalogo delle sue opere è dato da fra' Vincenzo M. Domenico Micheli in un manoscritto dal titolo Canevariae familiae originis et discendentiae series, e concorda sostanzialmente con quello pubblicato dal fratello Ottaviano nella sua prefazione all'Arsmedica.
Tra esse vanno ricordate: 1)De hominis procreatione et rerum naturalium ortu,atque interitu, Genuae 1583:è un'operetta di filosofia aristotelica dedicata al fratello Ottaviano, pubblicata a venticinque anni, con la quale il C. intende indagare, con oscuri ragionamenti sull'influenza esercitata sopra i corpi dalle molecole primitive dei quattro elementi e sull'attrazione degli astri e dei pianeti, il mistero della generazione e le leggi della riproduzione degli esseri. La fibra organica, a suo avviso. contiene un principio vitale, distinto però dal principio generale di tutta la creazione. Gli esseri sono soggetti ad uno sviluppo fino alla morte e alla putrefazione, dopo le quali avrebbero inizio altre infinite riproduzioni. L'opera si rivela troppo inficiata di postulati metafisici per avere un valore scientifico. 2) De ligno sancto commentarium,in quo praecipuae qualitates eius et facultates omnes exacta diligentia exprimuntur,ex illisque lignum quodam,quod nuper in Italiam delatum est,pseudolignum sanctum esse et nullo modo verum,eius fautoribus accurato examine demonstratur. Romae 1602:come appare chiaro dal titolo, quest'opera tratta dell'introduzione in Roma di un tipo di legno contraffatto al posto dell'antico "guajaco" o legno santo, dotato di proprietà mediche per la cura della sifilide. Sulla scorta delle idee di Ramusio, Fracastoro, ed in particolare del Manardo, di Amato Lusitano e di P. A. Mattioli, il C. combatte l'opinione di chi, come Falloppio o Musa Brasavola, riteneva che altre specie di legno avessero le stesse proprietà; per combattere quel morbo, a suo avviso, il miglior rimedio è comunque il mercurio. Giudicata da taluno il migliore dei lavori del C., e citata con lode da Haller (II, p. 354), l'opera fu scritta per confutare l'opinione di Clemente Cinzio contenuta nelle Disputationes de natura et facultatibus ligni sancti. 3) Morborum omnium qui corpus humanum affligunt,ut decet,et ex arte curandorumaccurata,et planissima methodus, Venetiis 1605: dedicata al medico Ortensio Zachis, è un trattato di patologia generale e speciale, che tratta della diagnosi delle malattie, della prognosi e dell'esito di esse, delle cure metodiche richieste. Nella prima parte il C. analizza le possibili cause delle malattie, insistendo sulla necessità di ben localizzarle per non sbagliare la diagnosi; nella seconda parte, dedicata alla sintomatologia, egli si richiama alla dottrina di Ippocrate sui sintomi, ma si serve in particolare della rilevazione sfigmica, mostrando di avere una approfondita conoscenza, anche dal punto di vista anatomico e fisiologico, del polso e delle sue indicazioni; nella terza parte analizza le indicazioni e le controindicazioni di moltissime malattie, lasciando capire di avere moltissima fiducia nella forza curativa della natura. La verbosità e la prolissità di quest'opera di 350 pagine rilevata da alcuni biografi (Spotorno, p. 259) sono da ricondurre all'uso del tempo; ma nonostante le oscurità, l'opera è ricca di buoni e sani precetti medici dettati dalla pratica. 4) De primis rerum natura factarum principiis Commentarius, Genuae 1626: è un rifacimento della sua prima operetta, nella conclusione della quale aveva promesso al fratello la stesura di un commentario più approfondito. Anche qui vengono studiati lo sviluppo dei corpi, l'aggregazione delle particelle, l'influenza dei quattro elementi sui corpi, l'influsso degli astri; non vi è però alcun progresso rispetto al primo scritto, poiché non muta il metodo dell'indagine né lo stile espositivo si fa più chiaro, se non nel fatto che qui si espongono anche le proprietà dei semplici e dei composti. 5) Ars medica,seu curandorum morborum affectuumve praeternaturalium qui corpus humanum qffliguntaccurata absolutaque methodus, Genuae 1626: è l'ultima opera del Canevari. Si tratta del testo da lui approvato dell'Ars medica, già stampata a Venezia senza il suo consenso e con molte lacune, come si ricava dalla prefazione. L'argomento, a quel tempo di grande rilevanza, è quello delle febbri; e proprio una affezione di questo tipo porterà il C. alla tomba. Egli discorre delle cause delle febbri, dei diversi generi di esse e delle differenze; ne esamina poi i sintomi, gli esiti, i morbi concomitanti, per giungere a delineare i vari metodi di cura. Poiché il C. era un ottimo clinico, consiglia un uso giustamente moderato dei salassi e dei purganti. Pur non risentendo del rinnovamento scientifico del sec. XVI, in particolare riguardo alle scoperte anatomiche, lo scritto non contiene neppure errori particolarmente rilevanti; anzi, a proposito dell'efficacia del sistema nervoso sul processo febbrile, sembra anticipare gli studi iniziatisi soltanto nella seconda metà del secolo XVII. Vi è aggiunta inoltre una Febrium curandarum exercitatio, cioè un trattato di chiarimento sui metodi proposti, di derivazione galenica.
Le cinque opere, tre stampate vivente l'autore e due edite postume (il C. lasciò però scritto nel testamento che fossero stampate subito dopo la sua morte), non hanno oggi che un limitato valore per la scienza medica, poiché il C. si attiene strettamente alla medicina antica, in particolare di Ippocrate e di Galeno, anche se cita raramente questi autori. Ma al suo tempo esse ebbero una notevole diffusione, come testimoniano le registrazioni nei cataloghi di opere mediche e le varie edizioni che di esse furono fatte.
Oltre alle opere a stampa restano di lui, nell'archivio dell'Opera Pia Canevari, molte lettere e qualche codicetto, e nella Civica Biblioteca Berio di Genova (segnatura D. 2.2.34) una Miscellanea oratoria, che contiene diversi suoi scritti retorici, orazioni, rese di grazie. Le famose "legature Canevari" costituiscono un caso singolare nella bibliofilia moderna: non poggia infatti su alcuna base sicura la credenza che esse siano da attribuire al medico genovese. Si tratta di una tradizione sorta dopo la metà dell'Ottocento, prevalentemente ad opera di Guglielmo Libri, noto bibliofilo fiorentino, che attribuì al C. alcune legature del sec. XVI, caratterizzate da grande eleganza e purezza di disegno, e riconoscibili dal medaglione a cammeo raffigurante Apollo e Pegaso. In realtà tali preziose legature in marocchino decorato in oro furono fatte verso la metà del Cinquecento per Pierluigi Farnese duca di Parma, mentre il C. raccolse la sua biblioteca a Roma tra il 1584 e il 1625.
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