DEMADE (Δημάδης, Demādes)
Oratore e politico ateniese del demo di Peania, nato circa il 380 a C. Fu costretto in gioventù a gravosi servizî, e restò senza alcuna educazione liberale. Ma dotato d'ingegno vivacissimo e di una forte inclinazione all'oratoria, al momento opportuno seppe entrare con risolutezza nella vita politica schierandosi fra gli oppositori di Demostene. Egli ci è presentato da Suida come antagonista di Demostene già nel 349, per la questione di Olinto; ma veramente appare come figura di primaria importanza in Atene solo dopo la battaglia di Cheronea (338). In questa battaglia, alla quale partecipava anche Demostene, egli fu fatto prigioniero, e seppe allora guadagnarsi la simpatia e la fiducia del re Filippo, che gli lasciò la libertà. Fu allora mediatore di pace con la Macedonia, acquistato ormai per sempre alla causa di Filippo per mezzo di abbondanti donativi che egli accettava apertamente. Anche alla morte di Filippo, nel 336, fu mediatore di pace con Alessandro, che invadeva l'Attica; e in queste mediazioni riusciva sempre al suo scopo, forse essendo convinto che il meglio, per sé e per i suoi, era appunto la pace, la tranquillità, la stasi. L'anno dopo, quando Tebe fu distrutta, fu inviato di nuovo ad Alessandro, con Focione e Demetrio di Falero (v.); e ottenuta la pace, ottenne pure che gli si decretasse una statua di bronzo nell'agorà e il mantenimento a spese pubbliche nel pritaneo. L'opposizione di Licurgo in questa occasione, come quella d'Iperide in altra, non valse a nulla; e ormai non c'è ad Atene movimento politico o provvedimento sociale in cui D. non abbia parte. Egli diceva che la Macedonia senza Alessandro sarebbe stata come il Ciclope senz'occhio, e nel 324 chiese gli onori divini per Alessandro. Ma nello stesso anno fu implicato insieme con Demostene e parecchi altri (v. dinarco) nella causa arpalica, e condannato, sotto l'accusa di avere avuto da Arpalo 6000 stateri d'oro. Tuttavia restò in Atene probabilmente perché pagò; ma dopo la morte di Alessandro le accuse contro di lui continuarono, come trasgressore della legge (παρανόμων), e nel 323 fu colpito dall'atimia. Subito dopo la battaglia di Crannone (322), ristabilito nei pieni diritti, poté trattare per la pam con Antipatro. Fra i suoi famosi decreti, alcuni dei quali ci sono noti direttamente dalle epigrafi, è memorabile, nel 322, il decreto di morte contro Demostene e i seguaci di lui. Alla corte di Macedonia cadde in disgrazia improvvisamente nel 319, quando, ormai compromesso da un proprio scritto che lo dimostrava legato a Perdicca, non ebbe timore di recarsi da Antipatro, e allora, insieme col figlio Demea, fu fatto uccidere da Cassandro, figlio di Antipatro.
L'eloquenza di D., insieme aspra e cordiale, doveva riuscire non poco efficace così nelle trattazioni diplomatiche, come di fronte al popolo ateniese, in quei momenti di confusione e di orgasmo. Teofrasto disse Demostene degno di Atene, ma D. superiore alla città; Plutarco (Demosth., 10) dice che la sua eloquenza naturale e vigorosa travolgeva come un torrente le elaborate costruzioni di Demostene. Del resto D., come si è detto, improvvisava sempre e non scrisse mai nulla. Tuttavia gli fu attribuita, col tempo, una raccolta di discorsi (14 secondo un codice fiorentino; cfr. R. Schoell, in Hermes, III, p. 277). La maggior parte di questi scritti ci appaiono, dal titolo, come opposti a singole orazioni di Demostene. Ce n'è uno, p. es., intitolato Contro l'aiuto a Olinto, opposto evidentemente alle Olintiache di Demostene; e quindi può darsi che la notizia surriferita di Suida, come tante altre della tradizione, derivi dalla conoscenza di questo corpo (apocrifo) di discorsi, e perciò si possa revocare in dubbio: gíacché sembra che questo corpo di scritture si formasse piuttosto tardi, in epoca posteriore al sec. I d. C. (si veda Cicerone, Brut., IX, 36 e Quintiliano, II, 17, 3; XII, 10, 49), e noi non sappiamo su quali fondamenti storici fosse composto. Di queste orazioni attribuitegli abbiamo soltanto la prima parte del Περὶ δωδεκαετίας (Intorno ai dodici anni), conosciuta fin dal Rinascimento, e un buon numero di frasi staccate di questa stessa orazione, rinvenute più tardi in un codice Palatino (H. Haupt, in Hermes, XIII, p. 489). Di D. invece la tradizione ci ha conservato un certo numero di motti arguti, per molti dei quali non si ha ragione di dubitare dell'autenticità. Malgrado la sua grande attività oratoria e la sua importanza storica, egli restò escluso dal canone alessandrino dei dieci oratori, costituito soprattutto con un criterio letterario.
Quello che resta dell'orazione apocrifa Περὶ δωδεκαετίας si trova edito dal Blass nella seconda edizione di Dinarco (Lipsia 1888). I suoi detti spiritosi sono raccolti da L'Hardy, De Demade, Berlino 1834, e da Sauppe, Orat. Att., II, 312; dodici nuovi motti, da un codice viennese, son pubblicati dal Diels, in Rhein. Museum, XXIX, p. 107. Per un frammento papiraceo su Demade pubblicato in Berliner Klassikertexte, VII, 13045, si veda von Arnim, in Wiener Studien, XLIII, pp. 86 e 213.
Bibl.: J. Beloch, Griech. Gesch., 2ª ed., Berlino 1922-25, III, i, pp. 571-618; IV, i, pp. 50-100; F. Blass, Attische Beredsamkeit, 2ª ed., Lipsia 1898, III, ii, p. 266; A. Schaefer, Demosthenes, 2ª ed., Lipsia 1885, III, p. 22.