DELLE BRACHE
Famiglia di mercanti pisani affermatasi in modo particolare nel secolo XIV.
Ildebrando "de Brachis" fu tra i consiglieri del Comune di Pisa chiamati ad approvare gli accordi di pace con Firenze il 26 sett. 1256. Si tratta verosimilmente di quell'"Ildebrandinus de Branchiis quondain Rustici" che il 24 luglio 1260 permutava beni in Valdiserchio - da dove la famiglia pare fosse originaria - con l'arcivescovo di Pisa Federico Visconti. Attestato ancora il 29 ag. 1269, Ildebrandino era già morto nel 1288. Prima di questa data risulta già in possesso della famiglia una torre posta in Pisa, nel Borgo, presso l'attuale Ponte di Mezzo.
All'aprirsi del secolo XIV i D. sono largamente presenti nelle cariche pubbliche della città, con un Bindo, soprastante alla "canova" (cioe all'approvvigionamento del grano) nel 1302 ed anziano nel 1305, e con Bonoccio di ser Ciolo, cinque volte anziano fra 1300 e 1322.
L'esponente di maggior rilievo della famiglia nella prima metà del sec. XIV fu BIAGio di ser Ciolo, nato presumibilmente verso il 1280, sposatosi nel 1306 con Teccia di Masino Bottari dei nobili Casalei, con dote di 300 libbre; fu dieci volte anziano e ripetutamente dei Savi fra il 1313 ed il 1348. Le sue attività mercantili ed imprenditoriali possono essere seguite da vicino, a partire dal 1326 e fino al 1348, anno della morte, grazie ad alcuni libri di conto che ci sono pervenuti per il deposito delle carte di famiglia presso l'Archivio dell'Opera del duomo di Pisa, erede dell'ultimo discendente di Biagio, Andrea di Biagio di Guido D., operaio del duomo, venuto a morte nel 1435. In particolare il Libro delle ragioni del D. (Archivio di Stato di Pisa, Opera del duomo, n. 1289) è "una delle più importanti raccolte di bilanci che si conoscano nella storia del commercio medievale" (Antoni, 1967, p. 10) e permette di ricostruire oltre vent'anni della storia di un'azienda familiare di medie dimensioni e di carattere prevalentemente locale.
L'attività principale, documentata a partire dal 1326, è quella del commercio dei pannilana, cui si aggiunge però dal 1336 quella di importazione e di lavorazione della lana: Biagio "tipico mercante-imprenditore ... facilita la provvista della lana migliore (importandola dalla Spagna, Tunisia, Algeria e Provenza) e degli ingredienti necessari per lavorarla e cerca di elevare la qualità dei suoi prodotti finiti ...; mantiene la proprietà della materia passata alla lavorazione, si assume tutti i rischi di vendere i prodotti ... ma non maneggia gli strumenti della produzione, coordina solo il processo produttivo, lo decentra, lo dissemina in aziende parziali, cosicché il pannilano viene a essere il risultato del lavoro combinato di più parti ..." (ibid., p. 100).
Ampia documentazione abbiamo per una delle aziende promosse, come socio "capitalista", da Biagio: quella "bottega dello stame" affidata a Colo Bugarro, cui toccava un terzo degli utili contro i due terzi di Biagio che, fra il settembre del 1345 ed il settembre del 1346, consentì un utile di oltre il 32% (Antoni, 1966, p. 68).
I "bilanci" di Biagio (in numero di undici fra il 1326 ed il 1347) riguardano tuttavia non soltanto il commercio e la produzione della lana e dei pannilani, ma anche altre attività mobiliari: prestiti, concessi o ricevuti, nel confronti di parenti e di privati, e investimenti nei titoli del debito pubblico (come le prestanze garantite sulla "vena" del ferro dell'isola d'Elba, al cui consorzio di gestione Biagio fu eletto nel 1342). Nel complesso il "netto mobile" del mercante pisano passò dai quasi 1.560 fiorini d'oro del 1326 ai 4.137 del 1347.
Un patrimonio senz'altro di rilievo, che appare di ancor maggiore consistenza se si prendono in considerazione le proprietà immobiliari, urbane e del contado, sulle quali ha soffermato la sua attenzione l'Antoni, facendo ricorso anche a fonti diverse dal Libro delle ragioni. Fra il 1318 ed il 1326 Biagio aveva investito in beni immobili quasi 690 fiorini, cosicché il suo patrimonio nel 1326 consisteva per il 31% di beni immobili e per il 69% di beni mobili. Fra il 1326 ed il 1347 gli investimenti immobiliari furono di quasi 2.465 fiorini d'oro e possiamo pertanto calcolare che, verso la fine della vita di Biagio, il patrimonio immobiliare rappresentasse circa il 44%, della sua ricchezza, contro il 56% del patrimonio mobiliare: nel giro di trent'anni egli aveva quadruplicato il suo patrimonio.
Di pari passo con le fortune economiche andarono quelle politiche di Biagio, strettamente legato al ceto dirigente che resse il Comune di Pisa al tempo della signoria dei Della Gherardesca di Donoratico.
La peste della metà del secolo lo colse gia anziano ed in grado di trasferire al figlio naturale Guido (legittimato nel 1333) una posizione di prestigio, evidenziata anche da lasciti testamentari "ad pias causas" per quasi 600 libbre e dalla dotazione di una cappella intitolata a S. Biagio nella chiesa della parrocchia di residenza della famiglia, S. Cecilia.
Guido di Biagio proseguì senza alcuna soluzione di continuità le attività economiche del padre e nel già citato Libro delle ragioni troviamo bilanci analoghi a quelli degli anni precedenti per il 1348, il 1350, il 1352, il 1353 ed il 1356. "Guido seguì le orme del padre: e per la sua capacità e per l'avviamento derivante dal patrimonio paterno riuscì ad incrementare il suo netto patrimoniale. Infatti nel periodo che va dal 1348 al 1356 ... il suo patrimonio mercantile passa da fiorini d'oro 3.619 ... a fiorini d'oro 4.387" (Id., 1967, p. 41). In particolare Guido, oltre a proseguire negli investimenti immobiliari, apportò suoi capitali a diverse compagnie costituite con altri mercanti ed imprenditori pisani. Egli aveva sposato Fanuccia di Andrea Bocca, appartenente a un'importante famiglia mercantile della città, ed aveva conseguito l'anzianato nel 1350, ma il suo schieramento con la fazione dei bergolini gli costò l'esilio nel 1356. Trasferitosi a Perugia - dove venne a morte nel 1365 - vi continuò le attività mercantili e finanziarie, nonostante disavventure familiari (la fuga di una figlia sedotta da un uomo che risultò già sposato) e fiscali (egli lamentava, poco prima della morte, di aver subito imposizioni dal Comune di Pisa per ben 1.500 fiorini nel giro di soli nove anni).
Eredi di Guido (un figlio, Bonuccio, si fece prete; una figlia, Teccia, andò sposa al nobile Guinizzello di Jacopo Buzzaccarini dei Sismondi e lasciò erede dei suoi beni il convento domenicano di S. Caterina, ove i Delle Brache avevano il sepolcro di famiglia) furono Andrea, Ranieri (anziano nel 1376) e Biagio. Quest'ultimo, sposato a Fanuccia di Giovanni Buzzaccarini dei Sismondi, fu anziano nel 1371 e continuò le attività imprenditoriali del padre e del nonno. Morto prematuramente intorno al 1375, lasciò il figlio Andrea sotto la tutela della sorella Teccia e del cognato.Nella "prestanza" del 1402 Andrea di Biagio, che continuava a risiedere nella parrocchia tradizionale della famiglia, S. Cecilia, ebbe un'imposizione di quasi 6 fiorini che lo collocava fra i benestanti, ma non certo fra i più ricchi dei cittadini pisani. La situazione nella sostanza non mutava in occasione della "taglia" del 1407 (poco più di 3 fiorini), dell'estimo del 1409 (2 fiorini e mezzo e 133º posto nella graduatoria del 2.254 contribuenti pisani) e della "prestanza" del 1412 (quasi 3 fiorini). Al tempo del catasto del 1428-29 l'imposizione di Andrea non raggiungeva il fiorino e le sue sostanze, tutte costituite da beni immobili in città ed in varie zone del contado, superavano di poco i 700 fiorini, quanto bastava per vivere dignitosamente (con una "fante" cui si corrispondevano 5 fiorini l'anno) senza esercitare alcuna professione. Privo di figli, con a carico soltanto la moglie e la suocera, dotato di beni sufficienti ed erede di una tradizione politico-familiare di un certo rilievo, Andrea aveva tutti i requisiti necessari al conseguimento di quella carica di prestigio, operaio dell'Opera del duomo di Pisa, cui venne chiamato nel 1431 e che ricopriva al momento della morte, avvenuta nel 1435. Con lui si estinse il principale ramo della famiglia ed all'Opera del duomo pervennero i suoi beni, insieme con le carte ed i documenti accumulati nel corso di quasi un secolo e mezzo.
Accanto a quello principale si affermò dall'inzio del secolo XIV un ramo secondario della famiglia che prese origine dal fratello di Biagio, Puccio di ser Ciolo. Puccio fu sette volte anziano fra il 1305 e il 1326 ed ebbe un figlio, Colo, il quale ricoprì la stessa carica nel 1334, nel 1336 e nel 1346, e morì nel 1347 (lasciò per testamento 700 libbre per l'erezione di un altare in duomo). Se Puccio aveva avuto per moglie Fia di Dato Sampante, appartenente ad una famiglia popolare, Colo poté dare sua figlia, anch'ella di nome Fia, ad un nobile, Coscio di Betto da Ripafratta, e stringere per suo figlio Iacopo un'altra alleanza "nobiliare" facendogli sposare nel 1346 Giovanna di Baldo di Gherardo da San Casciano. Dal matrimonio nacque un secondo Iacopo, che fu anziano nel 1385, 1388, 1390 e 1392; era già morto nel 1402, quando la "prestanza" era intestata alla sua vedova, India, che abitava nella "cappella" di S. Cecilia ed aveva un'imposta notevole, oltre 10 fiorini. Nel 1407 l'imposta era scesa a meno di 4 fiorini e nel 1409 India e suo figlio Andrea, subivano un'imposizione di meno di 3 fiorini che li collocava al 117º posto nella scala dei contribuenti pisani. Nel 1412 l'imposizione di madre e figlio era risalita a fiorini 3 e 3/4. Andrea sposò la figlia di un mercante, Nanna dì Checco Botticella, da cui ebbe una figlia, India, nel 1418, ed un figlio, Andrea, nel 1420. Al momento del catasto del 1428-29, e forse già al momento della nascita del figlio (se il nome del padre veniva dato soltanto ai postumi questo ramo dei D. sopravvisse davvero fortunosamente), Andrea era già morto, ed il fuoco fiscale era intestato alla vedova Nanna che viveva con i figli ed una vecchia schiava settantenne. Le sostanze della famiglia non erano modestissime: sfioravano i 400 fiorini e consistevano in immobili in città ed in contado ed in crediti.
Andrea di Andrea avrebbe sposato Iacopa di Ranieri di Niccolò Scarsi, appartenente ad una famiglia di medi proprietari, ma il benessere della famiglia andava scemando se nel 1447 egli era costretto ad una vendita per pagare un debito e se nel 1448 il suo estimo era assai basso: 1 soldo e 7 denari a fiorino. Da Andrea conosciamo un Francesco che, come il padre nel 1449, fu dei Priori della città nel 1474 e nel 1478. L'estimo di Francesco era nel 1482 di soli 4 soldi. Non risulta discendenza in Pisa dai suoi figli Vincenzo ed Andrea, nati rispettivamente nel 1474 e nel 1477.
Agitate vicende politiche conobbe un terzo ramo dei D., che prese origine da ser Buono, forse coincidente con Bonaccio di ser Ciolo, quattro volte anziano fra il 1326 ed il 1336 e console dell'arte della lana nel 1338. Suo figlio Giovanni, "mercator", fu cinque volte anziano fra il 1332 ed il 1353, e ricoprì numerosi incarichi a Lucca al tempo della dominazione pisana. Legatissimo ai Gambacorta ed alla fazione dei bergolini, pagò con la vita la militanza politica nel 1355, quando venne condannato a morte dall'imperatore Cario IV insieme con alcuni dei Gambacorta e dei loro seguaci. Così come nel caso del ramo disceso da Biagio, anche gli appartenenti alla discendenza di ser Buono riottennero cariche pubbliche soltanto con il ritorno al potere dei Gambacorta: così Bindo di Giovanni (sposo della nobile Tedda di Guelfo Upezzinghi), che già era stato anziano prima del 1355, riebbe la carica nel 1375 e suo fratello Bartolomeo fu anziano per tre volte fra il 1372 e il 1382.
Gli successero, anch'essi ripetutamente anziani fra il 1396 ed il 1403, i figli Giovanni (marito di Francesca di Piero di Colo Gambacorta), Bindo (marito della nobile Antonina di Bartolomeo da Scorno e morto in Pisa nel 1435) e Mariano, che fino all'ultimo restarono vicini ai Gambacorta, di cui seguirono il destino politico all'atto della sottomissione di Pisa ai Fiorentini (1406). Bindo e Giovanni, in particolare, furono protagonisti delle trattative segrete con i Fiorentini, sia nel 1404 sia nel 1406, e furono i portavoce di Giovanni Gambacorta presso Niccolò da Uzzano e Gino Capponi. Grazie a tale attività, questo ramo dei D. ottenne che la capitolazione con Firenze includesse la promessa della cittadinanza fiorentina, del diritto di portare armi e dell'esenzione dalle imposte personali. In effetti, se nella "prestanza" del 1402 Giovanni di Bartolomeo ed i suoi fratelli erano, con un'imposta di 40 fiorini, fra i venti più ricchi contribuenti pisani, nei successivi elenchi di imposte, ai tempi dei Fiorentini, il loro nome scompare dai ruoli.
Essi continuarono peraltro a risiedere a Pisa, e a Pisa, nell'avita cappella di S. Cecilia, Francesco di Bindo abitava nel 1462, quando gli nacque il figlio Bindo, ed ancora l'anno successivo, quando gli nacque il figlio Giovanni, che sappiamo trasferito in Sicilia verso la fine del secolo. Anche questo ramo dei D. non pare aver avuto continuità in Pisa nel secolo XVI.
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