DELLA TORRE, Filippo Giacomo
Ultimo dei sedici figli di Gianfilippo (1598-1650) di Raimondo e di quell'Eleonora di Federico Gonzaga che, col brillante tocco dei suoi gusti italiani, alleggerì i toni severi della rocca duinate, dove visse sino, almeno, al 1667, nacque a Villesse (Gorizia) nel 1639.
Venne battezzato, il 21 dicembre, nella parrocchia di S. Rocco col nome di Filippo Giacomo. Però, talvolta, nelle fonti figura come Giovan Filippo o Giovanni Filippo; comunque viene per lo più indicato semplicemente con Filippo. Gentiluomo dell'arciduca Leopoldo, dignitario di Ferdinando II, il padre del D. Gianfilippo militò al soldo dell'Impero e della Spagna, distinguendosi a Napoli nel sedare un ammutinamento di soldati tedeschi e, nel 1635, a Piuca nella feroce repressione d'una sollevazione rustica. Prevaricatore in fatto d'eredità e perciò in urto coi fratelli e la matrigna Chiara Hofer, Gianfilippo, una volta insediatosi nella signoria di Duino, vi spadroneggiò con proterva alterigia non trattenendosi dall'usare la propria "bacheta cavalericia" per bastonare di persona incaute contadine sorprese a far legna in boschi, a suo dire, di sua spettanza.
Le sue oltraggiose provocazioni antivenete - quali, ad esempio, il "recinto del muro" di Sagrado e, soprattutto, i tentativi d'uccidere il capitano Francesco Possedaria (falliti i quali, schiumante di rabbia si presentò, con 150 bravi, di fronte alla "rastrellata saracinesca" di Monfalcone ordinando una scarica di fucileria all'indirizzo dell'abitazione dell'avversario), lo resero inviso alla Serenissima. Donde un bando del Consiglio dei dieci contro di lui, del quale non tenne, evidentemente, gran conto se - nella relazione del 15 maggio 1637 - il provveditore generale a Palma Francesco Pisani richiamò, preoccupatissimo, l'attenzione, appunto, sul "conte Giovanni Filippo della Torre signor di Duino, negl'ultimi giorni di Ferdinando secondo dichiarito marescial" della contea di Gorizia, "di spiriti molto fantastichi, mal intentionato a questa ... repubblica", sempre pronto ad "usurpationi" a danno di Venezia. Di qui il "tentativo", denunciato più volte anche da altri provveditori a Palma, d'occupare il "monte di Fogliano", donde controllare l'Isonzo e minacciare Monfalcone. Né esitò a ricorrere a tale fine a proclami e minacce; e, benché il "posto" sia "d'indubitata veneta giurisdittione", egli vi "essercita" atti di possesso. E pure il luogotenente in Friuli Girolamo Foscarini - nella relazione del 26 maggio 1639 - additava con apprensione il padre del D. come colui "che per proprio interesse procura dilatar sempre le fimbire de' suoi confini, che si pretende avanzati fin a termini che sono molto vicini alla stessa rocca di Monfalcone".
Violento e prepotente per indole e mentalità Gianfilippo, epperò anche contrassegnato da manifestazioni di zelo religioso, da sussulti di devota munificenza: ampliò il convento dei serviti a Duino e innalzò la torre campanaria della vicina chiesa di S. Giovanni, né è casuale che, tra i suoi numerosi legati pii, ci sia quello di 1.500 fiorini per l'erezione dell'altare di S. Luigi nella chiesa dei gesuiti a Trieste, una preferenza per la Compagnia di Gesù, già percepibile nella matrigna e nel fratello (zio, quindi, del D.) Giammattia, che da Gianfilippo si trasmise al figlio (nonché fratello del D.) Federico: questi, che muore a Sagrado il 20 dic. 1679, insegnerà, infatti, filosofia nel collegio gesuitico di Gorizia. Indicativo, altresì che un altro fratello del D. (nonché figlio di Gianfilippo), Raimondo Bonifacio (1638-1714), uomo d'armi progredendo via via nella carriera da capitano d'una compagnia di "corrazze" nel reggimento di Montecuccoli a sergente di battaglia sino a diventare tenente maresciallo di campo delle milizie dall'elettore di Baviera in soccorso all'imperatore - faccia entrare nella Compagnia di Gesù ben due - e precisamente Niccolò, nato nel 1686, Carlo nato nel 1698 - dei quattro figli maschi avuti dalla moglie Paolina Caporiacco.
Quanto al D., la sua figura stenta, a tutta prima, ad evidenziarsi ingombrata com'è da quella, soverchiante, del fratello Francesco Ulderico, peraltro a lui legato da particolare affetto. Mentre, anche se rigonfio di titoli - a lui come a conte dell'Impero, capitano ereditario di Duino Cormons Vipulzano e annessi nonché signore di Piuma Fratta e Sagrado, il dottore in filosofia e in utroque Giovanni Pietro Morelli di Schönfeld dedicò, in data 2 febbr. 1675, la pars praecipua et ultima (Utini 1675) delle sue Constitutiones della contea goriziana, incentrata sul diritto civile, specie sui testamenti e sulle tutele - Torrismondo Paolo, un altro fratello, non si distingue sì da mettere in ombra il Della Torre.
Al di là dei versi beneauguranti indirizzati alle sue nozze con la contessa Sulpicia Florio nel 1669 - anno in cui escono, appunto, a Udine, l'Imenio torriano ... di Girolamo Picchinini, l'Amor fastoso ... epitalamio ... di Andrea Brunelleschi e il miscellaneo Serto pomposo ed immortale ... di fiori odoriferi colti dalle muse... -ben poco risulta, infatti, di Torrismondo Paolo; da un cenno, comunque, di Marco d'Aviano, in una lettera del 17 marzo 1692 a Francesco Ulderico, nella quale, a proposito della sua morte di qualche tempo prima, il cappuccino si dice consolato dal fatto che, per fortuna, è spirato avendo avuto modo "d'agiustar l'interessi suoi dell'anima e del corpo", s'arguisce che la sua condotta non dovette essere particolarmente esemplare. E, in effetti, diede manforte alle prepotenze dei Petazzi protervamente spadroneggianti a Trieste coi loro bravi.
Non favorito, in quanto ultimogenito, in sede d'eredità e, in compenso, sempre protetto dall'influente fratello Francesco Ulderico, il D. - che si sposò, il 9 genn. 1661, nel duomo di Gorizia con Teresa figlia del conte Antonio Rabatta, dalla quale ebbe un solo figlio - militò sotto le insegne dell'Impero. Luogotenente generale dell'armata imperiale impegnata contro i Francesi, venne fatto prigioniero; e da Nevers si rivolse più volte, nel novembre 1674-aprile 1675, al nunzio pontificio in Francia Fabrizio Spada, le cui pressioni, tuttavia, per ottenere la sua liberazione non ebbero esito. Finito il forzato non breve soggiorno francese, il D. fu ancora - sia pure con interruzioni - al servizio dell'Impero. Si rallegrava, il 3 giugno 1683, Marco d'Aviano dell'"impiego dato" al D., certo che "sarà opportuna apertura per farsi conoscer quel degnissimo soggietto quale è". E il 29 luglio l'ambasciatore veneto Domenico Contarini informava da Salisburgo che il D. era stato "spedito sollecitamente" in Polonia per accelerare l'aiuto di "quell'esercito e del re stesso" in virtù degli impegni assunti nel "trattato ultimamente concluso". Ed era lo stesso Contarini ad avvisare, il 5 agosto, che il D. era rientrato dalla sua rapida missione riferendo che, alla fine del mese, il re "s'attroverà con tutta l'armata all'ordine".
Luogotenente, altresì, di Gradisca, donde, nel febbraio del 1685, chiese alla Repubblica l'estradizione d'un ufficiale fuggito in terra veneta con la paga d'un reggimento, nel 1686 il D. partecipò alla guerra austro-ottomana con la qualifica di tenente-maresciallo e assumendo, dopo la morte del generale Schultz, il comando dell'armata cesarea di stanza in Croazia.
Con opportuna distribuzione delle truppe e loro tempegtiva dislocazione arginò le pressioni del nemico, sorvegliò il corso della Drava e - in concomitanza coll'assedio e la presa di Buda - bloccò l'afflusso a quella volta di contingenti turchi, catturò "uno dei primi comandanti della Bosnia" accorrente in aiuto del primo visir e promosse, infine, azioni diversive e anche penetrazioni offensive, tra le quali particolarmente efficace risultò quella affidata al colonnello Giovanni Macario. Nel 1687 il D. procedette congiuntamente col bano di Croazia Nicola Emdödy, dispose, tramite un ponte di barche, frequenti incursioni dei suoi al di là della Drava, e sventò, con "mossa" tempestiva il tentativo nemico di ricostruire un ponte fisso distrutto. Tra i conquistatori di Esrék (o Osijeko Esseg), subito magnificò, con lettere del 3 ottobre, al fratello Francesco Ulderico la conquista sia perché i Turchi avevano abbandonato, nella fretta della ritirata, "52 pezzi di cannone" e viveri e munizioni in gran "quantità", sia perché la "presa" della piazza dischiudeva la possibilità d'una vigorosa offensiva. Essa "porta seco", infatti, "l'intiero acquisto della Schiavonia ... e ci dà adito d'entrar con facilità per un altr'anno in Bossina". Nel 1688 non ebbe, invece, successi da vantare e si trovò, anzi, in grosse difficoltà. Così almeno appare da un paio di lettere di Marco d'Aviano del 17 luglio. In quella a Francesco Ulderico l'informava che il D. era "in buona salute, ma molto afflitto per alcuni incontri si trova havere. Io non mancherò - assicurava il cappuccino che considerava il D. suo "cordialissimo signore e padrone" - di assisterli et appresso Cesare et" l'elettore di Baviera Massimiliano II Emanuele "in tutto quello che mai potrò e saprò". Nell'altra, a un nipote del D., ribadiva che questi "sta benissimo, ma molto travagliato per alcuni veri desastri; et io non mancho di prestarli tutti li aiuti per consolarlo".
Qualcosa, comunque, aveva inceppato, alla corte di Vienna, le pretese e le ambizioni del D., se questi, evidentemente amareggiato, sembra appetire una prestigiosa carica militare da parte della Serenissima incaricando Marco d'Aviano di far presente, sia pure con tutte le cautele, questo suo desiderio. E, in effetti, il cappuccino prometteva, il 23 genn. 1692, a Francesco Ulderico che, una volta a Venezia, avrebbe approfittato dei suoi rapporti "con soggietti grandi" del patriziato lagunare per avanzar "efficacissimi motivi a ciò conducessero per generale di sbarco" il Della Torre. Un'aspirazione che rientrò ben presto o perché ritenuta inopportuna da Francesco Ulderico o perché con scarsa udienza presso la classe di governo oppure perché, divenuto nel frattempo signore di Duino il D., questi era più che pago di tale sistemazione. E può anche darsi egli si facesse indietro per tutti questi motivi. D'altronde le sue condizioni fisiche - alla fine del 1693 egli era in "dolorissemo stato di salute" - erano tali da sconsigliare qualsiasi incombenza militare, mentre la morte del fratello Francesco Ulderico lo impegnava nel disbrigo di faccende da quello lasciate in sospeso e in questioni d'eredità. Intanto, m ali consiglieri, l'alterigia nobiliare e il connesso istinto di rivalsa e sopraffazione esasperano l'odio violentissimo del D. per il conte, gradiscano di nascita, Giovan Battista Novelli, con tutta probabilità identificabile con quel personaggio di tale nome che figura, nel 1690-92, inviato straordinario dell'elettore palatino alla corte madrilena e, quindi, nel 1692-93 residente presso la stessa dell'elettore di Magonza (Repertorium der dipl. Vertreter..., I, pp. 313, 404).
Scoppiata anni prima a Vienna l'inimicizia tra i due, s'era via via incattivita - anche se l'imperatore aveva severamente proibito il duello tra il figlio del D. Luigi Antonio e il Novelli, da quello sfidato per lavare l'onta delle ingiurie rivolte al padre - in una perversa spirale di offese e provocazioni reciproche. E il D., incapace di tollerare il logorio d'un puntiglioso fronteggiamento verbale, dapprima fece aggredire il rivale da elementi prezzolati che lo bastonarono duramente, quindi - paventandone la vendetta sulla quale volle giocare d'anticipo - non esitò ad organizzare un agguato omicida. La mattina del 12 febbr. 1697 il Novelli, diretto a Vienna, aveva appena oltrepassato Venzone quando sbucò urlante, appunto, "muoia Novelli", un manipolo di bravi assoldati dal D. che sparò a tutto spiano su di lui. Colpito da ben undici moschettate egli giacque stecchito sulla via.
La proditorità del truculento assassinio suscitò unanime disapprovazione negli ambienti di corte; e l'imperatore sdegnatissimo volle una punizione rapida ed esemplare. Accorse a placarne il furore Marco d'Aviano che adoperò tutta la sua influenza per spostare "il riflesso" di Leopoldo dalla sostanza del fatto - per quanto abile il cappuccino non poté certo negarne l'atroce gravità - all'opportunità di "compatire" in considerazione del profilo complessivo del D., valorizzato al massimo con foga perorante dal frate.
Il D., sostenne questi, era d'antichissima e nobilissima famiglia, benemerita, per i suoi servigi, dell'Impero, uomo di tale "bontà" e "virtù" da avere più "li tratti di signor religioso che di cavalier mondano". Il D. per "tutto il corso della sua vita" non aveva mai "offeso alcuno", aveva beneficato "molti", tant'è che mai s'era udita "persona" dirne male, anzi "universalmente ogn'uno ne parlava bene". Diluito nell'esaltazione della figura del D., l'omicidio si trasforma, nell'insinuante argomentare di d'Aviano, in "accidente" in cui il D. è incorso perché "gravemente" offeso "nella reputatione e nella vita" da "persona vilissima" e sin troppo "beneficata dall'illustrissima sua Casa". Un'opinione condivisa anche dall'arcivescovo di Praga Giovanni Giuseppe von Breuner, il quale, amico del D., gli scrisse, il 27 aprile, mostrando comprensione pel suo operato, dettato, appunto, dalle provocazioni intollerabili del Novelli. Il delitto così svaporava, minimizzato com'era ad eccesso di legittima difesa. Di ben diverso avviso il "proclama" del "consiglio" di Graz (a questo spettavano i "pareri" da trasmettere a Vienna per la successiva "sentenza" cesarea) citante il D., che ad ogni buon conto, si guardò bene dal comparire, come colpevole del Crimen lesae maiestatis. Un'accusa contro la quale insorse d'Aviano protestando "esser una vera perfidia", ché, così si vuole "esterminar" l'intera famiglia del Della Torre. Lo stesso, il 9 dicembre, scriveva da Verona a Leopoldo chiedendo, questa volta, non piú un generico perdono, ma, vista l'inevitabilità d'una condanna, una mitigazione dell'imputazione e un alleggerimento della pena: "resto avisato che l'affare ... stii nelli estremi di tutto il rigore con il fisco" e che, "di conseguenza", il D. viene "colpito nella riputatione, nell'honore e nella robba. Il caso - concedeva - non si può negare ch'è stato gravissimo; tuttavia, per la parte del mondo, è compatibile. Se il conte si è ravveduto dell'eccesso, si è pentito et ha fatto penitenza, Iddio li haverà perdonato, onde V. C. M., che è tanto pia e elementissima, io la prego non già di lasciarlo impunito, ma, punendolo, farlo col solito della sua clemenza, ma non tanto rogorosamente. Et se Dio castigasse il mondo secondo li demeriti, come staremmo?".
Pressioni cui si sommarono quelle d'altri autorevoli personaggi, queste di d'Aviano, destinate ad esito tangibile: il D. venne sì, il 29 ag. 1699, condannato, ma in base alla legge Cornelia de sicariis, sicché colla caduta dell'imputazione di lesa maestà, schivò l'infamia alla famiglia ed evitò la confisca dei beni. Non gli restava ora che implorare l'ulteriore clemenza cesarea. Ma, purtroppo per lui, d'Aviano morto il 15 agosto, non suggestionava più l'animo di Leopoldo. Nonostante le reiterate insistenze a suo favore della principessa d'Eggenberg e del figlio di questa nonché dei cardinali Francesco de' Medici e Fulvio Astalli (per ordine dei quali Francesco Montauti, l'incaricato d'affari toscano a Vienna, premeva soprattutto sull'elettore di Baviera), l'imperatore restò irremovibile. Privo dell'augusto perdono, il D. trascorse in esilio i suoi ultimi anni, dapprima (come minimo nel biennio 1697-98) a Ravenna e Fano, quindi a Venezia.
Da qui ebbe, quanto meno, modo d'attendere ai propri interessi, se ottenne, nel 1703, in compenso della privativa di sali sottrattagli dalla Camera aulica, 40 staia di sale annue pei bisogni della casa con concessione valida anche pei successori. Meno tragica, dunque, la sua situazione di quanto appaia da un memoriale del figlio ove, con spreco di tinte cupe, lo si dipingeva costretto a stenta vita "in provincie remote e straniere". Egli, invece, poté interrompere la permanenza lagunare con puntate a Duino, di cui la sua famiglia era pienamente signora. Ed era il D. che, nell'agosto del 1702, accoglieva a Duino la sorella Laura Teresa (1636-1702), fattasi benedettina col nome d'Eleonora, che, badessa del monastero di S. Cipriano, l'aveva abbandonato, con le sue monache, in seguito ai cannoneggiamenti francesi. Era sempre il D. che metteva a disposizione d'Eleonora e delle consorelle il palazzo di famiglia a Sagrado. Era ancora il D. che, morta la sorella a Sagrado il 9 novembre, sistemava le monache a Gradisca, donde, quando venne loro ordinato il rientro, non pago di fornire i carri pel trasporto delle "robbe", volle egli stesso accompagnarle, il 2 febbr. 1703, nel trasferimento. Così, preceduta da lui "in sedia", la comitiva claustrale attraversò la campagna coperta di neve, venne traghettata sull'Isonzo, ospitata, quindi, a Duino, per esservi, l'indomani, imbarcata alla volta di Trieste.
E nell'accogliente Venezia il D. morì il 18 maggio 1704, venendovi sepolto nella chiesa di S. Maria dei Servi, come attestava un'iscrizione su marmo nero che verrà tolta nella demolizione del 1812 e venduta ad un padovano.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Collegio. Esposizioni principi, regg. 83, cc. 59r-60r (del 1684) e 84, cc. 78v-81r (del 1687); Ibid., Senato. Dispacci Germania, filza 157, lett. nn. 284, 287; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D., C, 1074/152: lett. del D. del 21 genn. 1689; Mestre, Archivio provinciale dei cappuccini, P. M. d'Aviano. Lettere, IV,lett. del 22 giugno 1682, del fratello Francesco Ulderico al cappuccino; Ibid., copia delle lettere del d'Aviano a cura di M. Heyret (dispersi gli originali già a Duino), indirizzate al D. le lett. 207, 232 (in questa cenno al fratello Raimondo Bonifacio), 236, 238, 240, 243-46, scritte da lui al d'Aviano le 247-49, cenni su di lui nelle lett. del d'Aviano a Francesco Ulderico 14, 15, 17, 28, 95, 114, 115, 126, 185, 204, 206 (e cenno al fratello Torrismondo nella lett. 188, e a Raimondo Bonifacio nelle lett. 124, 126); Archivio segreto Vaticano, Nunziatura Venezia, 143, c. 530v; Corrispondance du nonce en France, F. Spada, a cura di S. de Dainville Barbiche, Rome 1982, p. 352; Seguito della raccolta de'giornali dell'armi cesaree in Ungheria, Venetia 1686-87, nn. 12, p. 17; 15, p. 11; 17, p. 8; 24, p. 10; 52, p. 6 (dovrebbe essere il fratello Raimondo Bonifacio il Della Torre di cui nel n. 192, ibid. 1699, p. 26); G. B. Chiarello, Hist. ... dell'armi imperiali…, Venetia 1688, p. 340; N. Beregan, Hist. delle guerre d'Europa, II,Venetia 1698, pp. 143, 270; Corrispondenza ... tra Leopoldo ... ed il... d'Aviano...,a cura di O. Klopp, Graz 1888, pp. 307 s.; G. M. Marunig, Le morti violente...,Udine 1970, n. 166 e p. 240 (un disegnetto e una quartina sull'assassinio di Novelli); C. Contarini, Ist. della guerra ... contro il Turco..., I,Venezia 1720, pp. 128, 550 s., 650; E. A. Cicogna, Delle inscr. veneziane..., I,Venezia 1824, pp. 41 s.; R. Pichler, Il castello di Duino...,Trento 1882, pp. 371, 380, 403-407 passim, 464 s., tav. III (alle pp. 373-380, 415 ss., notizie sul padre del D. e il fratello Raimondo Bonifacio); G. Occioni Bonaffons, Bibliogr. stor. friul., Udine 1884-99, nn. 683, 1967; P. V. B., Spigolature ..., in Pagine friulane, VI (1893), p.7; L. S. von Schivizhoffen, Adel in den Matriken der Grafschaft Görz und Gradisca, Görz 1904, pp. 53, 183, 192, 255, 279, 304; L. A. Maggiotti-F. Banfi, Le fortificazioni di Buda...,in Atti dell'Ist. di architettura militare..., IV-V,Roma s.d., p. 64; M. Heyret, P.M. von Aviano Briefwechsel..., III,München 1940, pp. 70 s., 78 s.; F. Nicolini, Vico storico, a cura di F. Tessitore, Napoli 1967, p. 312; A. Geat, Note ... su... Sagrado, in Sot la nape, XXXIII (1971), 3, p. 18 (dalla n. 8 di p. 27 parrebbe che il padre Gianfilippo fosse nato a Ferrara, figlio naturale di Raimondo); B. M. Favretta, Monastero di S. Cipriano…, in Archeogr. triest.,LXXXVIII (1979), pp. 277, 279 s.; U. Cova, I monasteri benedettini... a Trieste..., ibid., p. 289 n. 1; P. Litta, Le fam. celebri ital., s. v. Torriani di Valsassina, tav. IX; A. Valori, Condottieri e gen. del Seicento, Milano 1943, p. 401 (a p. 403 il fratello Raimondo Bonifacio).Sul padre Gianfilippo: ducali del 22 ott. 1633 e 1º marzo, 1634 in Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3471 (Udine, 12, 33); cenni sullo stesso in Rel. dei rettori veneti in Terraferma, a cura di A. Tagliaferri, Milano 1973-1979, I, p. 232; XIV, pp. 250, 252, 267, 273. Una sua cessione attestata in E. Di Manzano, Annali del Friuli..., VII,Udine 1879, p. 192. Pei fratelli Raimondo Bonifacio e Federico: F. Spessot, Istituzioni gesuitiche di Gorizia...,in Studi goriziani, III(1925), p. 110; e per la brillante partecipazione del primo al torneo monacense del carnevale del 1685 si veda Audacia e rispetto..., Monaco s.d. (ma 1685), p. 21. Per il fratello Torrismondo Paolo: A. Tamaro, Storia di Trieste, II,Roma 1924, p. 138 e S. Comelli, L'arte della stampa nel Friuli...,Udine 1980, p. 138.