Della Scala
. - Membri di questa famiglia furono signori di Verona (nel senso preciso che il termine ‛ domini ' assume in rapporto alla realtà politico-costituzionale di una signoria cittadina) dal 1277 al 1387. E da Verona, per periodi più o meno lunghi, essi estesero il loro dominio su altre città, prevalentemente della terraferma veneta, ma anche lombarde (Bergamo, Brescia, Mantova), emiliane (Parma), toscane (Lucca). Le origini dei Della S. sono oscure e, all'epoca del massimo splendore della famiglia, furono l'oggetto di leggende talvolta spregiative, divulgate dai cronisti contemporanei e riprese poi dagli eruditi. A partire dal sec. XI, i Della S. sono positivamente segnalati a Verona, e la ‛ natio Romana ', attestata per uno di loro da un documento della fine del sec. XII, smentisce l'ipotesi di una provenienza transalpina; mentre di là delle Alpi, in Germania, andò a estinguersi la famiglia, una volta concluso il ciclo veronese e italiano della sua storia.
I Della S. ebbero qualche parte nel primo comune (un Balduino fu console nel 1147) e, nel corso delle lotte che, nella prima metà del sec. XIII, opposero i conti di Sambonifacio ai Monticoli e poi anche ai Quattrovinti (distaccatisi nel 1225 dalla fazione dei Conti), si schierarono dalla parte dei secondi - il che vuol già dire dalla parte di Ezzelino da Romano, che, nel 1226, in seguito alla sconfitta dei Sambonifacio, fu per la prima volta podestà di Verona, la città che avrebbe costituito il cardine della sua costruzione politica: una " presignoria ", com'è stata anche definita. Benché avessero puntato fin dal principio sul cavallo vincente, i Della S. non passarono però certo indenni attraverso le vicende del periodo ezzeliniano. Due membri della famiglia furono infatti giustiziati come traditori nel 1246, altri due nel 1257: una sorte, questa, che fu comune a molti dei sostenitori veronesi di Ezzelino (il cronista vicentino Nicolò Smereglo osserva che Ezzelino infieriva molto di più contro i suoi amici che contro i nemici), portando addirittura alla liquidazione della fazione dei Monticoli e dei Quattrovinti (menzionata per l'ultima volta in un documento del 1246) e a un'equiparazione di fatto fra il destino di costoro e quello dei nemici dichiarati di Ezzelino, da tempo banditi e perseguitati nella vita e negli averi, col risultato di fare di Verona, politicamente parlando, una terra bruciata, nella quale perciò non ci sarebbe mai stato bisogno di leggi antimagnatizie, misure largamente diffuse altrove, ma che, al confronto, hanno tutta l'aria di palliativi.
Nel gennaio del 1259, l'anno della morte di Ezzelino (1 ottobre), Mastino Della S., fortunato superstite di quelle purghe sanguinose, è podestà del comune, in posizione quindi di essere coinvolto nella rovinosa caduta del tiranno della Marca Trevigiana, o di raccoglierne - come di fatto avvenne - l'eredità in Verona. Un ignoto interpolatore del Chronicon Veronense (1117-1277) di Parisio da Cerea, di seguito alla notizia della morte di Ezzelino, aggiunse queste parole: " et regnavit inter hostes viriliter dimicando annis 33 " (il punto di partenza è la già ricordata podesteria veronese del 1226); e subito dopo, forte del senno di poi: " nota quod hic habuit principium domnus Mastinus de la Scala faciendi se dominum civitatis Veronae ". Di positivo c'è solo che, alla fine di settembre di quello stesso anno 1259, quando Ezzelino sconfitto e ferito era ormai in mano dei suoi nemici, Mastino è di nuovo podestà, ma questa volta del popolo. Per tutti gli anni successivi, fino appunto al 1277, quando perì di morte violenta, Mastino assicurò una sostanziale continuità col periodo ezzeliniano, nel senso d'impedire che i fuorusciti (Sambonifacio ecc.) rimettessero stabilmente piede in città, e consentendo invece che l'unica forza politico-sociale organizzata, sopravvissuta in Verona alla tormenta ezzeliniana, cioè a dire le arti, compissero le necessarie riforme costituzionali in vista dell'assunzione e dell'esercizio del potere, sempre, naturalmente, sotto l'indispensabile mantello protettivo del signore scaligero. Ma Mastino non fu mai formalmente un ‛ signore ', anche se, già nel 1262, la temporanea unione nella sua persona delle due cariche di podestà della " Domus mercatorum " (l'organizzazione delle arti) e di capitano del popolo prelude a quella che sarà la sigla tipica della signoria scaligera. Nel 1277, dopo l'assassinio di Mastino, suo fratello Alberto assumerà infatti il titolo di " Capitaneus et rector gastaldionum misteriorum et tocius populi " a vita, dando così ufficialmente inizio alla signoria dei Della S. in Verona.
D. ha ben presente Ezzelino (If XII 109-110 e Pd IX 25-30), il mondo ezzeliniano (Cunizza, Sordello) e, in genere, le vicende della Marca Trevigiana nel sec. XIII, ma ignora del tutto Mastino, che, formatosi in quell'ambiente, proprio per essersi mosso con grande abilità, al momento del crollo, sullo spartiacque fra continuità e restaurazione (propendendo in realtà per il primo corno), aveva costruito praticamente dal nulla le fortune della sua famiglia in Verona. Ricorda invece, ma senza nominarlo espressamente, il fratello e successore di Mastino, Alberto, che, morto il 3 settembre 1301, al momento della visione ha già l'un piè dentro la fossa (Pg XVIII 121), come D. sottolinea " con rude impazienza " (Momigliano), introducendo di proposito un episodio d'impronta nettamente antiscaligera, in cui si riflette l'esperienza negativa di un suo primo soggiorno veronese, che oggi, soprattutto dopo l'intervento sistematore di G. Petrocchi, si è propensi a collocare fra maggio-giugno 1303 e marzo 1304, scartando datazioni più tarde anche possibili. La testimonianza del Boccaccio, secondo cui quel primo soggiorno a Verona avrebbe avuto luogo ancora vivente Alberto, è invece senz'altro da rifiutarsi (quando Alberto morì, D. era ancora a Firenze), ma parla anch'essa nel senso di una datazione anticipata del soggiorno veronese.
Escluso, dunque, Alberto, i Della S. di un certo rilievo con cui D. ebbe, o poté avere, a che fare, allora e in seguito, sono in primo luogo i figli di quello: Giuseppe (morto nel 1313), Bartolomeo (morto il 7 marzo 1304), Alboino (morto il 29 novembre 1311), Cangrande (morto il 22 luglio 1329), tutti, tranne Giuseppe, succeduti al padre nella ormai consolidata signoria, non sempre però uno alla volta, bensì, preferibilmente, a coppie, il padre associando al potere il figlio (Alberto con Bartolomeo, a partire - sembra - dal 1289), oppure il fratello maggiore il fratello minore (Alboino con Cangrande, dal 1308), un espediente questo con cui la famiglia dominante, a Verona come altrove, cercava di aggirare l'ostacolo della non ancora conseguita ereditarietà automatica del potere (gli Scaligeri dovranno attendere per tale traguardo addirittura il 1359), col risultato di conservare alla signoria una certa aria di magistratura collegiale. Ancora alla morte di Cangrande, unico signore dal momento della morte di Alboino, la " concio " veronese, su designazione dello scomparso, eleggerà al suo posto entrambi i figli di Alboino: Alberto II e Mastino II. (Anche costoro, nonché Federico di Piccardo di Bocca, fratello di Mastino I, rientrano nella rosa dei Della S. che D. non poté fare a meno di conoscere).
Protagonisti dell'episodio scaligero di Pg XVIII 121-126 sono Alberto e un suo figliuolo, mal del corpo intero, / e de la mente peggio, e che mal nacque, imposto dal padre come abate del monastero benedettino di S. Zeno, con un gesto di sopraffazione di cui chi l'aveva compiuto avrebbe avuto presto a pentirsi. Il malfatto è denunciato profeticamente da un abate dello stesso monastero, che si trova ora fra gli accidiosi e che si dichiara vissuto sotto lo 'mperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona (vv. 119-120) - in un tempo, dunque, lontano e diverso da quello presente -, e D. prende nota di ciò che ha ascoltato, assentendo all'apprezzamento (questo intesi, e ritener mi piacque, v. 129).
Giuseppe Della S., figlio illegittimo di Alberto, fu abate di S. Zeno dal marzo del 1292 all'estate-autunno del 1313 (prima era stato priore di S. Giorgio in Braida); e in S. Zeno è sepolto. In linea di principio, nulla impedirebbe di vedere in lui un prodotto mal riuscito della famiglia, sistemato con un atto d'imperio in una situazione economicamente vantaggiosa, ai margini della vita politica attiva, in condizione di non nuocere a sé e agli altri. Ma l'interessamento dei Della S. per S. Zeno è troppo costante, perché ci si possa accontentare di una tale spiegazione. Prima di Giuseppe, era stato abate di S. Zeno Pietro Della S., figlio naturale di Mastino, che lasciò l'abazia per diventare vescovo di Verona il 25 febbraio 1291; e nel 1321, imperante Cangrande (e vivente ancora D.!), un figlio naturale di Giuseppe, Bartolomeo, fu nominato a sua volta abate di S. Zeno, dove restò fino al 1336, per poi diventare (com'era stato per Pietro) vescovo di Verona. Due diplomi, rispettivamente di Alberto (11 aprile 1292) e di Cangrande (23 maggio 1320), che prevedono l'adozione di procedure speciali in difesa dei diritti e delle giurisdizioni di S. Zeno, stanno inoltre a indicare che l'interessamento dei signori di Verona per questo monastero non si esauriva nella nomina di un abate di famiglia. Particolare interesse doveva avere per i Della S. la gestione dei cospicui beni che S. Zeno possedeva nel mantovano (presso Ostiglia), soprattutto per i riflessi che essa assumeva nei confronti dei Bonaccolsi (l'amicizia con Mantova era uno dei capisaldi della politica estera scaligera), e non è pensabile che responsabilità così delicate fossero lasciate per più di vent'anni nelle mani di un povero minorato, come sarebbe stato il Giuseppe di Dante.
In Pg XVIII, a parte l'illegittimità della nascita, è denunciata la stortura fisica e morale - non mentale - dell'abate di S. Zeno, la sua mancanza di nobiltà - si potrebbe al limite anche dire -, se essere nobile significava per D. essere perfetto, secondo la perfezione de l'animo e del corpo (Cv IV XVI 5). Solo che, in questo modo, nonché non essere un ramo secco della famiglia dei Della S., Giuseppe diventa a pieno diritto uno di loro, alla stessa stregua di Alboino, ‛ dominus ' di Verona dal 1304 al 1311, e citato in quel medesimo capitolo del Convivio come prova lampante del fatto che è falsissimo che ‛ nobile ' vegna da ‛ conoscere ', mentre invece viene da ‛ non vile ', perché altrimenti bisognerebbe ammettere che egli, universalmente conosciuto come era, fosse più nobile che Guido da Castello di Reggio, il che era manifestamente falso e insostenibile (§ 6): Guido da Castello, dei Roberti di Reggio Emilia, che, accanto a Corrado da Palazzo e a Gherardo da Camino, ritroviamo anche in Pg XVI 121-126, nelle immediate vicinanze, dunque, dell'episodio scaligero cui si è accennato, a completare il trittico di coloro i quali, unici rimasti a testimoniare delle virtù del passato in sul paese ch'Adice e Po riga (Lombardia, pianura padana), dove solea valore e cortesia trovarsi, / prima che Federigo avesse briga (vv. 115-117), sembrano dare, per contrasto, ancora " maggior risalto alla decadenza e alla vergogna della generazione presente " (Sapegno), delle quali invece è da intendersi che partecipassero in pieno i Della S., qui non menzionati, ma chiamati indirettamente in causa, solo che si avesse una pur menoma idea dell'assetto politico della Marca Trevigiana, mediante la citazione onorifica del titolare dell'unica altra signoria allora esistente nella zona, quella dei Caminesi, signori di Treviso, Feltre e Belluno. Dal tempo del Convivio a quello del Purgatorio l'apprezzamento di D. per i Della S. non appare per nulla mutato.
Rispetto a ciò che si è visto finora, l'episodio scaligero di Pd XVII assume invece l'aspetto di una vera e propria ‛ retractatio ', che è da porsi in rapporto con un nuovo e assai più lungo, ed evidentemente molto più fortunato soggiorno veronese di Dante. Sempre secondo il Petrocchi, che ha avuto il merito di far quadrare gli scarsi dati propriamente biografici con quelli relativi alla revisione e alla pubblicazione delle prime due cantiche e con il dato incontrovertibile della dedica a Cangrande del Paradiso, questo soggiorno sarebbe durato dal 1312-'13 al 1318 circa e il canto XVII segnerebbe appunto il " momento del congedo dal generoso signore ", di modo che " il ringraziamento non appare attesa di altri favori ". Ma il mutamento di clima nei confronti dei Della S. è già chiaramente anticipato nel canto IX, che sta al XVII un po' come il XVI del Purgatorio sta al XVIII.
E ciò non pensa la turba presente / che Tagliamento e Adice richiude, / né per esser battuta ancor si pente; / ma tosto fia che Padova al palude / cangerà l'acqua che Vincenza bagna, / per essere al dover le genti crude (Pd IX 43-48): adesso contro il disordine imperversante nel territorio, che qui, mediante l'indicazione dei fiumi che lo delimitano, si configura nettamente come Marca Trevigiana, non c'è più solo l'inefficace rampogna di tre vecchi, rimasti a rendere testimonianza del buon tempo antico (Pg XVI 121), ma " la presenza, quasi esplosiva " di Cangrande (Raimondi), vincitore, presso le paludi che il Bacchiglione forma nei dintorni di Vicenza (17 settembre 1314), dei guelfi padovani, ribelli ieri all'imperatore oggi al suo vicario. Mentre, nelle città della Marca non ancora soggette al signore scaligero, continuano tuttora a imperversare disordine ed empietà: a Feltre, che avrebbe pagato il fio del tradimento operato dal suo vescovo ai danni di un gruppo di fuorusciti ferraresi (Pd IX 52-60); a Treviso, dove il figlio altero del buon Gherardo da Camino sarebbe presto (nel 1312) caduto nella rete di una congiura ordita contro di lui (vv. 49-51).
Solo in quanto futuro, potenziale teatro di operazioni di Cangrande, la Marca Trevigiana, entità di per sé trascurabile e periferica al momento della visione, veniva assunta, nel canto IX del Paradiso, a terzo caso-limite di disordine terrestre, accanto agli Angioini (il regno di Napoli) e alla curia romana. Ma contro la minaccia rappresentata dall'ordine nuovo di Cangrande, il guelfismo padovano, attraverso i suoi portavoce più accreditati (leggi: Albertino Mussato), evocava di continuo lo spettro di Ezzelino da Romano, che, facendo pure lui capo a Verona, " huius Marchiae clades vetus / ... limen hostium et bellis iter, / sedes tyranni " (Ecerinis 173-176), per più di trent'anni aveva seminato terrore e morte in tutta la Marca. Orbene, invece di girare al largo dell'ostacolo implicito in questa abile impostazione politico-propagandistica, D. lo affrontava in pieno e, con piglio provocatorio, affida la denuncia dei mali che affliggevano la Marca Trevigiana proprio a un personaggio del ‛ milieu ' ezzeliniano: Cunizza, la diffamatissima sorella del tiranno, " salva in Paradiso e per di più con una delega d'ordine politico ". L'invettiva che D. le fa pronunciare (Pd IX 25-63), " in linguaggio obliquo diventa automaticamente una dichiarazione a favore di Cangrande " (Raimondi).
Nell'episodio scaligero di Pd XVII (vv. 70-93), la maggior croce per gl'interpreti è costituita di solito dall'identificazione del gran Lombardo, presso il quale D., secondo la profezia ‛ post eventum ' di Cacciaguida, avrebbe trovato il primo... rifugio e 'l primo ostello. Ma anche l'apparentemente ovvia identificazione con Cangrande di un secondo Della S., che D. avrebbe incontrato presso il primo (Con lui vedrai colui...), ancora fanciullo al momento della visione (Non se ne son le genti ancora accorte / per la novella età...), ma destinato a compiere un giorno cose incredibili, non è del tutto pacifica: ancora di recente, sviluppando un'ipotesi formulata ai primi dell'Ottocento dal dantista veronese Giovanni Iacopo Dionisi e poi più volte ripresa, si è infatti cercato di rilanciare - e con argomenti non tutti trascurabili, benché nell'insieme non convincenti - quel tale " gioco d'ingegno da incuriosire le brigate " (Del Lungo), secondo cui nel gran Lombardo sarebbe da vedersi Cangrande e nell'altro personaggio accanto a lui, non un secondo Della S., ma D. in persona.
Ammesso che l'intero episodio abbia il valore di una ‛ retractatio ', il problema dell'identificazione del gran Lombardo perde d'importanza ai fini della comprensione del canto e ne conserva solo in vista di una più esatta conoscenza della biografia di D. durante i primi anni dell'esilio. I possibili candidati a un'identificazione col gran Lombardo sono due: Bartolomeo e Alboino. A favore del primo (e, conseguentemente, della data primavera 1303 - marzo 1304 per il primo soggiorno veronese di D.) giocano non tanto la " gerarchia qualitativa della composizione " del già citato Cv IV XVI 6, troppo sfavorevole ad Alboino perché D. potesse fare marcia indietro così clamorosamente sia pure in sede di revisione del giudizio complessivo sui Della S.; o anche la considerazione di carattere critico-letterario, per cui " quel modo di onorare il suo signore Cangrande con l'elogio delle virtù che da fanciullo non aveva già avuto modo di mettere in luce, ha un significato intenso tanto più si riesce a retrodatare il preannuncio "; quanto, soprattutto, la testimonianza esplicita e " ineccepibile " di Pietro, giunto a Verona giovinetto e quindi perfettamente in grado di sapere " quando e presso chi il padre aveva ottenuto la prima ospitalità sulla via dell'esilio " (Petrocchi). Un complesso di elementi specifici, che può essere ulteriormente arricchito con la citazione di un verso di un sonetto indirizzato a D. da Cecco Angiolieri tra il 1303 e il 1304 (" s'ei so fatto romano e tu lombardo "; l'apporto è di M. Marti), ma che trova il suo vero punto di coagulazione nella dimostrazione, offerta anche dal Petrocchi, che l'ordine in cui sono materialmente disposti i vv. 65-71 non impone affatto di stabilire una successione cronologica fra il distacco dalla compagnia malvagia e scempia dei Bianchi e il primo ostello veronese: " non ci dobbiamo meravigliare, pertanto, che la citazione di Bartolomeo, morto il 7 marzo [1304], segua anziché precedere il ricordo della Lastra, del 20 luglio ". (Fra una data e l'altra si collocano comodamente il ritorno di D. fra i Bianchi e la lettera che egli scrisse, a nome di questi, al cardinale Nicolò da Prato, verso la metà di aprile). Quanto alla difficoltà insita nel fatto di trovare Cangrande accostato a Bartolomeo, non ad Alboino, dal quale ultimo egli fu associato al governo nel 1308 (ma una leggenda voleva che lo fosse stato anche prima); o all'altra, che è stata pure sollevata, secondo cui il santo uccello (l'aquila imperiale) sarebbe diventato un attributo araldico dei Della S. solo dopo la concessione del vicariato imperiale da parte di Enrico VII, il 7 marzo 1311 - e quindi Bartolomeo non avrebbe mai potuto fregiarsi di questa insegna -; c'è da osservare, primo, che può darsi benissimo che D. abbia avuto presente la pratica dell'associazione al potere, caratteristica della signoria scaligera, ma è senz'altro da escludere che qui intendesse riferirsi a una determinata associazione in atto; secondo, che anche il Mussato, nell'Historia Augusta (I 10), attribuisce l'aquila imperiale ai Della S. già in un episodio del 1310.
Bartolomeo, dunque, e non Alboino; il che vuol dire D. a Verona, per la prima volta, nel 1303-1304, e non nel 1304-1306 (Cosmo), e tanto meno nel 1308 (Del Lungo). Ma anche se, trattandosi di Bartolomeo e non di Alboino, cadeva il grosso inciampo costituito dal giudizio " avverso e sarcastico " espresso a proposito di quest'ultimo nel Convivio, la presentazione in una luce nuova dei Della S. richiedeva particolari accorgimenti. Era certo possibile sorvolare su quel primo infausto soggiorno veronese e concentrare la luce su Cangrande, l'ospite del secondo soggiorno: ma il Purgatorio era stato messo in circolazione (secondo il Petrocchi, proprio da Verona) con l'episodio, intanto, di Alberto e di Giuseppe, espressione, come s'è detto, dello scontento di D. per l'accoglienza ricevuta la prima volta (e perciò non importa gran che stabilire se davvero Bartolomeo gli riuscì un po' meno ostico del non nobile Alboino); e D., che pure, in questo caso, non aveva giudicato opportuno di tornare sul già scritto, ora che si presentava l'occasione di riparlare dei Della S., ritenne di doversi rifare da quel primo soggiorno, non solo collocando profeticamente al centro della scena il suo munifico protettore di oggi, che allora aveva sì e no tredici anni, ma concedendo anche qualcosa nei confronti di chi, in quel momento, si era trovato a essere il vero padrone di casa. Mediante i vv. 70-75 di Pd XVII, l'ospite scaligero del 1303-1304 - per la storia, Bartolomeo, ma D. non lo nomina, coinvolgendo con ciò stesso nell'apprezzamento favorevole i predecessori in genere di Cangrande - veniva infatti aggregato retrospettivamente al gruppo dei tre vecchi di Pg XVI 124-126, i soli che, nell'intera Lombardia e Marca Trevigiana, partecipassero del valore e della cortesia dei tempi andati. L'accento che batte sulla cortesia del signore scaligero e la stessa circonlocuzione con cui è nominato (gran Lombardo), che sembra ricalcare il semplice Lombardo di Pg XVI 126, costituiscono delle precise indicazioni in tal senso. Se poi si consideri che il semplice Lombardo è quel Guido da Castello, che aveva umiliato Alboino nel confronto diretto di Cv IV XVI 6, il cerchio dei riferimenti riparatori si salda in modo perfetto, almeno per ciò che concerne, se non i singoli Della S., la famiglia nel suo complesso.
Di tutte le possibili implicazioni del dire, del non dire e del disdirsi D. era ben consapevole, anche in rapporto alle particolari, stringenti necessità della sua condizione di esule: e il canto scaligero, che è anche e soprattutto il canto dell'esilio, si chiuderà appunto col dialogo (Pd XVII 106-142) fra D. e Cacciaguida circa i rischi insiti nel parlar chiaro (di provedenza è buon ch'io m'armi) e il dovere imprescindibile di parlare chiaro lo stesso.
I motivi della polemica e della propaganda politica, che sono ancora presenti in Pd IX, nel c. XVII risultano come esauriti: essi " Si risolvono in una consacrazione di verità, di storia da custodire e da rivelare, che poi tutela insieme, di fronte ai compromessi dell'esilio, i diritti, e magari gli umori e le bizzarrie di un poeta solitario " (Raimondi). Ma una volta chiarita, alla luce di queste considerazioni, la ‛ crux ' del gran Lombardo, resta da capire che cosa, a un certo punto, D. possa avere intravisto in Cangrande, figlio di Alberto e fratello minore di Giuseppe, Bartolomeo e Alboino, tanto da essere indotto a rivedere il giudizio negativo che aveva formulato dapprincipio sugli Scaligeri.
Bibl. - G. Biadego, D. e gli Scaligeri, in " Nuovo Arch. Veneto " XVIII (1899) 437-465; F. Ercole, Comuni e signorie nel Veneto (Scaligeri, Caminesi, Carraresi). Saggio storico-giuridico, Venezia 1910; L. Simeoni, La formazione della signoria scaligera, in " Atti e Mem. Accad. Agr. Sc. e Lettere Verona " s. 5, III (1926) 117-166; ID., Lodovico di San Bonifacio e gli inizii della Signoria Scaligera, in " Atti R. Ist. Veneto " XCII (1932-1933) 1389-1414; C. Hardie, Cacciaguida's Prophecy in ‛ Paradiso ' 17, in " Traditio " XIV (1963) 267-297; A. Scolari, Verona e gli Scaligeri nella vita di D., in D. e Verona, Verona 1965, XI-XXVII; G. Sancassani, I documenti, ibid. 3-165; G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel Veneto, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 13-37 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 119-141); G. Arnaldi, La Marca Trevigiana " prima che Federigo avesse briga " e dopo, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 29-37; E. Raimondi, D. e il mondo ezzeliniano, ibid. 51-69.