DELLA SCALA (Scaligero), Giulio Cesare
Sul luogo di nascita del D. e sul suo stesso nome è stato vivo, a lungo, un dibattito critico teso a far luce sulla reale identità di un letterato che, se acquistò larga fama nella seconda parte della propria vita, trascorsa in Francia, contribuì egli stesso a occultare e a confondere le notizie attorno alla sua nascita.
Alla base di un simile atteggiamento - rafforzato anche dalle notizie derivate dalla biografia che del D. scrisse il figlio Giuseppe Giusto (1540-1609), che doveva divenire uno dei più famosi eruditi francesi del suo tempo - c'è il desiderio, spesso ossessivo, di accreditare una discendenza dalla famiglia dei Della Scala, signori di Verona; da essi quindi deriverebbe anche la versione aggettivata del cognome, Scaligero, con cui il D. firmò le proprie opere e divenne famoso in Francia. Giusto dedicò soprattutto due opere a ribadire l'origine aristocratica della propria famiglia e a confutare tutte le voci su una nascita umile di suo padre: Epistola de vetustate et splendore gentis Scaligerae et Iulii Caesaris Scaligeri vita (Lugduni Batavorum 1594) e Confutatio stultissimae Burdonum fabulae (ibid. 1608). Secondo queste fonti, il D. nacque a Riva del Garda nel 1484, da un Niccolò figlio di Guglielmo Della Scala scacciato da Verona da Francesco Novello da Carrara. Guglielmo, sposata Bartolomea, parente dell'imperatore Massimiliano, ebbe cinque figli di cui il primogenito, stabilitosi a Riva, fu il padre del D. Questi dunque sarebbe nato sul Garda proprio quando i Veneziani assediavano la città con il preciso intento di eliminare i discendenti degli Scaligeri. Solo il coraggio della madre Berenice salvò il D.: la donna con due figli, di cui il D. di appena due giorni, fuggì attraverso i monti, prima rifugiandosi nel castello di Lodrone, poi in Friuli. Questo racconto favoloso della nascita del D. fu smentito già dai contemporanei di Giusto, come Gaspare Schoppe, erudito e segretario imperiale in Italia alla fine del secolo (Scaliger hypobolimaeus, Magonza 1607); recenti studi critici (soprattutto quello fondamentale di Myriam Billanovich) ricostruiscono ben diversamente le origini del Della Scala. Sarebbe figlio di Benedetto Bordon, miniatore padovano di umile famiglia, autore di un Isolario, stampato a Venezia nel 1528, padre di cinque figli, tra cui appunto il D. a cui Benedetto morendo, nel 1530, lasciò i suoi libri filosofici e scientifici.
Il D. era nato probabilmente a Padova nel 1484: si trasferì molto giovane a Venezia dove il padre esercitava la propria attività. Presto entrò in convento: Giusto afferma che il D., scampato alla battaglia di Ravenna, trovò rifugio prima presso Alfonso d'Este, poi in un convento di francescani a Bologna. Probabilmente invece il D. fu frate a Venezia; a questo periodo alluderebbero alcuni componimenti di una delle sue raccolte, Divi, d'ispirazione religiosa e in onore di santi il cui culto era soprattutto diffuso a Venezia. Lasciò il convento sui vent'anni e frequentò la bottega di Aldo Manuzio, come egli stesso ricorderà nella sua prima orazione contro Erasmo. Dal 1509 al 1515 esercitò il mestiere di soldato nelle truppe imperiali con cui partecipò ad alcuni fatti d'arme come la battaglia della Ghiara d'Adda e quella di Ravenna; nella strage che qui avvenne, secondo il racconto di Giusto, perse il fratello Tito. Successivamente raggiunse l'imperatore Massimiliano presso l'odierna Pieve di Cadore e fu da questo insignito di un'onorificenza per il valore mostrato sul campo.
Dopo il '15 mancano riferimenti ad altre attività militari. Tra il '19 e il '20 compose l'Elysium (ma la Billanovich anticipa la datazione al '15), poemetto latino in onore di Alfonso d'Este e Isabella Gonzaga. Quest'opera è posta sotto il nome di Iulius Caesar Bordonius, ma non fu mai stampata nelle successive raccolte di versi del Della Scala. D'altra parte Giusto riconosce che l'opera fu effettivamente scritta dal padre ma, per ribadire al solito le tesi paterne, afferma che il cognome Bordonius sarebbe un errore del tipografo derivato da Burden, la località friulana in cui la famiglia del D. era riparata fin da quando aveva lasciato Riva assediata. Dopo aver brevemente soggiornato a Mantova, il D. dovette intraprendere gli studi universitari a Padova, contrariamente a quanto vorrebbe la biografia scritta dal figlio che parla di studi a Ferrara e a Bologna: scrisse un epigramma per l'edizione di un indice delle opere di Scoto approntato da un professore dello Studio patavino, Antonio De Fanti. Nel 1519 si laureò: un documento della curia vescovile di Padova testimonia una laurea "in artibus spectabilis et eximii domini Iulii, filii domini Benedicti Bordoni" (Billanovich, p. 254). Nei componimenti poetici del D., raccolti nei Poemata, troviamo numerosi riferimenti ad ambienti padovani e a località dei colli Euganei trasfigurate in chiave bucolica, che potrebbero essere riferiti a questi anni di studi a Padova.
Le qualità intellettuali del D. si erano evidentemente messe in luce se l'anno dopo la laurea egli fu chiamato ad insegnare presso l'università padovana: non è possibile stabilire con esattezza se in questo periodo conseguì anche la laurea in medicina, ma quando, sei anni dopo, si trasferirà in Francia, comincerà ad essere abitualmente chiamato "medico"; d'altronde e con questo specifico incarico che si trasferì all'estero al seguito di Antonio Della Rovere.
Subito dopo il '19 il D. si stabilì a Venezia: assunse l'incarico di tradurre la seconda parte delle Vite di Plutarco che furono stampate nel 1525 presso lo Zoppino. Questa traduzione è l'ultima opera che i documenti registrano sotto il nome di Giulio Bordon: alla fine del '24 questi aveva ormai lasciato l'Italia al seguito del vescovo Della Rovere. Non è possibile precisare se egli lasciasse in tale modo alle proprie spalle anche contrasti col potere politico e religioso tali da poter giustificare l'appellativo di "esule" che gli verrà attribuito da alcuni nel corso del suo periodo francese. D'ora in poi il D. pubblicherà sempre le proprie opere con il cognome Della Scala o Scaligero.
Il Della Rovere era vescovo di Agen e doveva recarsi a visitare la propria diocesi; spinse il D. ad accompagnarlo e questi non poté rifiutare perché legato da antica amicizia alla famiglia del vescovo: i reali motivi poi che hanno spinto il D. a stabilirsi definitivamente in Francia non sono chiari. Egli comunque prese dimora ad Agen, e presto sposò la giovanissima Andriette de la Roque, di nobile famiglia guascone, che il D. aveva conosciuto appena quattordicenne al suo arrivo in terra francese. Il matrimonio si celebrò nell'aprile del 1529: un anno prima il D. aveva richiesto e ricevuto dal re Francesco I la cittadinanza francese; nella lettera di concessione è chiamato "Julius Caesar de Lescalle de Bordoms", dunque sommando sia il suo vero nome sia quello che gli assicurava la desiderata ascendenza nobiliare.
Ad Agen il D. esercitò la professione di medico circondato da una fama di scienziato, erudito, filosofo: ebbe numerosi discepoli e molti studenti di medicina si recavano ad Agen per ascoltare i suoi consigli e, probabilmente, le sue lezioni. Ma la popolarità del suo nome evidentemente ancora non accontentava il D., che cercava l'occasione per ampliare maggiormente la propria notorietà. Gliela offrì la pubblicazione, nel 1528, del dialogo di Erasmo da Rotterdam, Ciceronianus.
L'opera del prestigioso umanista rappresentava il primo radicale attacco che un pensatore, vicino ma non organico alla Riforma, muoveva alla massima auctoritas classica. La polemica contro Cicerone nasceva dalla convinzione di Erasmo che, sotto le vesti austere del culto ciceroniano, si celasse un pensiero pagano sostenitore, contro i valori cristiani, di una visione del mondo epicurea o politeista. Giungendo sino ad una demolizione dello stesso stile oratorio di Cicerone, Erasmo afferma che una lingua latina che in epoca moderna voglia attenersi pedissequamente ai canoni della cultura classica non riuscirà mai a farsi realmente interprete del mondo moderno. Il D. lesse il dialogo nel 1529 e, a quanto sembra, scrisse la risposta in tre giorni, intervenendo in difesa della lesa maestà classicistica. Nell'aprile di quell'anno inviò il manoscritto, che è loro dedicato, e alcune lettere in merito, agli studenti dell'università di Parigi; ma il testo non giunse a destinazione: venne smarrito presso il collegio di Navarra e il D. accusò i sodali di Erasmo di aver ostacolato la circolazione del suo pamphlet, Finalmente nel settembre del 1531 si ebbe la stampa (a Parigi, presso Pierre Vidoue) dell'orazione. Ribattendo una ad una le critiche di Erasmo, il D. celebra l'altezza del modello etico, culturale e linguistico di Cicerone. Se l'olandese ne denigrava lo stile che giudicava arido e incolore, il D. ne sostiene l'efficacia della brevitas; se ancora la polemica erasmiana attaccava l'uso delle immagini classiche per i temi e i personaggi della religione cristiana, il D. giustificava quest'uso in nome della dignità retorica del linguaggio classico, tanto da potersi domandare: "Quis non malit apud posteros Ciceronianus quam sanctus celebrari?". Infine affermava che la memoria di Cicerone era grande non solo per le sue parole ma soprattutto per le sue massime che ne sancivano la grandezza intellettuale e morale.
L'orazione del D., stampata col titolo Pro M. Tullio Cicerone contra Desiderium Erasmum Roterodamum, è improntata ad un tono polemico di estrema durezza: le sue motivazioni profonde vanno probabilmente ricercate, al di là del desiderio del D. di acquistare fama, opponendosi ad un personaggio come Erasmo. anche in rapporti più complessi. Non solo era legato da vincoli di antica data con la famiglia Della Rovere che Erasmo aveva colpito con una feroce satira di Giulio II nel dialogo Iulius Exclusus, apparso nel 1517, ma l'ispirazione di quest'opera dovette apparire al D. di matrice veneziana. E Venezia non era solo avversaria dei Della Rovere ma anche degli stessi Della Scala di Verona, da cui il D. rivendicava la discendenza. Se la biografia scritta da Giusto Scaligero vorrebbe che copie dell'orazione del padre fossero raccolte e distrutte dagli uomini di Erasmo, in realtà la feroce accusa del D. rimase senza risposta. Addirittura l'autore del Ciceronianus riteneva che dietro il nome di Scaligero si nascondesse qualche altro suo avversario, forse quel Girolamo Aleandro, legato papale, di cui Erasmo credeva di riconoscere lo stile nell'orazione. Fu un altro avversario del D., François Rabelais, suo oppositore in una disputa di argomento medico, a confermare ad Erasmo la reale identità dell'autore del pamphlet. Scrivendo all'umanista olandese, in data 30 nov. 1532, Rabelais ribadiva l'esistenza di uno Scaligero, medico ad Agen, ma in realtà un ciarlatano senza alcuna nozione in medicina. Ancora nel '35 Erasmo scriveva a un amico di meravigliarsi per essere ritenuto un anticiceroniano, ma che non intendeva rispondere agli attacchi del D.
Questo silenzio evidentemente spinse il D. a pubblicare una seconda orazione contro Erasmo, ancora più violenta della prima; tra l'altro era entrato nella disputa, a difesa di Cicerone, pure Etienne Dolet e il D. dovette anche temere di perdere il primato della militanza classicistica. Il secondo intervento contro Erasmo fu scritto nel '36 ma apparve, ancora presso Vidoue, solo l'anno successivo, quando l'avversario di Rotterdam era ormai morto. Il tono dell'attacco questa volta appare più violento perché il D. si scaglia contro la stessa persona di Erasmo, mettendone ferocemente in ridicolo l'aspetto fisico, le abitudini di vita, l'amore per la tavola. Nella critica poi alle sue simpatie riformiste e a una sua ingratitudine verso la tradizione umanistica italiana, identificata ovviamente con il ciceronianesimo, mostra di tener ben presenti i luoghi più tipici delle polemiche svolte contro Erasmo da altri letterati.
Come si è detto, anche Etienne Dolet aveva preso posizione nella disputa a favore di Cicerone, ma il D. non poteva gradire la cosa in quanto già da tempo si era dimostrato ostile a Dolet. Nel 1532 era stato eletto nel Consiglio municipale di Agen, carica in cui fu riconfermato per diversi anni: nel '33 fece la conoscenza di un Dolet ancora studente in occasione di una controversia nata presso l'università di Tolosa. Le rivalità tra le varie "nazioni" di appartenenza degli studenti di quello Studio spinsero il Parlamento di Tolosa a decidere l'abolizione di alcune autonomie universitarie: Dolet attaccò tale decisione e accusò i Guasconi e gli studenti di altre "nazioni" meridionali di abbassare i valori umanistici con la loro barbarie. Dolet cercò incautamente l'appoggio dell'autorità del D. che, sposato ad una guascone, non poteva certo condividere quelle posizioni, nonostante la mediazione di Arnoul Le Ferron, comune amico. Nel 1535 poi Dolet aveva pubblicato un Dialogus de imitatione ciceroniana, adversus Desiderium Erasmum Roterodamum che aveva avuto una certa risonanza: il D. fu senza dubbio geloso del successo riportato da Dolet sul suo stesso terreno e decise così di screditarne il nome deridendo la sua precoce fama di letterato con alcuni componimenti raccolti in Poemata.
La vita agenese del D. fu costellata da dispute e polemiche: si è già detto dei giudizi che Rabelais diede di lui a proposito delle conoscenze mediche; la loro contrapposizione va fatta probabilmente risalire (secondo la ricostruzione dei loro rapporti fatta dal De Santi) a quando Rabelais incontrò, ancora studente in medicina, ad Agen il D., animatore di un cenacolo di giovani studiosi delle arti mediche.
Ben presto emerse come le concezioni di queste arti fossero, nei due, completamente opposte: pragmatista, attento ad una sperimentazione continua per aggiornare i sistemi diagnostici e terapeutici il D.; legato invece alle formulazioni dei classici del pensiero medico, da Ippocrate a Galeno, Rabelais, convinto che il loro insegnamento fosse ancora valido nel suo tempo (come emerge dal suo lavoro filologico sui testi di Ippocrate e di Giovanni Manardi). Il D. mostrava la propria ostilità verso il giovane allievo deridendolo in un poemetto sotto il nome beffardo di Binus, riferendosi all'amore di questo per il bere, o nelle vesti grottesche del "monaco Baraenus".
Nella seconda metà degli anni Trenta il D., che pure aveva sempre dimostrato sentimenti cattolici, fu vicino ad ambienti riformati. Nella regione di Tolosa si era diffuso, soprattutto nei circoli intellettuali, lo spirito della Riforma; a Nerac, non lontano da Agen, Margherita di Navarra e Henri d'Albret offrivano ospitalità ai perseguitati dall'Inquisizione; nella stessa città del D. si ritrovavano alcuni dei più attivi sostenitori delle nuove idee religiose: Nicol Maurel, Pierre Allard, Jean de Lagarde, Philibert Sarrazin. Proprio per indagare sull'attività di costoro, nel marzo del 1538, il domenicano Louis de Rochette giunse da Tolosa ed aprì un'inchiesta sugli eretici. Anche il D. (che nello stesso periodo aveva ricevuto la visita di Michel de Nostredame, noto come Nostradamus, che gli aveva dichiarato amicizia e ammirazione) fu imputato nel processo che ne conseguì perché alcuni testimoni assicuravano sue professioni di eresia e attività in favore degli imputati maggiori. Nonostante le testimonianze a sfavore, intervennero a scagionare il D. tre consiglieri del Parlamento di Bordeaux, che intrattenevano con lui rapporti di stima e d'amicizia: Geoffroy de Lachassaigne, Arnoul Le Ferron, Briand de Vallée fecero pressioni sull'inquisitore perché permettesse al D. di discolparsi e tenesse conto dell'ortodossia della sua opera.
La critica concorda sull'occasionalità dei contatti del D. con i riformati: le sue polemiche contro il clero si limitarono alla satira letteraria nei Poemata e d'altronde i suoi scritti erano ispirati a una profonda tolleranza. Non è però credibile quanto narra il figlio Giusto nella biografia del padre, a proposito della conversione, ottenuta da questo, di un ateo di Agen: in realtà la formazione del D. è di matrice averroista come testimoniano i suoi studi universitari a Padova, a quanto dice egli stesso in Exotericarum exercitationum liber.
Nel 1539 pubblicò la raccolta di poesie Heroes, celebrative di uomini illustri, da personaggi del mondo classico come Aristotele, Cicerone, Ippocrate, a contemporanei, come Bembo, Fracastoro e Pico.
Nel 1541 giunse ad Agen, sotto la protezione di Francesco I e al seguito di Costanza Rangona, vedova di Cesare Fregoso assassinato dagli Imperiali, Matteo Bandello. Tra il D. e lo scrittore di novelle nacque un'amicizia testimoniata da un ricco scambio di versi. Anche Costanza fu presto al centro delle attenzioni del D.: ad essa egli dedicò sonetti d'amore tipicamente petrarchisti e forse è possibile riconoscere l'identità della vedova Fregoso anche dietro molte altre figure femminili che popolano il canzoniere scaligeriano.
Nel 1530 era nato il primo dei quindici figli del D., Silvio, che studiò nel collegio di Bordeaux e, in un secondo tempo, direttamente con il padre: questo rapporto didattico con Silvio sembra essere alla base anche di opere di grande sistemazione storico-teorica come i Poetices libri septem e De causis linguae Latinae, pubblicata nel 1540: in questo stesso anno nacque Giuseppe Giusto che doveva diventare un noto erudito.
L'ultimo periodo della vita del D., trascorsa, tranne brevi viaggi, ad Agen, dove esercitava il suo magistero di scienziato, filosofo e letterato, circondato da una notorietà sempre crescente e da allievi devoti, fu caratterizzato da un'altra disputa, quella che lo oppose a Gerolamo Cardano.
Questi nel 1550 aveva pubblicato il trattato De subtilitate in cui descriveva e catalogava tutti i problemi inerenti alla "sottilità" della materia. Il D. lesse quest'opera nell'edizione lionese del 1554 e, riconoscendovi molti errori sia concettuali sia empirici, decise di intervenire a correggerli, in un volume, Exotericarum exercitationum liber quintus decimus de subtilitate ad Hieronymum Cardanum, edito a Parigi nel 1557. Le osservazioni, spesso legate ad un piano di osservazione empirica della realtà, altre volte alla riproposizione di teorie del neoaristotelismo italiano che il D. doveva aver frequentato negli studi padovani, contengono giuste derisioni delle false credenze o delle superstizioni dell'avversario, ma anche professioni di fede altrettanto ingenue e grossolane in principi scientifici del tutto irreali: il D. infatti deride alcune affermazioni di Cardano sul comportamento animale o sulle miracolose qualità delle pietre preziose, ma poi mostra di credere alle affermazioni di Plinio circa le qualità velenose dell'oro o alle dicerie popolari sulla natura e sugli effetti dell'arcobaleno. Nonostante simili ingenuità il libro conquistò subito un grosso credito e divenne un preciso punto di riferimento culturale. Secondo il maggior biografo del D., Vernon Hall, Francesco Bacone riprese in Sylvia Sylvarum la definizione del D. dell'appetito sessuale come sesto senso, mentre nel Novum Organum la tesi sulla durata temporale della diffusione della luce sarebbe basata su una teoria del D. esposta nell'Exotericarum exercitationum. Altri riferimenti al pensiero scaligeriano potrebbero ancora riconoscersi, secondo Hall, in Leibniz e Newton. Il tono generale dell'attacco a Cardano, anche se muove da riconoscimenti dichiarati del valore dell'uomo e dello scienziato, è tuttavia feroce nella irrisione delle affermazioni del De subtilitate; contro questa arroganza è soprattutto rivolta la risposta che il Cardano dedicò al libro del D., l'Actio prima in calumniatorem librorum De subtilitate, che uscirà a Parigi solo nel '60, due anni dopo la morte del D.: ribadendo le proprie teorie, il Cardano giudica indegno di un aristocratico quale pretendeva di essere il D. l'attacco che questi gli aveva mosso e dimostrava voler esibire una superiorità non solo scientifica ma anche di comportamento. Nella propria autobiografia anche il Cardano, come altri a proposito del contrasto con Erasmo, affermerà che l'intervento del D. contro di lui era mosso dal desiderio di far parlare di sé.
Ma forse, nell'ultimo decennio della propria vita, il D. non aveva bisogno di questo: la sua fama cresceva, almeno nel mondo delle lettere francese grazie alle opere di ogni tipo che, mettendo a frutto una grande erudizione e una straordinaria capacità definitoria e classificatoria, egli riusciva a scrivere sugli argomenti più vari. Se l'opera che doveva assicurargli comunque maggiore fama, la sua Poetica, uscira postuma nel '61, il D. conquisterà una certa notorietà di letterato con le sue ricerche linguistiche e con le poesie che continuò a comporre - poesie d'amore, celebrative, d'occasione - sino agli ultimi anni di vita, affermando che un demone lo spingeva a scrivere continuamente versi.
Ammalatosi ai polmoni, dopo una lunga malattia, il D. morì ad Agen il 21 ott. 1558. Fu sepolto nella chiesa degli agostiniani, celebrato da versi di compianto di molti letterati francesi e italiani.
Dell'amplissima bibliografia del D., di cui si è già ricordata qualche opera, occorre soffermarsi su quei titoli che gli assicurarono maggiore originalità o fama. Questa non mancò ai componimenti raccolti in volume nel 1546, soprattutto a quelle sezioni Heroes (questa gia edita nel 1539) e Heroinae dove sono cantati i personaggi della cultura classica o, sotto il travestimento classicistico, i rappresentanti di quell'universo cortigiano che è identificato in un mondo poetico chiuso, strutturato su valori linguistici e tematici fissi o pochissimo variati: la stilizzazione idealizzante riconduce tutti questi personaggi a figure della dignità e delle qualità umane. I modelli poetici sono ovviamente quelli del latino classico, da Ovidio a Tibullo, soprattutto al Virgilio bucolico. Di particolare interesse per il culto classicista del D. quei componimenti raccolti in una sezione sotto il titolo Manes Catulliani: ben cinquantanove poesie costruite su calchi o pastiches catulliani che riproducono i metri e i versi degli originali ma anche le tematiche amorose e gnomiche.
Certamente tratti di maggiore originalità hanno quei testi del D. che si avvalgono della sua erudizione filosofico-scientifica e della sua razionalità classificatoria: interessante in tale senso è allora quel Commentarii et animadversiones in sex libros de causis plantarum Theofrasti, edito a Ginevra nel 1556, in cui il D. metteva a frutto le proprie dirette esperienze nel campo della botanica ed erboristeria, esperienze sia maturate nella sperimentazione diretta sia nella ricerca erudita di descrizioni di piante in fonti letterarie e artistiche, tanto classiche che moderne. Ma è soprattutto con De causis linguae Latinae libri tredecim, edito a Lione nel 1540, che emergono i tratti più peculiari di un pensiero speculativo che tenta audaci mediazioni tra diversi filoni di pensiero (soprattutto ovviamente tra aristotelismo e platonismo) rifiutandone gli eccessi e ipotizzando una composizione degli opposti attraverso una sorta di empirismo del "senso comune", tassonomico e razionalizzatore.
Dedicato al figlio, il trattato sulla lingua latina si presenta come il primo tentativo organico dell'epoca di organizzare un quadro d'assieme della storia e delle strutture della lingua latina di cui si vuole difendere il primato dinanzi alle lingue volgari che il D. dimostrava di disprezzare. Rifiutando sia la tesi di un'origine naturale del linguaggio sia quella di una origine divina, descriveva la lingua come un prodotto della casualità della storia, che il divenire progressivo dell'umanità migliora nei suoi valori estetici ed espressivi. In questa prospettiva è rifiutata l'idea di un'età dell'oro della lingua ma si afferma piuttosto un atteggiamento molto libero dinanzi alle preoccupazioni umanistiche della latinità delle forme linguistiche. Per quanto il D. fosse attento alla purezza classicistica di queste, non mancava di rendere omaggio ai "barbari", soprattutto agli scolastici che avevano contribuito a rendere più moderna la lingua latina. L'apprendimento linguistico secondo il D. doveva essere un equilibrio tra la memoria delle tradizioni e l'esperienza razionale della vitalità di forme espressive capaci di rinnovarsi costantemente. Non deve infine apparire incongruo che le leggi fondanti della grammatica che il D. descrive siano insieme ispirate a un valore d'uso e a un criterio di immutabilità: la tesi che la grammatica derivi dal "retto parlare", cioè dalla pratica viva, finisce col coincidere con la definizione delle forme grammaticali come leggi immutabili. L'uso della lingua si definisce secondo la razionalità intrinseca al mondo e alla vita umana: tale ragione è una vis animae che permette agli uomini di riconoscere gli universalia nelle cose e dunque, come nella grammatica, i principi generali, necessari, negli accidenti particolari.
Ma è con i Poetices libri septem, editi a Lione nel 1561, che con più ampio respiro il D. elaborò la propria originale teoria estetica. Per comprenderne la portata, al di là del successo che essa ebbe in Francia soprattutto nel secolo successivo, dove fu considerata una sorta di libro sacro del classicismo, l'opera del D. deve essere valutata nel contesto dei numerosissimi libri di poetica o di commenti aristotelici che invasero per tutto il sec. XVI la cultura letteraria italiana, proseguendo ed articolando, con alterne vicende, i filoni del pensiero aristotelico e platonico nella rilettura rinascimentale. La poetica del D. invece si muoveva non in contrasto con questi filoni (come potrebbero far pensare certe critiche alle "favole" platoniche o certe letture ridimensionanti di precetti aristotelici che fecero scrivere B. Weinberg di un D. versus Aristotele) ma con un costante tentativo di utilizzarne frammenti, di armonizzarne opposte categorie. La presenza poi di referenti inusitati come Virgilio, letto quale modello di linguaggio poetico ma anche come figura dell'etica del letterato, fanno dei Poetices un'opera enciclopedica, ridondante, a volte eccessiva, eppure mossa costantemente da una tensione di conoscenza e di "militanza" intellettuale da proporsi con alta funzione pedagogica: anche quest'opera, d'altronde, era dedicata dal D. al figlio Silvio come libro di studio.
Già la suddivisione dei sette libri della Poetica presenta alcune singolarità. Nei titoli delle varie sezioni (I Historicus; II Hyle; III Idea; IV Paresceve; V Criticus;VI Hypercriticus;VII Epinomis) appaiono indicazioni inconsuete: se il secondo libro, dedicato alla trattazione della materia della poesia, la individua negli elementi fonico-ritmici e nelle forme metriche, il terzo, sotto la denominazione platonizzante di Idea, tratta delle figure retoriche come principi ordinatori non solo del linguaggio poetico ma dell'intera esperienza estetica e addirittura della conoscenza del reale. I libri V e VI sono poi una vasta rassegna dei principali autori della letteratura classica e volgare di cui si danno alcuni cenni critici e un giudizio spesso attraverso il paragone con i modelli teorizzati oppure, ancora più frequentemente, con Virgilio. I poeti contemporanei sono giudicati molto severamente: quello a cui vengono resi maggiori onori è il medico letterato Girolamo Fracastoro. A differenza della maggiore parte dei teorici rinascimentali, divisi tra il teorizzare il fine dell'arte come "imitazione" o come "diletto", il D. lo individua in una "doctrina iocunda qua mores animorum deducantur ad rectam rationem" e fa dell'imitazione un semplice strumento per giungere al fine pedagogico. L'imitazione d'altra parte non è della natura ma piuttosto di quell'ideale etico-estetico che è la natura più profonda delle cose e che la poesia, con il suo specifico linguaggio, può conoscere e rivelare: il poeta, velut alter deus, crea una seconda natura superiore alla prima perché attinge alla perfezione degli universalia. Se la poesia è la forma più espressiva della "verità" delle cose, la parola, in tutta la costruzione scaligeriana, viene a porsi come elemento centrale del rapporto poesia-realtà. In quanto imagines rerum, le parole non sono una "mimesi" della natura ma piuttosto sono strumenti per cogliere, di questa, l'anima riposta: le res universales pluribus communicabiles, che per il D. si annidano nelle cose, sono dicibili attraverso i suoni e i ritmi della poesia: è in questo contesto che va letta l'originale rivalutazione che il D. opera dei problemi metrici, sulla scorta dei precetti della poetica di Orazio e sull'esemplarità dello stile virgiliano.
Originale è anche la rilettura della teoria critica della tragedia, al centro, com'è noto, della Poetica aristotelica. Se qui la sententia appare come un elemento secondario rispetto alle regole strutturali del testo, il D., sempre secondo la logica del valore conoscitivo della parola poetica e dell'alta funzione pedagogica del poeta stesso, affermava che le sentenze sono la struttura portante della tragedia, perché, analogamente a quanto accade nella poesia con le formule metriche, sono il collegamento tra le azioni umane e l'affermazione dei principi universali cui esse si improntano. Il primato che il D. attribuiva a Seneca rispetto ai tragici greci nasce proprio da questa peculiare lettura del testo tragico ed è proprio a questa particolare teorizzazione che guarderanno gli autori barocchi, di teatro e di versi, nella celebrazione del valore fondante, comunicativo ed espressivo, della parola letteraria.
L'opera del D. si scandisce secondo un rigoroso, non rigido, sistema di pensiero autoritario. La sua strategia è nel tentativo di innestare l'atteggiamento più ortodossamente umanistico, ciceroniano, sulla tradizione derivata ad Aristotele, la cui lezione speculativa, sia in campo teologico-metafisico sia in campo scientifico-naturalistico, secondo il D. e nonostante questi andasse mutuando molti concetti e categorie da Platone e da Orazio, andava conservata nel suo magistero teorico e sottratta alle parziali letture che subiva nel corso della controversia cattolico-luterana. Rispetto al dibattito della Riforma, a cui pure non fu del tutto estraneo, il D. formulava e difendeva un modello di classicismo che potremmo definire liminare, periferico; è una condizione scelta proprio per poter conservare, dalle istituzioni classiciste, dei parametri generali di interpretazione e di valutazione capaci di fornire una tassonomia stabile e duratura all'amplissimo panorama della riflessione estetica. È proprio questa peculiarità del sistema speculativo del D., questa sua intransigente, quasi altezzosa fedeltà a una cultura costituita secondo principi di ragione ed autorità, ad assicurare una validità non precaria a quel ruolo di ordinatore e divulgatore della problematica di poetica e di retorica, quale ci è testimoniato dalla presenza del pensiero del D. nella genesi e nello sviluppo del classicismo francese.
Oltre a quelle già citate ricordiamo le prime edizioni di altre opere del D.: Lacrimae, Prosopopeia christianissimi Francorum regis Francisci, Lutetiae 1534; De comicis dimensionibus, in P. Terentii Afri Comoedie, ibid. 1556; De comoedia, Basileae 1568; De sapientia et beatitudinelibri octo quos Epidorpides inscripsit, Genevae 1573; Epistulae et orationes numquam antehacexcusae, Leidae 1600; Epistulae et aliquot nuncprimum vulgatae, Tolosae 1620.
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