DELLA LAMA, Giovanni Maria
Medico napoletano, esule intorno al 1550 per causa di religione, passò gran parte della sua vita tra Vienna e Praga seguendo per professione la persona e la famiglia imperiale.
La prima notizia che lo riguarda risale al 1565 e viene da András Dudith. Il vescovo di Pécs, inviato da Massimiliano II in Polonia con il compito d'organizzare il partito asburgico per la successione a Sigismondo Augusto, s'era installato a Cracovia. E qui (per motivi che avevano anche a che fare con la necessità di reclutare informatori) era subito entrato in contatto con la colonia degli emigrati italiani, ancora vivace come comunità nazionale anche se temporaneamente assai ridotta di numero dopo la promulgazione dell'editto di Parczów (agosto 1564) che obbligava gli stranieri non cattolici ad abbandonare il paese.
Il Dudith, accogliendo l'esule napoletano aggregato alla comunità italiana di Cracovia tra i membri della sua vasta famiglia, ne determinò la carriera come medico imperiale. Il 20luglio 1566 presentava il D. a Massimiliano qualificandolo chiaramente come un medico napoletano ch'era stato costretto ad abbandonare "la patria, la famiglia e i beni" a causa della persecuzione religiosa e che aveva bisogno d'una riabilitazione ufficiale. La preghiera che il Dudith rivolgeva all'imperatore non era formulata in modo esplicito. Ma faceva intendere bene che bisognava intercedere presso il pontefice affinché il suo protetto potesse ottenere la cancellazione dell'accusa mossagli dal S. Offizio dell'Inquisizione. Altre fonti ci permettono di affermare che lo stile di vita adottato dal D. durante questa fase del suo soggiorno polacco era così conforme alle norme della Chiesa cattolica da costituire il nunzio apostolico Giovanni Francesco Commendone e il cardinale Stanislaw Hozjusz come testimoni.
Per poter lasciare Cracovia il D. non dovette però attendere la temporanea sospensione del Dudith dall'incarico (aprile-luglio 1567). Alla fine del 1566 s'era già installato a Vienna e manovrava per poter ottenere un atto che, reintegrandolo anche formalmente nella Chiesa, gli permettesse di vivere senza problemi di fede alla corte imperiale e di esercitare la propria professione senza essere sottoposto a sospetti o censure. Aprì dunque una nutrita corrispondenza con il cardinale Commendone che, dopo la conclusione della legazione polacca, aveva fatto ritorno a Roma. Proprio questo scambio epistolare (di cui possediamo solo i due frammenti pubblicati dal Poggiani) ci permette di affermare che il Commendone a Cracovia era stato legato da forti vincoli di rispetto e di stima se non d'amicizia per il Della Lama. Scrive infatti il cardinale come incipit e come explicit della prima lettera che ci è conservata. "Vostra signoria sia pur certa che non s'inganna ne l'opinione che ha de l'animo mio verso di lei"; "Conforto vostra signoria a comportare questo travaglio che manda la disgratia et il mondo con quella constantia d'animo che conviene ad huomo litterato et di valore".
Il fine che il D. si proponeva dallo scambio epistolare con il Commendone era quello di ottenere un'assoluzione romana per i trascorsi eterodossi di cui era imputato o almeno un atto che gli permettesse di "poter vivere ancora in quelle parti" senza avere problemi di coscienza. In ogni caso è da questa corrispondenza che si ricavano le informazioni di base sopra una vicenda di giurisdizione che contrappose (senza clamori) Vienna a Roma per circa un ventennio. Le accuse d'eresia nei confronti del D. provenivano dall'Italia, dove si stava allora istruendo una serie di processi che avevano l'obbiettivo di conoscere le forme e la trama del dissenso legato alla penetrazione delle dottrine riformate. Ma erano polemicamente agitate nella corte da chi era interessato a mettere accanto al sovrano degli operatori strettamente controllabili dalla gerarchia ecclesiastica e premeva con ogni mezzo per sostituire tutti coloro sui quali gravava il sospetto di non collaborazione. Provocavano quindi, quand'erano diffuse con insistenza e soprattutto quando avevano un qualche fondamento, sensazioni d'insicurezza in quelli che ormai dipendevano finanziariamente solo dal lavoro e dai servizi che prestavano all'imperatore ("non havendo egli altro al mondo di che vivere che l'arte sua").
Il cardinale era tutt'altro che incline a credere che fosse possibile risolvere in positivo la questione senza che l'indiziato si presentasse personalmente al S. Offizio: "Corne le ho scritto già molte volte, le cose sue, per quanto vi vede fin qui, non hanno rimedio se essa non si costituisce a dar conto de la sua fuga e dei fatti suoi". Non avrebbe tuttavia rinunciato all'impegno preso fin dal primo momento. Ma questo - e la cosa doveva essere chiara all'interlocutore - avveniva nei limiti delle sue ridotte possibilità d'intervento nel momento attuale e delle sue ristrette capacità d'azione nell'ambito delle competenze inquisitoriali. Concludeva infatti in questo modo il primo biglietto: "Se già il tempo non aprisse qualche occasione d'aiutarla, la quale - per quel poco che potrò et che saprò - non lascerò passare" (22 febbr. 1567).
Tre anni dopo, visto che "il tempo non si apriva", il D. decise di fare intervenire direttamente il fratello che si recò da Napoli a Roma per curare la ripresa dell'iniziativa in favore d'una sentenza assolutoria anche in assenza dell'imputato. Il Commendone non mancò di fare il suo dovere d'amicizia ("io gli ho prestato quel poco aiuto et consiglio che ho potuto"). Ma volle di nuovo precisare il proprio punto di vista sull'intera questione ("io, per me, credo che tutto sia indarno") senza tuttavia smettere di protestare la personale convinzione sull'estraneità dell'imputato ai fatti contestati: "Consolatevi con la conscientia vostra et con la volontà del signor dio finché a sua divina maestà piaccia di far constatare la vostra innocentia" (6 dic. 1570). In che cosa consistette l'aiuto e il consiglio che il Commendone dette al fratello del Della Lama? Nel preparare e presentare una memoria perché gli organi della Curia riesumassero il caso esaminandolo senza avere l'imputato nelle mani. Risulta infatti che il fratello del D. e il cardinale Commendone avevano allegato a un "supplex libellus" inoltrato al pontefice un memoriale, steso per il cardinale che presiedeva il tribunale dell'Inquisizione, nel quale si faceva presente che l'imputato, "ritrovandosi in Vienna, dove già più anni essercita l'arte sua di medico", aveva saputo di essere stato "nominato nel S. Offizio per suspicioni avute di lui in cose di religione".
Il memoriale (scritto sicuramente sulla base di notizie fatte pervenire dall'interessato) non dà alcun chiarimento intorno al passato dell'imputato in materia di fede e non aggiunge alcuna informazione sulla qualità dei sospetti nutriti nei suoi confronti. Tanto meno riconosce una partecipazione a un qualche movimento eterodosso napoletano. Anzi. Secondo un modello normalmente in uso tra gli emigrati desiderosi d'essere reintegrati nelle forme della credenza di Stato dopo una deviazione che non aveva fatto grande clamore, proclama la sua forte convinzione interiore ("ne l'animo suo è sicuro") di m non essérsi mai discostato un punto da quello che crede et comanda la santa madre chiesa" anche se non esclude - in linea di principio (sia "per ignorantia" o sia "per negligentia") - il fatto che abbia Potuto commettere qualche "peccato in simile genere". Ecco perché chiede, al massimo, l'imposizione d'una semplice "penitentia" papale che lo restituisca a "quello stato di gratia con santa chiesa in che sono gli altri fedeli christiani" assicurando la sua assoluta disponibilità "a ricevere et esseguire con ogni humiltà tutta quella penitentia che gli sarà imposta per quello che egli avesse peccato".
La domanda del D., consistente nel chiedere che la sua causa fosse commessa "in quelle parti" (territorio dell'Impero) o affidata al "nuntio apostolico" o rimessa a qualche altro delegato dell'autorità religiosa affinché l'imputato, con un viaggio a Roma, non avesse a "lasciare gli avviamenti che ha con dispendio e ruina del stato suo", non poteva certamente essere esaudita, almeno nella fase inaugurata in quel tempo dal S. Offizio. Tanto più che la giustificazione addotta ("egli, mentre è stato in quelle parti, è sempre vissuto e vive catholicamente") contrastava proprio con i bisogni tecnici del tribunale, che non era minimamente interessato al presente ortodosso dei sospetti o accusati ("astenendosi egli anco da ogni conversatione d'heretici come frequentando i santissimi sacramenti della chiesa"), ma solo al loro passato eterodosso. Sicché, relativamente all'oggetto in questione, proprio nulla valevano le testimonianze viennesi di "molti buoni catholici che lo conoscono" adesso o le attestazioni di "tutti i ministri di sua santità" che avevano frequentato la corte imperiale. Nemmeno quelle dei cardinali Commendone e Hozjusz. E infatti, nonostante tutti i tentativi del cardinale Commendone per trovare una soluzione ragionevole, non si poté giungere a un qualche accomodamento.
Nelle note dei Lagomarsini non c'è traccia della continuazione d'uno scambio epistolare tra il medico e il cardinale dopo la presentazione del memoriale né d'un ulteriore intervento dell'imputato e della sua famiglia per ottenere quanto era desiderato. Ma l'osservazione che tutto quello che l'imputato aveva chiesto, e non aveva potuto ottenere né sotto Pio V né sotto Gregorio XIII, fu poi conseguito durante il pontificato di Sisto V lascia supporre un'insistenza non venuta meno. La differenza con la fase precedente dell'iniziativa consiste nel fatto che Rodolfo II, contrariamente a Massimiliano, si era fatto personalmente carico della questione del suo medico e, il 3 di maggio del 1586, si era rivolto a Sisto V esigendo una soluzione conforme alla richiesta che veniva fatta da circa vent'anni dall'accusato. Vale a dire: commettere ad un qualche prelato residente nel territorio dell'Impero ("aliquis praelatus in meis regnis commemorans") l'escussione della causa per eresia intentata al Della Lama.
Il 27 marzo del 1587 il papa - scusandosi subito per il notevole ritardo con il quale rispondeva. ("eae nobis hisce modo diebus redditae sunt, quo factum. est ut serius ad eas maiestat is tuae rescribamus") - spedì all'imperatore una lettera che offre interessanti notizie sulla vicenda dell'imputato, sulle tensioni che eventi di questo genere provocavano nei rapporti tra Stati e Chiesa, sui compromessi che si potevano raggiungere a livello diplomatico.
Sisto V dice infatti a Rodolfo II di avere sottomesso il caso alla congregazione dell'Inquisizione e di aver ottenuto le seguenti informazioni sicure: il D. era a suo tempo fuggito dal Regno di Napoli e aveva poi abbandonato il suolo italiano per non sottoporsi a un processo istruito sulla base d'indizi che non erano né pochi né lievi. A stato proprio per questa sottrazione volontaria al giudizib che gli organi deputati all'amministrazione dell'uniformità religiosa avevano cominciato a nutrire il sospetto d'un animo profondamente guastato dalle dottrine dell'errore e complice dei delitti dell'eresia ("depravatus ac male sibi conscius animus"). Dal punto di vista dei principi fondamentali della Chiesa il pontefice afferma dunque che non è proprio possibile avere alcun riguardo per l'istanza presentata dall'imperatore a nome del suo medico personale ("rationem postulanti tui habere non videmur posse"). E poi, nella pratica, come si può pensare seriamente d'istruire e condurre in modo corretto anche un processo per eresia fuori dal suo luogo naturale e senza potersi avvalere dei testimoni diretti, di cui hanno sempre bisogno tanto la difesa quanto l'accusa? Eppure una ragionevole via d'uscita è possibile, un onorevole compromesso che serva ai bisogni del tribunale del S. Offizio è legittimo e perseguibile. Se l'imputato si risolvesse a confessare il suo crimine e a dare conto di tutto quello che ha pensato dolosamente ("quae male sensit") della fede cattolica, e si adattasse ad accettare le forme giuridiche dell'abiura e della condanna del suo passato ("si rite abiurare et danmare induxerit"), il papa potrebbe dare mandato al suo nunzio di assolvere e riammettere nel grembo della Chiesa colui che ha riconosciuto il suo errore e vuole fare penitenza "ex animo".
Era evidente - dalla proposta di Sisto V - che la Curia romana aveva dovuto accettare il punto di vista dell'imperatore. Al pontefice, "per la sua benevolenza e per il suo paterno amore", non restava che dare un avvertimento. A pericoloso per un imperatore cattolico che mostrava "pietas virtus fides" verso la Chiesa affidare le cose sue domestiche a dei servitori e dei ministri che siano sospetti nella fede. Ancora più grave è tenere nella propria casa con funzione di medico un uomo ch'è stato accusato d'eresia. L'eretico è infatti un individuo affetto da una incurabile malattia dell'anima. Come può essere autorizzato a prendersi cura della salute del nostro corpo?.
Ma Rodolfo non sembrò dare alcun credito all'avvertimento pontificio e continuò ad avvalersi come medico personale del D. che, nel marzo del 1588, insieme con don Guglielmo de Haro - ambasciatore di Filippo II di Spagna - condusse in corte Giordano Bruno arrivato a Praga per partecipare ai colloqui con i più eloquenti "conoscitori, giudici, inventori".
Non si conosce la data della morte del Della Lama.
Fonti e Bibl.: Vienna, Österreichisches Staatsarchiv, Polen, Karton 13, fasc. 8 b, 20 luglio 1566, ff. 89r, 92r; I. Pogianus, Epistolae et orationes olini collectae ab Antonio Maria Gratiano nunc ab Hieronymo Lagoniarsino e societate Iesu adnotationibus illustratae ac primuni editae, IV,Romae 1768, pp. 442 s.; L. Amabile, Il S. Officiodella Inquisizione a Napoli, Città di Castello 1892, pp. 303 s.; D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), Firenze-Chicago 1970, p. 114.