Della grande trasformazione del paesaggio
Dopo la Seconda guerra mondiale, scelto l’ordinamento repubblicano con il referendum del 2 giugno 1946, l’Italia opera con la Costituzione due scelte non scontate. La prima è l’originale riconoscimento della tutela del paesaggio come principio fondativo della Repubblica. La seconda è l’articolazione dello Stato per regioni. Nel primo caso, una tradizione legislativa importante, preunitaria e unitaria, in materia di tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio viene originalmente ‘costituzionalizzata’, pur nei limiti di un impianto normativo che difetta per integrazione tra paesaggio e urbanistica, tra le ragioni della tutela e quelle delle trasformazioni. Nel secondo caso, dopo ottant’anni di forte centralismo (bilanciato tuttavia da un forte movimento municipalista), sembra trovare qualche spazio un’istanza regionalista (negata sia dallo Stato liberale sia da quello fascista), pur all’interno di una ripartizione territoriale per molti versi penalizzante.
La storia dell’Italia repubblicana vedrà in gran parte disattesa qualsiasi attenzione al paesaggio, sia rispetto alla tutela (sempre più esercitata in termini residuali e passivi), sia rispetto a una gestione attiva delle sue trasformazioni nelle aree meno pregiate, in una pratica di governo del territorio sempre più indifferente alle ragioni del paesaggio. Nello stesso tempo, l’ordinamento regionale vedrà non solo un’attivazione tardiva, ma anche una veloce disgiunzione da un’istanza regionalista, non riuscendo nemmeno a rispondere a un’ipotesi decentrata di qualificazione delle politiche. Nelle regioni, salvo rare eccezioni e in momenti circoscritti, non emergerà infatti una politica tesa a costruire traiettorie di sviluppo differenziate in ragione di una pluralità di relazioni – ereditate e possibili – tra economia, società, territorio e paesaggio. Di più, la ‘questione del paesaggio’, intesa al tempo stesso come realtà e come immagine, come eredità culturale e come spazio di vita in trasformazione, non troverà spazio né a livello del governo centrale, né a livello dei governi regionali. Anzi, le paure di un conflitto potenziale tra regioni e paesaggio di chi – come Concetto Marchesi (1878-1957) – diede un contributo essenziale alla definizione dell’art. 9 della Costituzione, in qualche misura si concretizzano nell’ultimo ventennio e giustificano le considerazioni assai critiche sul ruolo delle regioni mosse di recente da Salvatore Settis (2010).
Volgere l’attenzione sulla scia di Emilio Sereni (1907-1977) e di Lucio Gambi (1920-2006) al ‘farsi’ del paesaggio italiano e all’evoluzione della cultura del paesaggio nei sessantacinque anni che seguono la Costituzione può forse offrire un contributo rilevante per comprendere le ragioni della non attuazione dell’art. 9 e del rapporto fino a oggi mancato tra paesaggio e regioni. Non solo, nel quadro di una conoscenza ‘cattaneamente’ orientata all’azione, può anche suggerire che una politica di tutela attiva e di riqualificazione e rigenerazione diffusa del paesaggio italiano deve muovere dalla consapevolezza di alcuni profondi differenziali territoriali; una consapevolezza, questa, in grado di incidere sull’agenda e di riconfigurarne il ‘senso’.
Nel corso del dibattito che anima la Costituente (1946-47), il paesaggio italiano non è ancora stato radicalmente trasformato dall’urbanizzazione e dagli effetti della rivoluzione industriale, anche quella riguardante l’agricoltura. Nel territorio rurale è ancora ben riconoscibile una dozzina di grandi famiglie di paesaggi agrari e agroforestali rappresentativi delle diverse modalità e intensità con cui il capitalismo è penetrato nelle campagne. Questi paesaggi segnalano, altresì, storici equilibri costituitisi nel tempo tra società e ambiente, riflettendo spesso qualche forma di sapienza ecologica e codici spaziali condivisi. Entro questi equilibri sono però non di rado iscritte condizioni di povertà che li renderanno particolarmente precari.
Il quadro d’insieme di questa articolazione paesistica è stato descritto nei suoi tratti essenziali tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta da Manlio Rossi Doria (Riforma agraria e azione meridionalista, 1948), Sereni (1961) e Gambi (1973) e poi precisato da ricerche successive. Muovendosi da Nord a Sud si riconosce sulle Alpi un paesaggio ‘latino’ basato su insediamenti accentrati policolturali e una loro articolazione su tre quote altimetriche, a cui si affiancano rare e ben localizzate enclave del modello germanico, con insediamento disperso imperniato sull’istituto del maso chiuso e un deciso orientamento verso l’allevamento. Nella Pianura Padana si confrontano due grandi paesaggi: quello della pianura irrigua e quello della pianura asciutta. Il primo è ormai rimodellato dalla grande impresa capitalista con ampi insediamenti monoaziendali dispersi nelle campagne (la tipologia è quella della grande corte piemontese e lombarda) e con orientamenti produttivi prevalentemente ibridi, dove convivono agricoltura e allevamento stanziale con campi a rotazione tra foraggio e cerali, talvolta contraddetti dal prevalere di qualche coltivazione specifica (la risicoltura tra Piemonte e Lombardia, la bietola da zucchero tra Emilia e Veneto). Il secondo paesaggio, quello della pianura asciutta, è caratterizzato invece dalla presenza di piccole imprese, con forme di affitto poderale o mezzadrile, orientamenti policolturali e prevalenza di insediamenti accentrati a ovest dell’Adda (in corti agglomerate e pluriaziendali) e, per contro, diffusi nella campagna in Emilia e in Veneto. Nella vasta pianura emerge, a macchia di leopardo, il paesaggio della piccola proprietà, spesso collinare, dove la policoltura inizia a essere sostituita da viticoltura, frutticultura e floricoltura specializzata: si pensi alle colline delle Langhe, dell’anfiteatro morenico del Garda, del Veneto o alle piane del Ponente ligure e della Versilia. Nel Centro Italia è ancora visibile l’elaborata costruzione del paesaggio dell’alberato tosco-umbro-marchigiano fondato sulla mezzadria e su uno stretto rapporto del contado con le tante città vicine (con flessioni regionali determinate dal grado di influenza esercitato dalle città, oltre che dalle specificità orografiche) e quello della piccola proprietà della montagna appenninica centro-settentrionale, con le sue coltivazioni policolturali integrate alla gestione del bosco (caratterizzato ora dal castagneto, ora dal pascolo brado, ora dalla produzione di legname).
Tra Centro e Sud Italia, lungo le coste e in qualche piana, si alternano zone con regimi terracquei confusi, con pascolo transumante e recenti ambiti di bonifica. Al Sud si segnala innanzitutto la contrapposizione tra il paesaggio nudo del grande latifondo cerealicolo (senza alberi, con grandi borghi rurali e case sparse) e quello fittamente alberato e abitato delle zone a frutticoltura, con insediamento sparso ed elementi paesistici risalenti alla tradizione del giardino mediterraneo. A questi due paesaggi più noti se ne affiancano altri quattro: quello del latifondo contadino di alta collina (segnato dalle più pesanti condizioni di miseria e da pratiche d’uso incuranti del suolo); quello di non poche zone agricole, dove nel corso dell’Ottocento si sviluppò una più moderna impresa capitalistica (distinta dalla coltura dell’ulivo abbinata alla coltivazione di cereali e ai pascoli) con le relative masserie; il meno frequente paesaggio delle aree di coltura promiscua, prevalentemente appoderata e caratterizzata da piccoli proprietari o affittuari, con insediamenti sparsi; infine il paesaggio della montagna, ora denudata dal pascolo transumante, ora segnata dal bosco coltivato con pascolo brado.
Anche osservando le città, la situazione paesistica non è totalmente stravolta. La loro collocazione nel territorio evidenzia ancora uno stretto legame con l’orografia (con frequenti disposizioni dei centri a crinale) e con i tracciati territoriali delle strade e della rete idrica che ne delineano non solo la localizzazione, ma anche la morfologia. Certo, alcune città sono cresciute tumultuosamente oscurando questi elementi, ma in quasi tutte prevale un paesaggio urbano consolidato fatto di edilizia chiusa, con strade scavate nelle facciate continue degli edifici, un paesaggio urbano in cui si può ancora leggere la relazione tra monumenti, spazi aperti e tessuti, non solo negli estesi nuclei storici, ma anche nei più invasivi interventi di demolizione e ricostruzione e in non poche aggiunte periferiche. Ossia permangono tutti quegli elementi costitutivi del paesaggio della città europea e italiana – ben tratteggiati nelle visioni d’insieme di Françoise Choay (Espacements. Figure di spazi urbani nel tempo, 2003), Leonardo Benevolo (La città nella storia d’Europa, 1993), Cesare De Seta (La città europea dal XV al XX secolo, 1996) e Giancarlo Consonni (Dalla radura alla rete, 2000) – come pure quegli elementi d’individualità urbana che ancora nella seconda metà degli anni Cinquanta sono stati magistralmente restituiti dal viaggiatore Guido Piovene (Viaggio in Italia, 1957).
In quegli stessi anni permane ancora una storica articolazione macroregionale tra l’Italia centro-settentrionale, dei molti comuni e delle strette relazioni tra centri urbani e contadi, e quella meridionale, di campagne isolate senza alcun rapporto con le rade e grandi città. Una differenziazione che si riflette nella presenza costante di una città all’orizzonte dello sguardo, nel carattere dell’architettura e delle sistemazioni del suolo rurale e – naturalmente – nella diversa composizione dei tessuti urbani. A questa storica differenziazione segnalata tra Sette e Ottocento da Gaetano Filangeri e da Carlo Cattaneo, e su cui torneranno Francesco Compagna (La politica della città, 1967) e Gambi (Da città ad area metropolitana, in Storia d’Italia, 1972-76), se ne affiancano altre: per es., quelle tra un Mezzogiorno caratterizzato da una rete urbana più ricca, come nelle Puglie e nella Sicilia orientale, e uno nel quale il fenomeno urbano è più rado, come nel contesto laziale, campano, lucano o calabrese; o quella di un’Italia centrale con maggiori dotazioni civili e tradizioni urbane artigiane e connotante il tono dei relativi contadi, rispetto a un Veneto o a una Lombardia con una più forte matrice rurale degli stessi piccoli centri, segnati – semmai – dalla relazione non subordinata alla città di una campagna precocemente agroindustriale.
Entro questo quadro – relativamente stabile e coeso – hanno trovato manifestazione i non pochi segni del nuovo che, con sempre maggior forza, si manifestano dopo l’Unità; in altri termini, i tratti nuovi del paesaggio, pur rilevanti, rappresentano inserti o addizioni del preesistente ordito paesistico. Elementi, questi, che talvolta dialogheranno con le preesistenze (per contrasto o per adeguamento) o, in altri casi, non avranno alcuna relazione, ma che salvo rare eccezioni non riusciranno a generare nuovi quadri paesistici con un codice riconoscibile. In campagna si segnala la presenza di impianti idroelettrici, di tracciati ferroviari nelle valli alpine, di nuove strade e ferrovie dell’Italia peninsulare, che con le loro frazioni-scalo cominciano a ribaltare i rapporti tra interno e costa e tra colle e valle. Si pensi pure alla geografia puntuale di molti impianti industriali che, lungo i fiumi e a ridosso dei borghi rurali, complessificano il paesaggio della pianura asciutta padana e di alcune conche dell’Italia centrale. Nelle città, i segni del nuovo sono sicuramente più numerosi. Ovunque si segnalano sostituzioni edilizie lungo la maglia stradale, piazze aperte nei tessuti centrali – nel quadro di uno spazio urbano tuttavia ancora continuo, capace di combinare le esigenze di contatto a quelle sceniche e di circolazione – e i nuovi sistemi spaziali delle circonvallazioni e dei viali delle stazioni. Molte nuove attrezzature civili arricchiscono il paesaggio urbano: l’ospedale preunitario e più ampie strutture sanitarie successive, la scuola umbertina e quella del Ventennio, nonché un gran numero di impianti sportivi costruiti tra le due guerre, quasi sempre legati al tessuto preesistente da alcuni assi stradali d’accesso e da un più complesso tentativo di disegno urbanistico. Nelle città, ovviamente, si segnalano anche le più ampie espansioni, quasi sempre connotate dalla ripetizione di un’edilizia chiusa lungo la strada e – più raramente – una aperta (a villini, a palazzine o per mezzo di casoni più popolari), che tuttavia si organizza a isolato con disposizioni al suolo, recinzioni e vegetazioni che in qualche misura reiterano l’effetto della città continua.
Dunque, i nuovi elementi – per quanto consistenti – nella maggior parte dei casi si possono leggere come aggiunte di più stabili paesaggi preesistenti. Certo, la loro frequenza non è omogenea nei diversi territori del Paese, ma in alcuni ambienti essi sono particolarmente significativi. Innanzitutto, in una ventina di grandi città che hanno conosciuto i maggiori tassi di crescita demografica (tra cui Milano, Roma, Napoli, Torino, Bari, Catania, Genova, Firenze, Trieste, Palermo, Bologna), ma pure in molti centri minori che hanno visto un prepotente sviluppo industriale o di nuove infrastrutture ferroviarie e portuali (tra cui La Spezia, Pistoia, Sesto San Giovanni, Torre del Greco, Terni, Brescia, Como, Taranto, Varese), e in non poche realtà urbane del Centro-Sud nelle quali, per l’arrivo della ferrovia o l’elevamento a capoluogo provinciale, si assiste a un innalzamento di rango delle funzioni rispetto all’accresciuto territorio di pertinenza (Marsala, Ragusa, Modica, Rieti, Pescara). Il ‘nuovo’ è significativo anche in tutte le valli e le coste del Paese, dove l’intreccio tra moderne infrastrutture, bonifiche, sistemazioni idrauliche e dei suoli, insieme a contenuti fenomeni d’industrializzazione innescano un ribaltamento di ruoli con i territori collinari. E lo è, in ultimo, in alcune campagne densamente abitate e fortemente intrecciate ai centri medi, in cui già ora si riconosce un modello d’industrializzazione diffuso e non saldato a una massiccia urbanizzazione. È quanto si riscontra nel Canavese, in Brianza e nel Legnanese, nei piani alti e nelle valli prealpine biellesi o lombarde o in alcune conche toscane, dove un originale intreccio tra economia, società e territorio sta esprimendo un nuovo paesaggio (come nella straordinaria sequenza fluviale di impianti industriali pluripiano del Biellese, o nei più osmotici opifici dei borghi brianzoli).
In questo quadro si segnalano quei pochi contesti nei quali la frequenza delle modificazioni e la varietà dei nuovi materiali insediativi saranno invece tali da delineare un nuovo quadro paesistico, nuovo non solo nella sua composizione materiale e fattuale, ma anche nelle immagini e nelle rappresentazioni che vi verranno associate. Sono sicuramente i territori ‘progettati’ unitariamente della bonifica e dei centri urbani a essi connessi (in primis la Maremma grossetana e il territorio di Latina), ma anche i territori, certamente disegnati in forma meno unitaria, di alcuni sistemi vallivi alpini, dove la nuova organizzazione infrastrutturale, agricola e industriale si impone nella sua sistematicità creando un nuovo quadro d’insieme (che convive con il forte spopolamento delle terre alte e lo sbriciolarsi di quello storico). Un nuovo paesaggio emerge soprattutto nelle cinture industriali di Milano-Sesto San Giovanni, Torino, Genova-Pegli e in qualche misura della stessa Napoli-Torre del Greco. Un dinamismo delle periferie delle principali città italiane, che cattura l’attenzione del futurismo e la sua stessa idea di paesaggio urbano e che investe anche alcune città minori quasi inventate dallo sviluppo industriale e infrastrutturale, come La Spezia, Biella, Terni, Pistoia o Piombino. Infine, un diverso quadro paesaggistico emerge laddove i volumi residenziali, indipendentemente da fenomeni di riorganizzazione rurale e di sviluppo industriale, assumono un’estensione e un ordinamento tali da imporsi come scena di vita quotidiana. Per es., nei più estesi e coerenti ampliamenti urbani organizzati sulle maglie stradali regolari e isotrope che caratterizzano i piani regolatori fino alla Seconda guerra mondiale. In tali ambienti, con una solida edilizia allineata sulle strade, trova ancora sintesi un’idea ottocentesca di decoro civile dello spazio urbano e un’istanza moderna per quell’abitare più intimistico propria della nuova borghesia urbana. Un nuovo quadro emerge – pure con riferimento a una diversa condizione sociale – nella periferia non industrializzata romana e di alcune grandi città meridionali, dove le più precarie condizioni di vita non vengono nobilitate entro le visioni eroico-macchiniste del futurismo (ma saranno disvelate solo dal neorealismo del dopoguerra). Infine, tale nuova massa edilizia sembra produrre un diverso quadro paesaggistico anche in una manciata di città turistiche (come Sanremo, Viareggio, Rimini o Sorrento), dove le strutture ricettive diventeranno motore di una più estesa e lineare città turistica in formazione.
Ciò che appare certo è che nelle sue differenti componenti il paesaggio italiano esprime una varietà territoriale che non ha paragoni con nessun altro Paese europeo. Giovinezza geologica, disomogeneità della geografia fisica e lunga durata della storia di popolamento e delle vicende socioeconomiche contribuiscono a determinare un intricato mosaico paesaggistico. Una varietà poco coerente con le partizioni statistiche che informeranno nel 1948 i confini delle nuove regioni istituzionali. È una varietà che si esprime a una grana più fine – subregionale e provinciale – a cui non di rado si associano identità storico-geografiche e appartenenze locali (ci si sente sempre delle Langhe o milanesi, mai piemontesi o lombardi, come affermerà lo stesso Luigi Einaudi sulla scorta di Cattaneo nel pieno dei lavori della Costituente).
La cultura del paesaggio, che ne alimenta il riconoscimento costituzionale, esprime l’idea che esso sia un fattore di unità culturale della penisola, nella prospettiva del ‘bel Paese’ che da Dante (1265-1321) arriva ad Antonio Stoppani (1768-1815). Ossia, che il patrimonio storico-culturale, più di altri elementi, sia a fondamento dell’Unità nazionale e che esista un intreccio indissolubile tra la qualità del patrimonio storico-culturale e le forme dei territori che lo ospitano (dalle relazioni dirette tra i siti archeologici, gli edifici monumentali e l’ambiente circostante, a quelle indirette esistenti tra la grande pittura paesaggista italiana e i paesaggi reali).
In alcune più elaborate riflessioni – come quelle di Gustavo Giovannoni (Vecchie città ed edilizia nuova, 1931; Piani regolatori paesistici, «Urbanistica», 1938, 5) – si fa largo non solo un pensiero ‘relazionale’ che lega un bene eccezionale a un contesto più generale, ma pure l’idea che esista e vada tutelato un codice spaziale che in Italia ha garantito elevati valori formali, condizioni di convivenza, di armonia e – soprattutto – di memoria; e che tutto ciò possa godere di una tutela attiva come quella espressa da un piano paesistico. A questa tradizione – raccolta da Giuseppe Bottai nei lavori preparatori delle leggi del 1939 (l. 29 giugno 1939 nr. 1497 e l. 1° giugno 1939 nr. 1089), a cui partecipano tra gli altri Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, Marino Lazzari, Mino Maccari, oltre allo stesso Giovannoni e al giurista Santi Romano – si devono due grandi contributi. Innanzitutto, un’idea di patrimonio culturale che, come ha osservato Settis (2010), si contrappone all’individualismo proprietario rifacendosi invece a valori collettivi, all’idea che i legami di responsabilità sociale derivino dal riferimento a un comune retaggio di cultura e memoria. La consapevolezza dell’esistenza di una stretta relazione tra la qualità del patrimonio storico-artistico nazionale e quella dei territori che lo ospitano (un pensiero relazionale, questo, che informerà un’idea di paesaggio inteso come bene comune) si salda alla precoce consapevolezza della minaccia di una trasformazione incontrollata e distruttiva legata allo sviluppo del nostro Paese e infine a un originale impegno civile. In secondo luogo, sulla scia di Giambattista Vico (1668-1744), Giacomo Leopardi (1798-1837) e Cattaneo, un’originale capacità di leggere nel paesaggio l’intreccio indissolubile e specifico tra natura e artificio, tra geologia e storia, andando così ben oltre la prospettiva del paesaggio come pura percezione estetica o all’opposto come sola condizione di natura. L’interesse per questo intreccio segnerà non solo quella cultura umanistica, artistica e letteraria che elaborerà e perfezionerà uno specifico e distintivo approccio al paesaggio (da Benedetto Croce a Longhi, da Brandi ad Andrea Emiliani), ma anche successivamente i più originali studi urbanistici e la ricerca socioeconomica, agroforestale e geografica sul territorio.
Da questa ‘radice’ nascono tuttavia anche alcune specifiche difficoltà del discorso sul paesaggio in Italia. Nel solco della riflessione su paesaggio, patrimonio ed elemento identitario della nazione, si sviluppa infatti la tendenza – ancora non del tutto dissolta – a far propria una concezione idealistica e universalizzante della cultura, in tensione con un approccio plurale e interpretativo. Da ciò, due conseguenze. La prima, l’affermarsi di una matrice parzialmente elitaria e centralista di questa cultura che, sebbene non impedisca di cogliere le differenze (micro)regionali dei paesaggi italiani, porterà a vedere nello stesso ordinamento regionale una minaccia, ma anche a mancare in più di un’occasione l’incontro con il riformismo municipale. La seconda conseguenza rimanda a una certa difficoltà dei fautori della tutela a riconoscere le ragioni potenti di riscatto economico e di diffusione del benessere, e non esclusivamente quelle di egoismo proprietario, che da lì a poco avrebbero portato non solo una pattuglia di speculatori e cattivi amministratori, ma anche una buona parte degli italiani appena usciti dalle condizioni di miseria delle campagne a stravolgere il paesaggio ereditato. Da ciò, una tendenza a ipostatizzare nella tutela i paesaggi ereditati e una difficoltà a gestirne in modo attivo e costruttivo la loro evoluzione.
Nell’immediato dopoguerra è il primo tratto a disvelarsi con più forza. Lo si coglie nel dibattito della Costituente e nello scarto quasi contrappositivo tra regionalisti e fautori dell’art. 9; si pensi all’incomunicabilità tra posizioni come quelle di Marchesi e Aldo Moro (1916-1978), entrambi fautori dell’art. 9 e preoccupati di una possibile reazione regionalista, e quella di Emilio Lussu (1890-1975), convinto che la tutela possa tradursi in una scelta centralista. In effetti, il ‘senso’ del paesaggio appartiene in questi anni a una élite d’intellettuali di formazione umanistica e, paradossalmente, in forma per lo più implicita, a quel mondo contadino ancora vivo che da lì a poco nutrirà le fila dei ‘vinti’ e che tuttavia con il paesaggio intrattiene relazioni contraddittorie, costruendolo con sapienza artigianale, curandolo e mantenendolo con dovizia, ma anche sentendolo come la scena di una vita dura dalla quale fuggire. La questione del paesaggio non ha segnato che marginalmente la cultura della nuova borghesia urbana e nemmeno quella del mondo dei lavoratori. Il nuovo paesaggio non si fa valore ‘repubblicano’, come accade in Francia, e non diviene neppure ‘istanza riformista’ per un ambiente salubre e bello per i lavoratori, come accade nel movimento operaio inglese o tedesco. Nella costituzione materiale del Paese il paesaggio non è stato riconosciuto come un bene comune, ma con il passare degli anni come un bene posizionale di cui ‘gelosamente’ appropriarsi individualmente o da sfruttare ‘democraticamente’ fino allo sfinimento e al degrado.
Il secondo tratto, invece, non sembra ancora manifestarsi in tutta la sua problematicità; le trasformazioni sono ancora contenute e la politica del paesaggio sembra potersi risolvere in due mosse. Da un lato, l’individuazione di alcuni territori ‘d’eccezione’ in cui le innovazioni devono avvenire in misura limitata e controllata: alcuni siti archeologici, l’intorno di alcuni monumenti, gli ambiti naturali di grande rilievo (la pineta di Ravenna, i giardini di alcune ville storiche) fino ad arrivare, nel corso del Novecento, a estendere questa idea di tutela agli interi centri storici e ad alcuni ambiti più complessi (la Costiera amalfitana, le colline di Fiesole). Dall’altro, la definizione delle modalità di inserimento del ‘nuovo’ in questi contesti, attraverso una teoria dell’ambientamento che ha già trovato in Giovannoni una lucida definizione, ma che proprio nel dopoguerra vedrà originali riproposizioni. Nel farsi della Costituzione repubblicana le questioni sembrano tutto sommato ancora semplici: territori da tutelare (e in cui ogni inserimento dovrà essere ambientato), nuovi sviluppi per addizione o inserti, che potranno liberamente darsi purché non siano invasivi. Non del tutto chiara, invece, la consapevolezza che era stata di Giovannoni e poi dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU), della necessaria integrazione tra tutela e sviluppo alla scala regionale, stante gli sviluppi sempre più aperti ed estesi dell’urbanizzazione.
Nel periodo tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta si dispiega nella sua massima forza un fenomeno di urbanizzazione caratterizzato da un grande esodo rurale di masse diseredate e da una forte crescita della città compatta. In tutti i capoluoghi provinciali cresce la quota della popolazione urbana sul complesso della provincia, poche grandi città assorbono buona parte della crescita di una nazione che rimane in tutta questa fase ancora un Paese di emigrazione (e la città lontana sarà ancora per molti quella di un altro Paese europeo). A Roma e nelle realtà di Milano e Torino, che insieme a Genova trainano il ‘miracolo’ italiano, la crescita della popolazione si fa tumultuosa e investe i comuni della cintura (tra il 1951 e il 1961 la sola città di Milano cresce del 24,2%, mentre con i comuni di prima fascia si arriva al 30%).
A questa urbanizzazione si associano una diffusa crescita dei redditi, in particolare di quelli urbani (con la specificità, tutta italiana, di una quota più elevata di consumi privati rispetto agli investimenti) e un mutamento nella composizione della struttura economica che ha profonde implicazioni con i processi territoriali. Il PIL del settore privato è, da questa prospettiva, indicativo: l’agricoltura scende dal 23,5% nel 1951 al 15,7% nel 1963, il settore industriale nello stesso periodo passa dal 33,7% al 43,8%, divenendo il settore trainante della modernizzazione del Paese. La drastica riduzione degli addetti in agricoltura e la impetuosa crescita dell’occupazione industriale sono anche espressione dell’affermarsi di un modello di impresa manifatturiera prevalentemente urbano-fordista (concentrato in settori dinamici come quelli dell’auto, della meccanica e delle industrie chimiche) e di un sensibile incremento del grado di meccanizzazione del lavoro agricolo (dove all’indebolirsi delle tradizionali colture cerealicole fa riscontro il rafforzamento di quelle arboree e specializzate). Alla crescita dell’occupazione urbana industriale si affianca un incremento dei posti di lavoro nel terziario (in particolare nel commercio al minuto), nella pubblica amministrazione, che contribuirà a rafforzare lo sviluppo di organizzazioni complesse (con la proliferazione, per es., di enti settoriali e speciali), e più modestamente nel settore del credito e delle assicurazioni.
Il forte aumento della popolazione e degli addetti nelle principali città crea nuove e più robuste tensioni sul mercato immobiliare urbano e, in particolare, nei centri storici, segnati da numerosi interventi di demolizione e densificazione, oltre a generare sempre più estese periferie urbane (con i quartieri dormitorio e le nuove offerte per il ceto medio), cresciute a macchia d’olio o in relazione ad alcune direttrici territoriali. È in questi ambienti che si manifesta un nuovo paesaggio urbano, punto di arrivo dei movimenti spaziali, sociali ed economici di molti italiani e quadro fisico entro cui maturano stili di vita inediti e pratiche abitative inconsuete.
Lo spazio del lavoro vi esercita un ruolo non marginale. Le nuove attività di servizio occupano talvolta edifici storici con importanti adeguamenti, più spesso generano sostituzioni attorno a qualche direttrice, non pochi edifici a torre e – in qualche più raro caso – un accenno di quartiere direzionale. È soprattutto la grande industria con i suoi complessi impianti recintati a caratterizzare gli orizzonti della periferia metropolitana e – assieme al decentramento di alcuni edifici terziari – a trasformarsi in spazio d’incontro e di scambio, ma pure di conflitti tra popolazioni di differente provenienza e status socioeconomico (si pensi alla canzone “Vincenzina e la fabbrica” del 1974 di Enzo Jannacci, ma anche all’immagine del megaufficio, teatro delle avventure fantozziane), mentre per anni lo spazio del commercio reitera con moderate innovazioni (i grandi magazzini) modelli spaziali e pratiche relazionali del passato (dal mercato all’aperto alle latterie).
Il nuovo paesaggio è soprattutto dettato dall’enorme mole di edilizia residenziale realizzata in questi anni. Sono le case dei ceti popolari, con tipologie sempre più aperte e liberamente disposte rispetto alla strada, che segnano le diverse stagioni dell’intervento pubblico nelle periferie urbane. Dapprima i quartieri dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, INA-Casa (La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta, a cura di P. Di Biagi, 2001), soluzione di compromesso tra una disposizione aperta e una spazialità più tradizionale, e in seguito i quartieri delle aree ‘167’, con edifici più monumentali e liberamente disposti su un suolo assai meno articolato e curato. Sono le aggregazioni più esterne di case autocostruite da un variegato ceto immigrato, escluso dal mercato urbano, che nelle borgate romane e nelle Coree milanesi trovano gli esempi più noti (F. Alasia, D. Montaldi, Milano Corea: inchiesta sugli immigrati, 1960; F. Ferrarotti, Roma da capitale a periferia, 1970). Ma sono ancor più gli interventi sorretti da agevolazioni fiscali e da ingenti finanziamenti pubblici destinati a un ceto medio per il quale diviene decisiva la proprietà della casa in città (ossia la possibilità di avvantaggiarsi della sua costante crescita di valore nel tempo) e che producono un paesaggio abitativo nuovo, sia per sostituzione di pezzi di città esistente sia per ulteriori consistenti addizioni, il disordinato «ammasso» di nuovi edifici, secondo la felice espressione di Marcello Fabbri (L’urbanistica dal dopoguerra a oggi: storia, ideologie, immagini, 1983). Un’edilizia che parla, da un lato, della democratizzazione di un nuovo intimo e rappresentativo spazio interno, precedentemente appannaggio di un segmento della popolazione assai più limitato; dall’altro, specialmente nelle città più grandi, di un’articolazione dei modelli dell’abitare (dall’edificio alto al complesso di condomini con giardino e dotazioni comuni) in un’edilizia che si fa – anche in questo caso – sempre più aperta (Storie di case. Abitare l’Italia del boom, a cura di F. De Pieri, B. Bonomo, G. Caramellino, F. Zanfi, 2013).
Più ambiguo sembra essere il ruolo dello spazio pubblico. Lo spazio aperto – la strada, la piazza, il parco – sarà quasi dimenticato da questa corsa alla casa in città che caratterizzerà gli anni del boom, probabilmente per la somma di tre ragioni: politiche (prevalenza di élites più interessate a favorire la conquista individuale del bene-casa, piuttosto che a una più generale condizione di comune urbanità), culturali (volontà di allontanarsi dalle ingombranti retoriche di celebrazione dello spazio pubblico del fascismo) ed economiche (rilancio del ruolo della rendita nei processi di accumulazione).
Semmai, l’attenzione della ‘cultura del progetto’ e quella delle amministrazioni saranno volte a realizzare attrezzature e servizi – scuole soprattutto, ma anche ospedali e impianti sportivi – che non erano parte del progetto di sviluppo delle residenze (come racconta il film del 1974 di Ettore Scola C’eravamo tanto amati) e che vengono faticosamente conquistati spesso grazie a mobilitazioni collettive che produrranno esiti significativi soprattutto durante gli anni Settanta. Queste attrezzature rimarranno tuttavia quasi sempre la sommatoria di edifici isolati, infelicemente localizzate là dove il suolo costa meno, e quasi sempre prive di un qualificato disegno dello spazio aperto che le circonda. I servizi, insomma, arrivano dopo e rappresentano un inserto incapace di fare paesaggio e di costruire condizioni di nuova urbanità.
In sintesi, se il netto prevalere dell’edilizia aperta è un tratto che accomuna le periferie delle città italiane a quelle di tutta Europa, il suo timbro distintivo è innanzitutto quello di un impietoso contrasto tra la finissima articolazione dello spazio collettivo proprio della città storica e l’estrema povertà (il degrado, quasi) che segna gli spazi aperti di quelle che sono state le espansioni del secondo dopoguerra. Un secondo elemento distintivo è dato da una sempre maggior cura verso gli spazi interni e da un crescente disinteresse verso gli spazi esterni. Tale dato nasce da quanto detto in relazione a una crescita trainata dai consumi individuali e che si riflette nella divaricazione sempre maggiore tra qualità della cultura del design (prodotti finalizzati all’arredo delle case private) e dequalificazione professionale della cultura urbanistica e della progettazione del paesaggio.
Quasi come controcanto a queste trasformazioni, gran parte delle campagne – in particolare quelle collinari e di montagna, le colline tutte con i loro centri di crinale, le valli alpine minori con i loro borghi di mezzacosta, le aree interne e montuose dell’Italia peninsulare e meridionale con i loro straordinari paesi-presepe – si fanno invece paesaggi silenziosi e ingessati. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta le popolazioni se ne vanno, le attività economiche si contraggono, tuttavia il paesaggio sembra ancora reggere. Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Luigi Meneghello, Rocco Scotellaro, ma anche Giuseppe Taffarel con i suoi straordinari documentari, come la serie televisiva “Fazzoletti di terra” del 1963 lo testimoniano. Ciò sembra rispondere all’inerzia insita nelle dinamiche che investono le strutture del paesaggio; ma è anche il risultato di un’attività agricola, della cura e della manutenzione del suolo che per lungo tempo impegneranno gli anziani rimasti nelle terre alte e nei contesti dell’interno.
Del resto, anche nelle campagne più produttive l’avvento di nuove tecnologie, insieme alla crisi delle vecchie relazioni sociali, non scardineranno certo in un sol colpo il precedente paesaggio. Nell’Italia centrale stanno progressivamente scomparendo la mezzadria e le tradizionali relazioni di scambio commerciale tra contado e città, ma non tramonta ancora il paesaggio che le ha a lungo ospitate; nella Bassa padana il trattore e i concimi chimici stanno svuotando le cascine e allargando i campi, ma non c’è ancora una radicale metamorfosi del volto delle campagne. Solo in alcune zone, quelle con le acclività più forti e con lo spopolamento più radicale (come in molti versanti delle Alpi piemontesi), si notano già i segni di un rimboschimento, che investirà le campagne italiane nella fase successiva. Il grosso del territorio rurale sembra dunque mantenere i tratti (e i valori formali) dei paesaggi agrari storici. Solo in due situazioni essi sembrano scomparire per sempre: nelle zone paludose costiere – definitivamente bonificate – e nella piantata della Pianura Padana asciutta che, perlomeno nella sua sezione lombarda, così fortemente legata alla gelsicoltura, scompare negli anni Cinquanta trasformandosi in campagna nuda e in via di urbanizzazione.
Ciò che distingue questo mondo quasi immobile è semmai la sua progressiva trasformazione in teatro di una nuova esperienza paesaggistica: quella che nasce dalla più facile possibilità di attraversarlo non solo lungo poche direttrici ferroviarie, osservandolo lateralmente dal finestrino del treno, ma con una visione frontale, attraverso il parabrezza delle tante auto private che iniziano a diffondersi con una progressione senza pari in Europa. Un paesaggio che qua e là sarà segnato dall’inserimento dei nuovi tracciati autostradali, con i loro ponti, svincoli e autogrill, e che – nella quasi totalità dei casi (differentemente da quanto accade in Svizzera, Germania e Francia) – non sarà pensato come architettura e come paesaggio, ma solamente come spazio tecnico autoreferenziale, metafora di un progresso che si sostituisce a un mondo obsoleto.
Se il motivo di fondo del divenire del paesaggio italiano è dunque quello della contrapposizione tra un’espansione della città compatta – con l’emergere di un inedito paesaggio urbano – e una campagna quasi immobile, l’esplorazione del territorio in questa fase racconta anche di altri paesaggi e di altre storie, ora laterali e precocemente interrotte, ora quasi carsiche e destinate a riemergere e imporsi negli anni.
Innanzitutto, vi è un pezzo di campagna che conosce una trasformazione più radicale e che non ha a che fare con il suo abbandono. Si tratta, da un lato, dei comprensori della riforma agraria e dell’ultima stagione delle bonifiche; dall’altro, di quelli della specializzazione agricola intensiva. Due insiemi territoriali che conoscono alcune significative sovrapposizioni, ma anche una notevole autonomia. Il paesaggio della riforma agraria con prevalenza d’insediamento diffuso, caratterizzato da poderi di medio-piccole dimensioni nelle terre marginali, sarà destinato a farsi rudere. Viceversa, le aree più fertili e meglio attrezzate da opere d’infrastrutturazione diffusa della prima stagione d’intervento della Cassa del Mezzogiorno diventeranno uno dei teatri della nuova agricoltura intensiva e di un paesaggio inedito legato esclusivamente alla frutticoltura e all’orticoltura, che proprio in questi anni Cinquanta e Sessanta cominciano a conquistare spazio non solo nelle piane e nelle strisce costiere centro-meridionali, ma anche in gran parte della pianura romagnola, del pedemonte emiliano, veronese e vicentino, del fondovalle dell’Adige, nonché in alcuni sistemi collinari centro-settentrionali.
Una seconda storia laterale è quella dove il binomio tra grande impresa e grande città non si realizza, vuoi per l’esistenza di grandi imprese che operano fuori dai contesti urbani, vuoi per le dinamiche di territori che vedono la presenza di piccole e medie imprese che anticipano quella modalità di ‘sviluppo senza fratture’ che si imporrà di lì a pochi anni.
Nel primo caso si pensi alla Olivetti a Ivrea e nel Canavese, alla Zegna nel Biellese, alla Ferrero ad Alba e nelle Langhe e a quanto alla loro azione si leghi un’idea assai originale di organizzazione del rapporto tra impresa, città e territorio. Nel secondo caso si pensi alla forza che già il distretto del mobile brianteo, con la sua precoce differenziazione settoriale, imprime in forma dirompente sul paesaggio o alle dinamiche dei distretti di Lumezzane, di Montebelluna, di Carpi, Sassuolo e Prato. Nel primo caso si delinea un’originale organizzazione spaziale, dove la grande impresa si dirama nella campagna e al tempo stesso riformula e consolida le sue tradizionali attività in un abbozzo di paesaggio urbano-rurale inedito, che non distrugge il vecchio, ma lo innova con coraggio, diventando radicale alternativa di sviluppo nel Canavese, a seguito di una originale politica economica-urbanistica promossa da Adriano Olivetti (1901-1960). Si tratta, per certi versi, di una storia interrotta, precocemente dimenticata e solo in tempi recenti recuperata in chiave di soft economy per ripensare al nesso tra territorio e medie imprese, legate al made in Italy e a un diverso rapporto tra industria e paesaggio, turismo e agricoltura. Nel caso dei distretti, invece, non si tratta d’altro che di un’anticipazione di un processo di mobilitazione individuale che caratterizzerà assai più estesamente i decenni successivi e che tuttavia, se precocemente colto, avrebbe forse potuto essere orientato verso un’organizzazione territoriale più efficace ‒ oltre che verso la formazione di un nuovo codice spaziale maggiormente condiviso attraverso una regolamentazione che ne valorizzasse l’iniziativa di famiglie-imprese ‒ ma al tempo stesso verso quell’orizzonte comune che è appunto il paesaggio.
Per comprendere entrambe le dinamiche d’industrializzazione, ma anche l’evoluzione senza fratture di altri paesaggi, conta richiamare un fenomeno più generale: la tenuta della ‘Italia borghigiana’ – per usare una felice espressione di Giuseppe De Rita (Composizione sociale e borghesia: un’evoluzione non parallela, in A. Bonomi, M. Cacciari e G. De Rita, Che fine ha fatto la borghesia?, 2004, pp. 38-68) che allude a una struttura socioterritoriale, ma anche a un’atmosfera culturale e civile di provincia – ossia di una fitta trama di piccole e medie città diffuse nelle campagne. Una maglia di centri, ora capoluoghi di provincia, ora tradizionali centri di gravitazione privi di funzioni amministrative, che vedono una contenuta crescita demografica, una vita intellettuale vivace non metropolitana, la presenza di banche radicate nel territorio a servizio dell’economia locale, il dinamismo di un ceto medio produttore capace di nuove iniziative imprenditoriali. Centri nei quali, in ragione del buon governo municipale (spesso espressione di forti subculture politiche democristiane e comuniste) e di una destinazione a pioggia degli investimenti pubblici, viene a depositarsi una significativa quota della politica infrastrutturale nazionale: un piccolo quartiere INA-Casa, una nuova scuola superiore, un nuovo ospedale o l’ampliamento di quello esistente, nuovi servizi sportivi.
Accanto alla crescita urbana delle città compatte si distinguono più estesi fenomeni conurbativi, prontamente colti da geografi, urbanisti e sociologi. Una crescita in estensione dell’urbanizzato che assume già caratteri plurali. In alcuni casi si tratta di aree metropolitane in formazione (a Milano e Napoli, più debolmente a Torino, Genova, Bologna e Firenze); in altri casi di originali allineamenti dell’urbanizzato lungo pedemonti, fondovalle e coste investiti da dinamiche di sviluppo industriale (come il contesto varesino-comasco-lecchese, quello delle valli bergamasche, della Toscana costiera o degli assi di sviluppo più settentrionali dell’area della Cassa del Mezzogiorno, oltre ad alcuni grandi poli industriali costieri in Sicilia o in Puglia); in altri ancora si tratta di insediamenti costieri connessi con l’affermarsi prepotente del primo turismo di massa (la costa ligure, quella romagnola, la Versilia, l’area di Taormina). Un’urbanizzazione, quella costiera e valliva, che sembra talvolta divorare un suolo pregiato, fino al giorno prima valorizzato per un’agricoltura intensiva.
Infine, sono proprio i luoghi del turismo costiero – insieme a quello, certo più limitato, dell’alta montagna – oltre alle nuove strade e autostrade, a definire una discontinuità del paesaggio prima sconosciuta, una scena di vita inedita esemplarmente restituita nel film Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Di questi paesaggi dà conto un altro viaggio giornalistico, quello di Giorgio Bocca (La scoperta dell’Italia, 1963). A pochi anni da quello di Piovene, non è più una geografia delle differenze a colpire il cronista-viaggiatore, ma quella di nuovi e assai più omologanti riti di massa di cui divengono simboli ‘la Lambrate sul Tigullio’ e il processo di ‘rapallizzazione’ delle coste.
Nel quadro di queste trasformazioni la sintesi ‘giovannoniana’ tra esigenze di tutela e gestione dei nuovi processi di urbanizzazione progressivamente si incrina ed esplode. Da un lato, la teoria dell’ambientamento trova negli anni Cinquanta originali sviluppi negli scritti e nei progetti di Roberto Pane (1898-1987), con la sua idea di una trasformazione possibile nei centri storici, pur nel rispetto dei rapporti volumetrici; di Mario Ridolfi (1904-1984), con il suo costitutivo riferimento alle tecnologie e ai saperi artigianali e costruttivi locali; di Saverio Muratori (1910-1973), autore di una particolare impostazione strutturalista nella lettura dei centri storici e del territorio e di un’idea di trasformazione che rispetti i principi di organizzazione morfologica dell’urbanizzato e quella tipologica degli edifici; di Nathan Rogers (1909-1969), a cui si deve un’insolita riformulazione dell’idea di progetto del nuovo, che dovrebbe muovere dalla lettura del contesto e delle preesistenze anziché da modelli predefiniti ed essere basata su una forte attenzione agli aspetti linguistici (Durbiano, Robiglio 2003). Con ancor maggiore originalità le riflessioni e i progetti architettonici e urbanistici degli anni Cinquanta e Sessanta di autori quali Giuseppe Samonà, Ludovico Quaroni e Giancarlo De Carlo cercano una pertinenza multidimensionale al contesto locale, con riferimenti alle strutture economico-sociali e alle pratiche abitative, mentre la prassi trasformativa di Olivetti nel Canavese (o a Pozzuoli) testimonia una ricerca parallela sul corretto inserimento nell’ambiente locale di materiali urbani con principi insediativi e linguaggi radicalmente nuovi. In tutti i casi, nelle impostazioni più fenomeniche o in quelle più strutturaliste, queste linee di pensiero prefigurano un forte legame con una prospettiva regionalista, che tuttavia rimanda a un taglio territoriale assai più contenuto rispetto a quello proposto con le regioni istituzionali. Olivetti, come anche Rossi Doria e Samonà, entro questi ambiti locali sovracomunali e subregionali, arrivano invero a formulare un’ipotesi concreta – mai più ripresa – di politica di sviluppo locale, che intende coniugare governo dello sviluppo economico e pianificazione urbanistica e paesistica (A. Lanzani, Immagini del territorio e idee di piano 1943-1963, 1996).
Dall’altro lato, s’irrigidisce una politica di più decisa conservazione del paesaggio ereditato, carattere identitario nazionale definito nella lunga durata storica, che viene ora minacciato dai molti inserimenti nei centri storici, oltre che da innumerevoli espansioni che erodono pezzi importanti del paesaggio naturale e agrario del Paese. Leonardo Borgese (1904-1966), Brandi, Giuseppe Mazzotti (1907-1988) e Antonio Cederna (1921-1996) ne sono sicuramente i più noti sostenitori. A supporto delle loro tesi muovono due argomenti. Il primo, indubbiamente discutibile, porta a sostenere che la spazialità della nuova architettura e della nuova urbanistica – anche la migliore – sia incompatibile con la spazialità dei centri storici italiani e di alcuni quadri naturali-agrari, e che tali quadri possano essere conservati, così come sono, anche in futuro (proprio quando ne stanno venendo meno le ragioni di sussistenza socioeconomica). Il secondo, inattaccabile, muove dall’osservazione e dal commento critico delle trasformazioni reali che stanno avvenendo nel Paese, che non hanno – salvo poche eccezioni – nulla a che fare con qualsivoglia istanza e flessione della cultura dell’ambientamento e con approcci attenti al contesto.
Le riflessioni precedentemente richiamate non guidano infatti, come avrebbero invece potuto fare, la definizione dei piani regolatori paesistici (previsti dalla legge del 1939) o dei piani territoriali di coordinamento (previsti dalla l. 17 ag. 1942 nr. 1150) che non troveranno mai impiego; i piani regolatori generali, d’altra parte, sono pochi e raramente assumono un’attenzione al paesaggio (consentendo, al contrario, forti densificazioni nei centri storici e considerando il suolo come puro supporto privo di valenze storico-ambientali). Quelle riflessioni e quelle proposte rimangono cioè confinate in qualche piano ‘d’autore’ e – più di frequente – in qualche progetto di edificio o di complesso di edifici. Anche i tentativi ipotizzati da Luigi Piccinato, Samonà, Giovanni Astengo e Benevolo (in Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale, 1958) di raggiungere nel piano una composizione tra rigida tutela e controllata modificazione non trovano seguito in Italia. Conseguentemente, Brandi (2001) e Cederna (1956) avranno buoni argomenti nel segnalare come le nuove urbanizzazioni distruggano il paesaggio ereditato senza costruirne uno nuovo. Dalla frenetica attività costruttiva non emergono embrioni di nuovi codici spaziali condivisi, capaci di coordinare l’attività trasformativa promossa dalle singole operazioni edilizie e infrastrutturali (come pur avviene in buona parte d’Europa), né tanto meno emerge un tentativo di raccordare i nuovi codici ai codici spaziali ereditati e connotanti i contesti in trasformazione (come dovrebbe avvenire in un’Italia con un palinsesto territoriale così complesso, e un paesaggio ereditato cosi finemente definito).
La prospettiva non può essere allora che quella difensiva, di una tutela integrale e spiccatamente passiva: da un lato, evitare l’inserimento di nuove costruzioni nei centri storici, operando quasi solo con il risanamento conservativo, dall’altro, apporre tutele ai paesaggi naturali e storici d’eccellenza, allargando gli ambiti sottoposti a vincolo delle sovrintendenze e istituendo nuovi parchi per frenare la minaccia di un’aggressiva urbanizzazione turistica costiera e alpina con un’impostazione che fa di Cederna uno dei primi esponenti dell’ambientalismo (La distruzione della natura in Italia, 1975). Tutto ciò avviene in un’ottica di forte rigore morale e di civismo, che tuttavia non sempre riesce a coniugarsi con le ragioni materiali dello sviluppo economico. Questa prospettiva si dimostra sicuramente più capace nel mobilitare settori più avvertiti dell’opinione pubblica, ‘salvando’ non poche situazioni, ma non è in grado di suggerire immagini, dispositivi e azioni per costruire un nuovo paesaggio di qualità nei contesti di forte crescita.
A fianco di questa contrapposizione che diviene sempre più profonda (senza però diventare mai una totale rottura) matura dagli anni Sessanta un dibattito su come costruire un nuovo paesaggio nel più esteso spazio urbanizzato che comincia a dilatarsi nella dimensione regionale. Samonà (1959), Quaroni, De Carlo ed Eduardo Vittoria (Il volto della città, «Urbanistica», 1960, 32) si impegnano a pensare il nuovo spazio urbanizzato non solo in termini di schemi funzionali e circolatori, ma anche in termini di ‘forma’ capace di strutturare le dinamiche economico-sociali e di fare emergere nuovi valori estetici. Matura uno sforzo di straordinario interesse culturale, dove si distinguono posizioni diverse: alcune, come quella di Samonà, sono più attente a considerare gli elementi storico-paesistici quali vincoli attivi e indirizzi per organizzare il nuovo, che si realizza non solo in piani territoriali urbanistici (per es., quelli del Trentino) ma anche in moderni insediamenti e infrastrutture (per es., nei progetti di De Carlo per Urbino, di Edoardo Gellner per Corte di Cadore, di Pietro Porcinai per l’autostrada del Brennero); altre suggeriscono prospettive di più forte rottura strutturale e figurativa nell’organizzazione delle nuove urbanizzazioni, talvolta ben ancorate in una descrizione interpretativa dei potenziali di sviluppo e dei processi in atto (per es., nelle ipotesi di De Carlo per l’area intercomunale milanese), talvolta fondate su una banalizzante ripresa delle immagini in voga dei centri direzionali e del sistema della mobilità autostradale.
Il Progetto 80, elaborato alla fine degli anni Sessanta, sembra tentare un incontro tra il possibile paesaggio della grande dimensione e una politica di tutela rigorosa del patrimonio storico-artistico e naturale, un incontro retrospettivamente testimoniato dalla prefazione di Giorgio Ruffolo alla raccolta degli scritti di Giorgio Bassani (L’Italia da salvare. Scritti civili e battaglie ambientali, a cura di C. Spila, 2005). Da un lato l’individuazione di una trentina di sistemi urbani (già in essere o da sostenere nel loro formarsi), intesi come luogo potenziale di disegno di questa nuova forma aperta di un urbanizzato in crescita, da plasmare con ricchezza di attrezzature collettive; dall’altro un censimento preciso del patrimonio storico-artistico, ricavato dai lavori del Touring club e delle sovrintendenze, che prefigura una più estesa politica della tutela del paesaggio, oltre all’istituzione di una novantina di parchi, nell’ipotesi che il patrimonio storico-naturale possa rappresentare una grande risorsa paesaggistica per il tempo libero di un’Italia sviluppata. È l’immagine tardiva di un Paese riformato capace di riequilibrare consumi individuali e collettivi, urbanizzazione in crescita e tutela dei beni artistici e della natura, un’immagine che appare ‘già mancata’ alla luce dell’evoluzione politica, sociale ed economica di quegli anni. Sorprende a ogni modo in quel disegno non tanto il mancato riconoscimento di un possibile ruolo delle regioni appena istituzionalizzate e nemmeno la prospettiva, tutta centralistica, di regionalizzazione delle politiche pensate per i sistemi urbani, quanto soprattutto un’aspirazione di unitarietà di ‘disegno’ che finisce per disconoscere sia gli storici differenziali regionali e intraregionali sia quella pluralità di modelli di sviluppo che stavano emergendo e che di lì a poco avrebbero guidato le trasformazioni del paesaggio italiano (Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Progetto ’80, 1969).
Quasi come in un controcampo rispetto alle trasformazioni avvenute nei decenni precedenti, la scena della rivoluzione territoriale e paesistica che prende avvio negli anni Settanta ricade pressoché interamente al di fuori delle principali città, spostandosi in un territorio regionale che non era stato interessato dal modello urbano-fordista di modernizzazione. L’elemento di novità dominante è ora costituito dall’esplosione dei processi di urbanizzazione e d’industrializzazione diffusa, che travalicano nel loro dispiegarsi confini municipali e quadri amministrativi, ove s’insediano nuove economie e nuove pratiche dell’abitare. All’interno di questi processi coesistono elementi di omologazione ed elementi di forte specificità e radicamento nei contesti locali: in tal senso il paesaggio dell’urbanizzazione diffusa mostra un’ambiguità di non facile interpretazione che, per essere meglio compresa, richiede un’azione di distinzione e di smontaggio dei componenti di un palinsesto a prima vista caotico e indecifrabile.
Sono almeno due i fattori – evidenziati da Bernardo Secchi (Un’interpretazione delle fasi più recenti dello sviluppo italiano. La formazione della città diffusa ed il ruolo delle infrastrutture, in Infrastrutture e piani urbanistici, a cura di A. Clementi, 1996, pp. 27-36) – che agiscono a livello generale e che bene evidenziano tale tensione. In primo luogo va segnalato come l’urbanizzazione sempre più diffusa abbia fatto sì che via via venisse riutilizzato, modificato e incrementato il capitale infrastrutturale esistente. Un patrimonio di tracciati rurali, vie extraurbane minori, canali e fossi variamente ramificato sul territorio, ha costituito il supporto sul quale la nuova edificazione si è diffusa, sostenuta dalla motorizzazione individuale di massa e su una mappa degli spostamenti e delle destinazioni sempre più articolata. Una città per molti aspetti inedita si è in tal modo costruita in continuità con un assetto preesistente, sottoposto a un incrementale processo di trasformazione, in cui il capitale fisso veniva modificato attraverso continue correzioni – l’asfaltatura di un tratto stradale, la realizzazione di un nuovo ramo di rete fognaria – tese ad aumentare, anche solo parzialmente, efficienza e capacità, piuttosto che attraverso politiche di più ampio respiro. Da qui l’emergere di configurazioni dell’urbanizzato riconducibili a specifici telai e figure insediative, dalle ‘quadre’ nell’area centrale veneta, all’ordito stradale ‘spugnoso’ nella penisola salentina, alle fitte ‘maglie’ urbanizzate nella Brianza milanese, ai ‛reticoli’ policentrici del basso Piemonte o ancora al ‘pettine’ della dorsale adriatica (si vedano, tra gli altri, S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, 1993; S. Munarin, M.C. Tosi, Tracce di città. Esplorazioni di un territorio abitato: l’area veneta, 2001; C. Merlini, Cose/viste. Letture di territori, 2005).
A ciò si accompagna il secondo fattore, un’estesa strategia di ‘mobilitazione individuale’ – nell’accezione proposta da Alessandro Pizzorno (I ceti medi nel meccanismo del consenso, in Il caso italiano, a cura di F.L. Cavazza, S.R. Graubard, 1974, pp. 315-38) – nella costruzione edilizia. La realizzazione dei fabbricati che si dispongono in maniera pulviscolare sul territorio – le case di famiglia, i magazzini, i capannoni artigianali e i servizi commerciali, variamente combinati tra loro – viene cioè in larga misura affidata all’iniziativa dei singoli soggetti – famiglie, imprese e famiglie-imprese – che in tal modo rispondono da sé alle proprie necessità spaziali, senza una qualche forma di orientamento che spinga a un rapporto non solo strumentale con gli elementi del paesaggio ereditato e alla costruzione di nuovi sistemi relazionali tra gli edifici e tra questi e il suolo, rispondenti nella lunga durata a esigenze non solo individuali ma collettive, funzionali ed estetiche.
Anche questa strategia di delega all’auto-organizzazione privata, pur favorita ovunque nel Paese da uno Stato sostanzialmente inefficiente, assume però tonalità differenti in relazione ai quadri macroregionali in cui si cala. Al Centro-Nord, la mobilitazione individuale assume i connotati di un’attivazione economica delle società extraurbane, i cui individui si mettono al lavoro alla ricerca di un benessere privato, ma allo stesso tempo danno origine a forme di cooperazione che integrano i meccanismi concorrenziali e generano reti di coesione sociale. Nei piccoli e medi centri della provincia settentrionale la politica delle amministrazioni locali sostiene questo dinamismo e riesce ad accompagnarlo entro una qualche forma di azione urbanistica: dall’organizzazione delle nuove villette e dei nuovi capannoni entro un disegno di lottizzazione, alla fornitura di alcuni servizi collettivi, alla realizzazione di nuove infrastrutture. Tuttavia, se i segni di questo accompagnamento della crescita si ritrovano diffusamente sul territorio, la loro somma stenta a restituire un codice condiviso di paesaggio.
D’altra parte, nel Mezzogiorno, la medesima strategia di mobilitazione sembra rispondere quasi esclusivamente alla domanda di uno spazio residenziale privato che consenta di affrancarsi dalle condizioni di sovraffollamento e di inadeguatezza igienico-sanitaria presenti – ancora negli anni Settanta – tanto nei centri storici quanto negli insediamenti rurali. La costruzione di una nuova casa – nella periferia della piccola o media città dell’entroterra come lungo la costa – sembra qui disgiungersi radicalmente da uno sviluppo economico del territorio, e va piuttosto messa in relazione a capitali generati altrove (tipicamente le rimesse degli emigrati). Ma neppure si riscontra, nella costruzione del nuovo paesaggio residenziale, una qualche forma d’indirizzo dell’iniziativa privata da parte delle amministrazioni che non sia la gestione clientelare della sua costruzione massicciamente abusiva, risultando in una bassissima qualità nello spazio aperto e una drammatica, perdurante assenza di dotazioni collettive e infrastrutture (G. Fera, N. Ginatempo, L’autocostruzione spontanea nel Mezzogiorno, 1985).
Se è a questo punto intuibile la pluralità delle declinazioni assunte dal nuovo paesaggio diffuso nel momento in cui le spinte provenienti dall’incrementalismo e dalla mobilitazione individuale si incontrano con i territori e le società locali (si pensi ai 126 ‘ambienti insediativi’ riconosciuti nella ricerca Itaten della metà degli anni Novanta), è d’altra parte possibile distinguere tre principali flessioni di tale paesaggio, coincidenti grosso modo con altrettanti quadri macroregionali. In una prima accezione, il suo affermarsi è legato al ridursi dell’occupazione industriale nei principali centri urbani, per effetto di un decentramento produttivo che interessa tutte le maggiori città con una base economica industriale, in particolare nel Nord-Ovest. Decentramento cui si affianca la ricerca, da parte di molte famiglie, di un paesaggio abitativo diverso da quello sempre più costoso e congestionato offerto dalla grande città. A tale domanda rispondono una miriade di operazioni edilizie realizzate all’esterno delle città compatte, ma comunque gravitanti entro la loro area metropolitana allargata. In questo caso il paesaggio è quindi costituito da ‘nuovi fatti urbani’ – case unifamiliari, case a schiera, palazzine, capannoni artigianali e commerciali, grandi edifici per lo sport e il tempo libero – che si addensano lungo i principali assi del reticolo viario metropolitano e regionale e che in taluni casi assumono forme simili a quelle dello sprawl («sparpagliamento») urbano nordamericano e nordeuropeo.
In una seconda accezione, il paesaggio della ‘campagna urbanizzata’ va invece messo in relazione con l’affermarsi delle economie distrettuali, e con il formarsi di sistemi produttivi specializzati in aree che fino a quel momento erano state considerate periferiche e marginali rispetto agli epicentri di sviluppo fordista. I territori investiti da tali dinamiche ricadono in un arco centro-nord-orientale costituito dall’area centrale veneta e da parti del Friuli, la pianura emiliana, lombarda e parti del basso Piemonte, la piana di Firenze, parti dell’Umbria, delle Marche e della Puglia. La matrice generativa di questo nuovo paesaggio, a differenza del caso precedente, è prevalentemente rurale: si assiste a una sorta di ‘metamorfosi’ di una campagna già fittamente coltivata e abitata che si fa progressivamente territorio industrializzato e urbanizzato, inglobando con la sua crescita una fitta rete di piccoli e medi centri urbani preesistenti che assumono di conseguenza nuove funzioni e ruoli di servizio. Un pulviscolo urbanizzato in cui prevale la tipologia della casa di famiglia isolata su lotto e del capannone artigianale con struttura prefabbricata, frequentemente ibridati nella tipologia della casa-capannone.
Una terza declinazione riguarda, infine, la crescita e il consolidarsi di estese ed eterogenee urbanizzazioni costiere, in cui lo spazio compreso tra il litorale e l’entroterra si fa occasione per lo sviluppo di un paesaggio ‘altro’ dove si insediano pratiche ed economie diverse da quelle presenti nell’interno. A volte queste urbanizzazioni si sviluppano come estensioni di centri del turismo balneare di massa già affermati – la costa romagnola o la Versilia – e restano legate alle pratiche turistiche e del tempo libero, affiancando agli alberghi e ai condomini ‘vista mare’ il paesaggio della seconda casa o del villaggio turistico. D’altra parte assumono rilevanza situazioni in cui l’urbanizzazione costiera non deriva dall’estensione di una città balneare, ma è frutto di operazioni immobiliari unitarie che colonizzano tratti di litorale con lottizzazioni autonome, come nel caso dei villaggi realizzati in Sicilia, in Calabria e in Sardegna. Altre volte, queste urbanizzazioni sorgono in adiacenza di nodi infrastrutturali costieri realizzati allo sbocco di un corridoio vallivo o in corrispondenza di un centro ubicato a mezzacosta nell’interno, e il loro sviluppo è quindi collegato allo ‛scivolamento’ verso la costa di una parte delle società in corrispondenza delle nuove linee di comunicazione e a servizio delle nuove aree agricole intensive. Altre volte, infine – e ciò vale soprattutto per il Mezzogiorno –, queste urbanizzazioni sono espressione di un massiccio fenomeno di costruzione di seconde abitazioni, dove per la lunga stagione estiva si trasferisce una popolazione insediata per la restante parte dell’anno nei piccoli o medi centri urbani ubicati a poca distanza nell’entroterra. Sorgono secondo questa logica numerose ‘marine’ lungo le coste pugliesi, calabre e siciliane, paesaggi di sole case a frequentazione fortemente stagionale, brulicanti d’estate e pressoché disabitate durante il periodo invernale.
Non è solo l’urbanizzazione diffusa tuttavia a generare una radicale mutazione del territorio rurale. In questa fase si registra infatti un consistente abbandono delle terre economicamente marginali e si affermano nuove tecniche nell’agricoltura, con un conseguente radicale ridisegno delle forme del paesaggio. La prima trasformazione si concentra in montagna e nell’alta collina, dove anche il lavoro agricolo e la cura del suolo da parte degli anziani cominciano a venir meno. L’effetto è l’inizio di un’epocale reazione boschiva che diverrà esplosiva negli anni con l’abbandono degli insediamenti minori (baite, ricoveri, case sparse, interi borghi di montagna) e di un enorme patrimonio di minuta infrastrutturazione fatto di sentieri e mulattiere, di piccole opere idrauliche, di ciglionamenti e terrazzamenti. L’abbandono di queste opere e dei boschi storici, fortemente antropizzati, associato alla natura inizialmente precaria e disordinata del bosco di ritorno, contribuisce a generare una condizione di dissesto idrogeologico.
Un secondo insieme di trasformazioni si deve, viceversa, all’industrializzazione dell’agricoltura di pianura e bassa collina, ossia alla crescente meccanizzazione e all’uso sempre più massiccio di fertilizzanti chimici. Gli effetti sono però differenziati. In alcune regioni si assiste alla semplificazione di storici paesaggi già specializzati e rivolti a mercati nazionali e internazionali, per es. nelle aree cerealicole del Sud, dove al vecchio latifondo si sostituiscono nuove medio-grandi imprese con poche trasformazioni paesaggistiche. Più significative le trasformazioni nella pianura irrigua, dove la maglia dei campi si allarga notevolmente e un fitto reticolo di filari e siepi viene rimosso (anche al limitare dei campi più ampi), la varietà delle colture con i suoi colori si riduce con il venir meno della pratica delle rotazioni (a seguito dell’uso dei fertilizzanti) e le grandi cascine sono abbandonate e cominciano a degradare, mentre si moltiplicano gli edifici di tipo industriale entro cui trova spazio un allevamento sempre più slegato dalla terra.
In altri casi ancora l’effetto è dirompente e genera la scomparsa di storici paesaggi agrari: la piantata padana della pianura asciutta e quella della policoltura collinare settentrionale, l’alberata tosco-umbro-marchigiana legata alla mezzadria (la cui scomparsa è magistralmente testimoniata dalla ricerca fotografica di Mario Giacomelli), il giardino mediterraneo meridionale. Al posto delle loro minute tessiture vegetazionali si sostituiscono grandi e omogenee campiture: da un lato quelle delle coltivazioni erbacee sempre più meccanizzate e non sempre economicamente sostenibili senza sussidi, dall’altro quelle delle crescenti coltivazioni specializzate. In altri casi, infine, questi paesaggi tendono a saturare intere regioni agrarie: per es., nella quota di pianura asciutta non urbanizzata, che si fa nuda sede di una povera coltura del mais, o all’opposto con il prevalere esclusivo di colture arboree (il vigneto specializzato delle Langhe, i meleti della valle dell’Adige, i frutteti veronesi e romagnoli, gli agrumeti e l’orticoltura delle piane e delle coste meridionali).
D’altra parte se il volto delle principali aree urbane nel suo insieme non muta, tuttavia tre significative novità si manifestano dagli anni Settanta proprio all’interno di tali centri, e producono altrettante inedite declinazioni del loro paesaggio. In primo luogo, nelle città dove era stata più intensa l’industrializzazione di matrice fordista, la crisi della grande impresa e l’avviarsi di processi di deindustrializzazione e delocalizzazione delle attività si associano alla presenza di rilevanti vuoti urbani («Rassegna», 1990, 42, nr. monografico: I territori abbandonati, a cura di S. Boeri, B. Secchi). È un fenomeno che si verifica in tutta Europa, e che nel nostro Paese investe i centri del triangolo industriale, ma anche importanti poli siderurgici al Centro-Sud, come Terni o Napoli. Le fotografie di Gabriele Basilico, già alla fine degli anni Settanta, svelano un paesaggio urbano fatto di gasometri, ciminiere, magazzini, serbatoi e scali ferroviari da cui si sono ritratte le attività umane. Tale paesaggio costituirà a lungo lo sfondo della vita quotidiana nelle periferie storiche di molte città: i piani regolatori saranno generalmente poco capaci di cogliere con tempismo i processi di conversione in atto o di predisporre adeguati programmi di riuso, e nuovi pezzi di città si costruiranno su quelle aree, spesso dopo decenni, sovente in modo occasionale.
In secondo luogo va segnalato come con l’inizio degli anni Settanta si avvii una nuova stagione di trasformazioni nel cuore delle città. La maturazione attraverso il dibattito del decennio precedente della nozione di centro storico, quale ambito urbano da sottoporre a tutela nella sua integrità, insieme alle possibilità di esproprio e di intervento sulla città esistente, consentite dalla l. 22 ott. 1971 nr. 865 sull’edilizia residenziale, costituiscono i presupposti per una diversa azione progettuale. I caratteri ricorrenti e identitari del tessuto storico sono ora riconosciuti come elementi di struttura, e in base a essi si codificano modalità di intervento sia per la manutenzione dell’esistente sia per nuovi inserimenti (si pensi all’esperienza bolognese del Piano per il centro storico e del Piano per l’edilizia economica e popolare). Il paesaggio del centro storico diventa in questo senso normato nelle tipologie, nei materiali, nei colori. Se ciò ne garantisce una riproduzione nelle forme e nei tipi di spazio stabiliti dalle norme, molto meno garantita sarà la permanenza dei suoi abitanti: una sorta di dualismo si apre infatti nel paesaggio fisico e sociale dei centri delle città italiane, dove sempre più spesso ai settori riqualificati e di elevato valore immobiliare corrispondono il subentro di ceti sociali abbienti (gentrification) e il cambio di destinazione d’uso in favore degli uffici, mentre alla più modesta edilizia dei settori non riqualificati permangono associate condizioni di degrado e dinamiche di immigrazione.
In terzo e ultimo luogo, vanno richiamati gli esiti di una sorta di ‘onda lunga’ dell’intervento pubblico nella produzione di edilizia residenziale, che iniziano a caratterizzare il paesaggio periferico delle grandi e medie città già dalla seconda metà degli anni Sessanta, a valle della l. 18 apr. 1962 nr. 167 sull’edilizia popolare. A differenza delle operazioni riconducibili alle stagioni INA-Casa, che avevano teso a produrre – pur con qualche eccezione – un paesaggio di quartieri organici, di unità di vicinato in cui corpi edilizi di dimensioni contenute si relazionavano a sistemi di spazi aperti, ora l’azione pubblica tende a concentrarsi in complessi edilizi di grande scala. Gli interventi – tra gli altri – nei quartieri di Rozzol Melara a Trieste, di Ponticelli e Secondigliano a Napoli, dello ZEN a Palermo, del Laurentino e di Corviale a Roma presentano grandi oggetti che si stagliano perentori su uno sfondo da cui sembrano prendere le distanze, quasi a volere arginare la crescita urbana a macchia d’olio e a recuperare simbolicamente la marginalità in cui l’iniziativa residenziale pubblica era stata confinata dalla costruzione privata della periferia. Ma questi gesti sembrano giungere tardivi: la loro costruzione sovente si trascina per difficoltà tecniche e procedurali, e la loro ultimazione si compie in un contesto ormai mutato, che stride con l’ambizione argomentativa dei progetti. Da un lato una periferia diffusa, disordinata e abusiva spesso li accerchia e li oltrepassa. Dall’altro le occupazioni anticipate e il ritardo nell’avvento dei servizi previsti li rendono luoghi di un precoce degrado, di cui l’azione pubblica dovrà tornare a prendersi cura già all’inizio degli anni Novanta.
Tra gli anni Settanta e Ottanta emergono due importanti ipotesi di politica del paesaggio, tra loro sorprendentemente incomunicanti, ma non necessariamente incompatibili. La prima nasce dall’incontro tra la storica cultura della tutela dei beni storico-artistici, che si apre sempre di più al territorio e al paesaggio, con una ricerca che molto deve alla scuola degli «Annales» e alla lezione di Cattaneo e Sereni. Al centro sono ora poste le molteplici espressioni della cultura materiale e il territorio diviene sedimento delle opere d’arte, quadro di sintesi che unisce configurazioni materiali e forme di vita e lavoro. L’idea di paesaggio come valore culturale perde qui ogni aspetto normativo e generalizzante, ancora presente nell’immediato dopoguerra, e si fa invece strumento interpretativo capace di cogliere la costitutiva varietà dei contesti locali del Paese. Molti saggi e interi volumi della Storia d’Italia Einaudi (in particolare quelli curati da De Seta e Gambi) restituiscono appieno lo spessore di questo progetto. È tuttavia a Bologna che esso trova la sua espressione più coesa, nel lavoro congiunto di Emiliani e Gambi, nella ricerca fotografica di Paolo Monti, in quella urbanistica di Pierluigi Cervellati e nell’azione dell’Istituto dei beni culturali e naturali promossa da Guido Fanti – il primo presidente della Regione Emilia-Romagna – che ne determinò la nascita. È in questo contesto che per un momento il paesaggio sembra farsi matrice di una possibile politica regionale che, eccezionalmente, conservi certo alcuni quadri ambientali, ma più diffusamente riconosca i differenti paesaggi regionali, definisca quali invarianti di organizzazione spaziale mantenere nei processi di trasformazione e dove e come localizzare i più consistenti nuovi sviluppi edilizi (un’impostazione fatta propria anche da Toscana, Umbria, Piemonte e Trentino-Alto Adige). È un’ipotesi di governo forte e innovativa, che nel giro di pochi anni sarà travolta sia dal dinamismo privato di un’urbanizzazione diffusa del tutto indifferente a quel patrimonio, sia dalla rigida settorializzazione e banalizzazione burocratico-clientelare del governo regionale.
La seconda ipotesi di lavoro nasce dall’ambizione da parte di una cultura architettonica e urbanistica riformista di riuscire, se non a governare, almeno a indirizzare e modificare la moltitudine di trasformazioni cui si assiste entro un quadro d’ordine ‘potenziale’ che ancora non si svela, ma che occorre tentare di comprendere e far emergere con rinnovati strumenti dell’analisi e del progetto (significativa, in questa prospettiva, l’esperienza della rivista «Casabella» diretta da Vittorio Gregotti coadiuvato da Bernardo Secchi, tra il 1982 e il 1996). Premessa di questa ipotesi è il rifiuto di considerare il paesaggio come un bene raro, nella lucida consapevolezza che lungo questa strada esso sarà inevitabilmente destinato a sottostare alle dinamiche di democratica distruzione (per es., sulle coste) o di oligarchica appropriazione (nella Toscana felix) e la volontà di considerarlo invece come possibile condizione diffusa.
Non si può evitare di segnalare come il tipo di sguardo che da subito si associa a questa seconda ipotesi sia quello – disincantato – di una generazione di giovani fotografi che si lascia alle spalle sia gli schemi estetici e il vedutismo della fotografia di paesaggio della tradizione di Alinari sia la ricerca sugli elementi di più lunga durata di Monti e di Giacomelli, e che si esercita osservando i segni di un nuovo quotidiano che sorprende e verso il quale si sospende il giudizio. Le fotografie di Luigi Ghirri che spiazzano lo stesso Gambi nella mostra bolognese Paesaggio: immagine e realtà del 1980, e il Viaggio in Italia (1984) sempre di Ghirri – e con lui Basilico, Guido Guidi, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella ed Ernesto Tuliozi, che insieme ad altri contribuiscono al libro – sono le esperienze seminali di una stagione d’indagine fotografica che da questo momento in poi lavora alla costruzione di un diverso ritratto del paesaggio italiano, e fornisce alla prospettiva riformista una straordinaria base fenomenologica.
Rispetto al dibattito sulla grande dimensione e sulla città-regione di vent’anni prima, nella riflessione sulla possibile riforma del paesaggio dell’urbanizzazione diffusa diventa assai maggiore sia lo sforzo interpretativo sia il realismo di un agire interno ai processi reali, volto a consolidare i deboli segni di struttura e le ‘figure emergenti’ (il pettine abruzzese, il reticolo della Val di Magra, i telai insediativi della regione urbana milanese) e a qualificare architettonicamente e paesaggisticamente i materiali ordinari di quell’urbanizzazione (la casa di famiglia, la casa-capannone, lo spaccio commerciale lungo la strada). Più deludente sarà invece l’incontro con la politica e con il governo: rare le ipotesi di politica locale nei distretti, circoscritte a temi sociali, e nessuna a questioni urbanistico-paesistiche; limitata la preoccupazione delle regioni per il paesaggio e – al più – in forma di tutela. Il progetto di paesaggio si ridurrà a tema di esercizio nelle scuole di architettura, il cui impatto sulle pratiche reali rimarrà alquanto limitato.
Se questa è la situazione sul versante del dibattito intellettuale, in cui si confrontano riflessioni profonde nel tentativo di definire una linea d’intervento all’altezza della complessità riconosciuta al paesaggio italiano, ben altro sarà l’agire normativo e istituzionale. Su tale fronte sembra infatti di assistere a una drastica semplificazione del discorso, e all’emergere di due posizioni polarizzate e opposte, incarnate da due leggi nazionali che vedono la luce nel 1985, nella cui attuazione sarà peraltro decisivo il ruolo assunto (o non assunto) dalle regioni. Da un lato la l. 28 febbr. 1985 nr. 47 sul condono edilizio, che propone di reintegrare nella legalità l’enorme quota di edilizia in diversa misura extranorma sorta nei decenni precedenti. Se la regolarizzazione amministrativa viene largamente riconosciuta agli oltre 4 milioni di domande di sanatoria presentate – significativo è l’intenso dibattito politico che precede il varo della legge e che lascia prevalere una linea ‘pragmatica’ nei confronti di una produzione edilizia che si fa nascere abusiva ‘per necessità’ –, è sul fronte del progetto e del recupero urbanistico delle urbanizzazioni sorte del tutto abusivamente che si apre un fronte di grande difficoltà tecnica e attuativa. A questo riguardo, lo spazio di autonomia che la legge lascia alle regioni rimane sostanzialmente inutilizzato: il testo normativo viene ovunque recepito nella sua formulazione generale, senza integrazioni che possano meglio adeguarlo alle caratteristiche insediative dei contesti locali. L’onere di questo adattamento viene lasciato ai comuni (un carico smisurato in rapporto alle competenze degli uffici preposti a gestirlo), producendo nell’attuazione esiti modesti, di sovente incongrui, i cui effetti rimarranno impressi nella desolante assenza di qualità urbana che caratterizza tali paesaggi abitati, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno.
Sul lato opposto c’è invece la l. 8 ag. 1985 nr. 431 (la cosiddetta legge Galasso) sulla tutela paesaggistica, che amplia il raggio dell’azione, estendendolo dalle «bellezze» – per com’erano intese dalla legge del 1939 – a un elenco di elementi naturali quali litorali, corpi idrici di superficie, montagne, parchi, foreste e zone umide, affidati ora alle regioni nella predisposizione dei piani territoriali paesistici regionali. Se è pur vero che viene allargata l’area dei beni tutelati, questa estensione si appoggia a una più razionale esigenza di conservazione delle risorse naturali e degli ecosistemi ma non pare in grado di cogliere la molteplicità degli aspetti costitutivi del paesaggio italiano, molti dei quali riguardano situazioni prodotte dall’uomo, come i paesaggi agrari descritti da Sereni, i tracciati delle vie di comunicazione, la geografia dei centri storici. Il recepimento ministeriale del dibattito sul paesaggio sembra allora approdare a una sorta di scomposizione funzionalista del territorio.
Da un lato, un ‘paesaggio’ da tutelare secondo un approccio tecnocratico, attraverso una perimetrazione geometrica che si fonda su elementi fisico-naturalistici e sorvola sulla stratificazione di significati storici, economici e culturali che obbligherebbero a riflettere su una geografia di situazioni antropizzate di ben altra complessità. Dall’altro, una sorta di ‘non-paesaggio’, dove la delega alla mobilitazione individuale diventa sempre meno implicita e dove diviene addirittura razionale trasgredire le norme urbanistiche, potendo contare su occasioni di sanatoria opportunamente predisposte. Scomposizione che si complica per effetto di un atteggiamento delle regioni che da subito si dimostra profondamente differenziato, non solo per il diverso modo di recepire le direttive della legge Galasso – e si potrebbe aggiungere anche per il diverso modo, severo o permissivo, di interpretare le disposizioni relative a sanzioni e recupero urbanistico previste dalla legge di condono – ma anche per come queste riescono o meno a integrarsi organicamente con i livelli di pianificazione provinciali e comunali. Ne emerge un ventaglio di situazioni molto articolato: si va da casi di solerti adozioni di piani paesistici meramente burocratici, svuotati di ogni efficacia ai fini della tutela (Campania), a casi più virtuosi di maggiore integrazione tra i diversi livelli di piano e incisività sul governo delle trasformazioni (Emilia-Romagna, Liguria), in cui è però più difficile raccogliere consensi al momento dell’esercizio del vincolo, a casi infine di opportunistica e prolungata inadempienza in materia di pianificazione paesistica, ovunque tollerati dallo Stato (Calabria). Un quadro in cui sono già leggibili le contraddizioni, gli eccessi burocratici e le dinamiche sregolative che porteranno alle derive del ventennio successivo.
Negli ultimi due decenni, a partire dalla metà degli anni Novanta, si registra uno dei cicli di produzione edilizia più consistenti del dopoguerra. Il cemento segna l’urbanizzazione diffusa, così come i contesti urbani e le nuove infrastrutture, seguendo al tempo stesso una nuova logica espansiva e una di riconversione urbanistica, entrambe caratterizzanti questa terza fase di intensa trasformazione del paesaggio italiano. Probabilmente la più problematica, poiché le trasformazioni mostrano una più radicale ‘dissociazione’ tra crescita edilizia e sviluppo socioeconomico. Un primo contesto di caduta del nuovo cemento è quello di un’ulteriore dilatazione dei processi di urbanizzazione nella dimensione regionale, in cui i caratteri che fino agli anni Ottanta avevano sostenuto l’urbanizzazione diffusa vengono meno e lasciano spazio ad altre dinamiche emergenti (se da un lato i rilievi mostrano con evidenza che i tassi di crescita dell’urbanizzazione diffusa hanno raggiunto valori massimi durante gli anni Settanta e Ottanta, i valori assoluti del suolo rurale urbanizzato sono rimasti tra i più alti in Italia anche nei due decenni successivi).
Il dato nuovo è il moltiplicarsi di operazioni di dimensione maggiore rispetto al ciclo precedente, che non hanno più bisogno di appoggiarsi sulla rete di infrastrutture minute ereditate. La loro scala consente di assumere localizzazioni del tutto autonome rispetto al territorio già urbanizzato, di orientare edifici e strade in modo divergente dai contesti in cui si inseriscono, preoccupandosi soltanto di allacciarsi alle linee di mobilità principali. Alla precedente ‘razionalità minimale’ si sostituiscono molteplici ‘razionalità di settore’ non di rado confliggenti, che determinano l’autonoma organizzazione di nuove placche urbanizzate (zone industriali di ripetitivi capannoni prefabbricati, espansioni residenziali seriali di case a schiera e palazzine, piattaforme logistiche e commerciali) e oggetti isolati sempre più grandi (centri commerciali, cinema multisala, luoghi del divertimento e loro aggregazioni) che frammentano ogni disegno dello spazio aperto. Ne consegue, alla grande scala, l’indebolimento di quei telai insediativi e di quelle figure morfologiche dell’urbanizzato che il precedente ciclo di urbanizzazione diffusa aveva comunque lasciato emergere. Alla scala più minuta la principale conseguenza è il moltiplicarsi di spazi di risulta – fazzoletti agricoli interclusi, fasce indefinite tra il vecchio pulviscolo e i nuovi oggetti – tra loro non comunicanti.
In tutti i casi, si registra una relativa convergenza tra i paesaggi della diffusione e il paesaggio delle frange metropolitane (dal grande raccordo anulare romano alle tangenziali milanesi e torinesi, ai tratti suburbani delle autostrade nella regione urbana napoletana, tra Prato e Firenze, alle porte di Bologna) nel quadro di uno spazio urbano sempre più dilatato e omogeneo, catturato dalla felice immagine di Francesco Indovina di un ‘arcipelago metropolitano’ (Dalla città diffusa all’arcipelago metropolitano, 2009).
Un secondo contesto di caduta del nuovo cemento torna a essere quello delle grandi regioni urbane che – anche in Italia – sembrano riaccendersi sotto la pressione di un capitalismo delle reti globalizzato (che domanda alle città di essere gateway per l’Italia manifatturiera, oltre che nodo di attività di servizio strategiche in rapida crescita) e il rinnovato protagonismo dei sindaci, ora eletti direttamente dalle comunità urbane. L’intensa attività edilizia si deposita in parte ai margini delle grandi infrastrutture della frangia metropolitana, in parte in estese periferie che crescono per frammenti (soprattutto a Roma e in alcune città del Sud). Rilevanti divengono pure le trasformazioni interne alla città compatta, dove si assiste a una stagione di intenso recupero delle aree dismesse, con cantieri urbani dalle dimensioni considerevoli e sempre più spesso introversi, chiusi nei loro recinti e portatori di principi di organizzazione spaziale del tutto esogeni: dalle forme di una banale suburbanizzazione che entra in città (condomini nel verde, piastre commerciali e ampie superfici a parcheggio) a più rari quartieri residenziali e direzionali integrati, caratterizzati da edifici in altezza coerenti con la ‘vulgata’ dominante delle città globali.
Un terzo luogo di caduta del cemento riguarda molte nuove e grandi infrastrutture, che contribuiscono al radicale superamento della strategia incrementalista dominante nella fase precedente. Si avvia una stagione in cui si progettano (e in buona parte si costruiscono) numerose ‘grandi opere’: nuove autostrade soprattutto, ma anche ferrovie ad alta velocità e grandi stazioni, aeroporti, fiere, poli sanitari e universitari; opere legate ai grandi eventi, da Italia ’90 alle Colombiadi (1992), dal Giubileo (2000) al G7 (2001), fino a Expo 2015. Nella retorica dominante delle rappresentanze sociali e dei policy makers il programma per la realizzazione di nuove infrastrutture viene assunto come l’elemento necessario per ridare dinamismo all’economia e competitività al ‘sistema Paese’. Si assiste allora alla progressiva costruzione di un nuovo paesaggio, che cala dall’alto e si sovrappone al già complesso palinsesto territoriale italiano attraverso manufatti di grandi dimensioni. Le perplessità nei confronti di tali nuove opere non vanno ricondotte esclusivamente al loro disegno, che pur mostra spesso un carattere banalmente ingegneristico e autoreferenziale, affiancato da un contributo teso a mitigarne l’impatto, quasi presupponendo che la presenza della nuova infrastruttura nel contesto preesistente debba rappresentare naturalmente una ferita. Altre perplessità nascono dal fatto che tali opere non sempre sono risolutive dei problemi di collegamento, sia perché intervengono su tratti limitati della rete – e sostanzialmente spostano il ‘collo di bottiglia’ agli estremi di questi tratti – sia perché intrattengono un rapporto problematico con la fitta trama infrastrutturale preesistente, come mostrano le vicende del passante di Mestre.
Anche le principali trasformazioni che investono il mondo rurale, seppur slegate dalla produzione edilizia, generano un paesaggio dalla grana più ampia. Sulla vecchia tessitura del paesaggio agrario storico, semplificata ma non cancellata nel periodo precedente, s’impongono ora sequenze di vaste superfici omogenee: quelle legate al farsi sempre più nudo e uniforme delle coltivazioni erbacee industrializzate (a seguito dell’ulteriore estensione dei campi e dell’abbandono della rete minore di canali, con la diffusione dei sistemi di irrigazione a pioggia e tubi in PVC); quelle di colline spianate e rimodellate e di pianure per le colture intensive della vite o della frutta; quelle di un bosco che continua a crescere sulle radure del pascolo e delle coltivazioni.
Nell’insieme, queste imponenti trasformazioni vedono il protagonismo di nuovi attori. Innanzitutto quelli – anche internazionali – della grande distribuzione, che in questa fase stravolgono la geografia e l’architettura del commercio: al negozio tradizionale, ma anche al primo supermercato interstiziale e all’originale strip commercial-distrettuale si sostituiscono la grande piastra della distribuzione alimentare e non, il negozio Ikea, il centro commerciale integrato, l’out-let. Nuovi attori sono inoltre i grandi e medi operatori delle piastre logistiche, delle cittadelle del tempo libero, o i molti agenti funzionali che sviluppano ospedali specializzati, aeroporti, tecnopoli, fiere (non solo a Milano, ma anche a Parma, Rimini, Bari) e piastre multiutilities (per la gestione dell’energia e dei rifiuti). Legati a questo nuovo ciclo di trasformazioni sono anche alcune grandi imprese di costruzioni, che presidiano in forme oligopoliste e non sempre trasparenti le grandi opere, e molti operatori edilizi e immobiliari di medio-grandi dimensioni che si dedicano alla produzione di zone residenziali e produttive. Sono infine gli operatori di un settore agricolo, dove l’impresa, salvo quella impegnata in produzioni a elevato valore aggiunto, perde autonomia a favore di grandi soggetti che distribuiscono sementi, definiscono piani colturali e ritirano i prodotti.
Se questa cospicua produzione incontra una domanda in crescita per una pluralità di ragioni sociali (si pensi solo alle nuove popolazioni metropolitane) ed economiche (per es., quelle legate alla mobilità delle merci e dei semilavorati), non va tuttavia sottovalutato il peso di altri quattro fattori propulsivi che guadagnano progressivamente rilevanza e che agiscono in autonomia rispetto a tali forme di domanda. In primo luogo, un progressivo spostamento del ceto medio dell’urbanizzazione diffusa da investimenti produttivi e concorrenziali verso un mercato residenziale in cui i valori crescono senza sosta. In secondo luogo, il ruolo – non secondario nel settore edile – di molti capitali provenienti dall’economia criminale, in costante crescita nel nostro Paese: capitali che consentono di affrontare operazioni altrimenti troppo rischiose, e che possono accettare tassi di invenduto sempre più consistenti. In terzo luogo, la cospicua presenza – specie nelle grandi città – di forti investitori finanziari internazionali, capaci di gestire grandi interventi in modo efficiente. Infine, il diverso ruolo della pubblica amministrazione, non più accompagnatrice dei fenomeni di urbanizzazione, ma attiva nella loro promozione. Meno impegnata a salvaguardare interessi collettivi (di efficienza, bellezza ed equità) e assai più a ricavare risorse fiscali (fossero solo quegli oneri di urbanizzazione di cui proprio all’inizio degli anni Novanta viene liberalizzato l’uso) per far quadrare bilanci comunali sempre più in sofferenza, o a promuovere interventi di corto respiro coerenti solo con il tempo breve del ‘ritorno’ politico di sindaci e assessori (ormai di ogni orientamento politico).
Sull’insieme dei contesti urbanizzati e del territorio rurale agisce anche un secondo registro di modificazione del paesaggio, esito di trasformazioni interstiziali e di processi decentrati. Un registro ambivalente, che in alcuni casi rafforza le dinamiche di semplificazione e omologazione spaziale appena richiamate, in altri definisce vere e proprie controstorie. Partendo dallo spazio urbano compatto si intuisce in molti quartieri e in molti tessuti un complesso metabolismo, con dinamiche diverse e talvolta contraddittorie.
Da un lato, questi sono i luoghi dove si fa più intensa e visibile la presenza urbana degli immigrati non comunitari. Interi settori urbani progressivamente abbandonati dal ceto medio sono riabitati da popolazione immigrata, e connotati dal diffondersi di attività ‘etniche’ commerciali e di servizio che ne trasformano i pianoterra. Da un altro lato, questi sono i luoghi dove si affermano forme di pedonalizzazione, di specializzazione commerciale e di gentrification che ne mutano radicalmente le popolazioni e le pratiche d’uso. Emblematico il fenomeno della penetrazione della movida in molti di questi centri storici, e l’emergere di conflitti con i residenti, vere e proprie questioni di ordine pubblico trattate da molti sindaci per mezzo di ordinanze ‘restrittive’. Da un altro lato, infine, questi sono i luoghi in cui ricadono molteplici interventi edilizi tesi ad aumentare la capacità residenziale della città centrale e a valorizzarne l’edilizia attraverso il recupero dei sottotetti, sulla scorta di normative regionali che vengono introdotte dal 1996 (dapprima in Lombardia, e in seguito in una dozzina di altre regioni), senza alcun intervento sulle reti e sulle dotazioni che devono sostenere tale ulteriore carico di abitanti. Se queste operazioni non intaccano eccessivamente gli edifici, ne modificano radicalmente il paesaggio con le insegne, con i ritmi d’uso e una vita sociale più esposta.
I tre processi descritti raccontano di un impasto ambiguo tra una dinamica di differenziazione spaziale, che coinvolge poveri e ricchi, immigrati e italiani, gruppi emergenti e ceto medio in difficoltà, e storie di auto-organizzazione e di reinvenzione tattica dello spazio urbano da parte dei diversi soggetti sociali.
Nel ‘diffuso’, questo agire interstiziale mostra un risvolto più fortemente edilizio e infrastrutturale. Si manifesta negli ultimi fenomeni di crescita pulviscolare, concentrati soprattutto nel Mezzogiorno, nelle sopraelevazioni, negli ampliamenti e nei recuperi dei sottotetti dell’edilizia a bassa densità e dei capannoni delle più dense aree pedemontane padane e costiere, nel pullulare di microsostituzioni con palazzine residenziali e capannoni modulari delle prime e più datate tipologie della diffusione. Oltre che in una dinamica d’intervento infrastrutturale minuto, attraverso gli ultimi sforzi di adeguamento incrementale (per es., le migliaia di rotonde che inondano questi territori), ma anche con i frequenti tentativi di migliorare vivibilità e paesaggio stradale (ridisegno delle sezioni stradali, piantumazioni, realizzazione di percorsi ciclabili). Interventi che sempre più spesso si associano però a contestuali situazioni di collasso, dovute ora a un insostenibile carico di traffico, ora a mancati lavori di manutenzione che si fanno onerosi su una rete troppo estesa, ora ai primi segni di abbandono delle tratte più marginali, rimaste a servizio di pochi utenti e manufatti.
Più in generale, negli stessi territori iniziano a emergere dinamiche molecolari di degrado, di sottoutilizzo e svuotamento di spazi residenziali e produttivi, ma anche di attrezzature di servizio precocemente invecchiate (ospedali, scuole, impianti sportivi più vecchi e di non facile adeguamento). In relazione al patrimonio residenziale e produttivo si possono riconoscere tre matrici principali. La prima è l’effetto di un’evoluzione delle preferenze abitative, tanto nella popolazione residente più anziana quanto nelle più giovani generazioni, per cui le frange più pulviscolari del diffuso, carenti di servizi e lontane da centri e infrastrutture, sempre meno riescono a incontrare una domanda. La seconda è l’effetto di una precoce dequalificazione di interi brani di urbanizzazione diffusa – tipicamente l’edilizia residenziale sulle strade più trafficate, i tessuti costieri più banali, o quelli abusivi centromeridionali, privi di dotazioni – in cui la bassissima qualità degli insediamenti vede crollare la presenza degli originari proprietari. La terza matrice, infine, è l’effetto, nella crisi globale, di una profonda riorganizzazione delle economie distrettuali e del conseguente abbandono di una variegata quota di spazi produttivi che, per tipologia, qualità del manufatto o condizioni di accessibilità, non sono ormai in grado di rispondere alle domande espresse dalle aziende più dinamiche e competitive.
A ciò si aggiunga un’altra dinamica generalizzata di abbandono e degrado, riguardante gli stessi ambiti diffusi come i territori dell’agricoltura intensiva o quelli ‘marginali’ di alta collina e di montagna, che coinvolge quella minuta filigrana di infrastrutture e manufatti, espressione della cultura materiale delle comunità locali – i reticoli dei fossati e dei canali, le opere di terrazzamento, i muretti a secco – e fondamentali per la ‘tenuta’ delle forme del paesaggio. Le colate di fango di Sarno nel 1998, gli smottamenti a Messina nel 2009 o nel litorale ligure nel 2011, fino alle alluvioni della pianura veneta nel 2010 o della regione di Olbia del 2013, sono solo alcuni esempi, in un elenco lungo e drammatico, che testimoniano una situazione assai grave, ormai non più governabile alla scala municipale. Le urgenti necessità di manutenzione e riorganizzazione di un’articolata famiglia di infrastrutture minute si associano infatti alla cronica difficoltà nell’eseguirle.
Infine, va però segnalato come proprio nei territori collinari rimasti ai margini dello sviluppo economico ed edilizio più intenso si manifestino anche dinamiche differenti, che sembrano quasi delineare le premesse di una possibile contro-storia. Non si tratta di aree depresse, ma di porzioni di territorio che, nel miscelare permanenze di carattere rurale, qualità ambientali e peculiari tratti di urbanità, sono riuscite negli ultimi vent’anni a esprimere percorsi di sviluppo alternativi e forme di paesaggio originali. Sono almeno tre le condizioni che contraddistinguono questa emergente geografia di territori ‘lenti’. Vi è in primo luogo una matrice rurale che rimane rilevante e che si articola localmente, esprimendo sia un ampio gradiente di qualità (dall’agricoltura part-time che resiste nelle colline emiliane e marchigiane, fino alla geografia dei presidi Slow food, dei prodotti DOC e DOP) sia integrazioni con una filiera turistica a bassa densità d’uso delle risorse ambientali e meno concentrata nel tempo rispetto ai luoghi tradizionali del turismo (con l’attivazione dei circuiti privati legati al fenomeno dei bed & breakfast). Vi è poi una peculiare presenza del settore industriale, più ‘leggera’ rispetto alle economie distrettuali più mature, in cui alcune medie e grandi imprese-leader permangono fortemente radicate nel territorio, mantenendo marcati tratti rurali, come la Ferrero nelle Langhe e l’Alessi nel Cusio. Vi è, infine, una componente residenziale legata all’elevata qualità dell’abitare nell’ambito delle piccole-medie città, dove si registrano fenomeni di ritorno residenziale – è la ‘risalita del salmone’ per cui una quota di abitanti rientra stabilmente dal grande centro urbano al borgo d’origine – ma anche situazioni di doppia biografia-residenziale, con una dimensione metropolitana più ‘veloce’ e una più ‘lenta’ nella provincia. Fenomeni che hanno un significativo impatto sul paesaggio costruito, inducendo una moltitudine di interventi di riuso di manufatti agricoli, di microtrasformazioni nei centri storici, e di recupero di borghi spopolati e abbandonati.
La fase che si apre con gli anni Novanta vede la questione del paesaggio subire un’ulteriore involuzione. A livello generale, guadagna consensi una linea culturale, ancor prima che politica, programmaticamente impegnata a sostenere il ritiro dell’azione pubblica dalla pianificazione del territorio e a difendere la legittimità del soggetto privato di ‘poter fare ciò che vuole’ entro il lotto di sua proprietà (facendo in tal senso scomparire dal discorso pubblico l’ipotesi che il paesaggio, prodotto di un’azione collettiva e stratificata nel tempo, possa avere un codice condiviso), salvo dovere poi rincorrere i cascami sempre più ingombranti di tale malintesa ‘libertà’ attraverso un reiterato ricorso al condono edilizio (come avvenne con i governi Berlusconi che nel 1994 e nel 2003 ne riaprirono i termini). Ma ben oltre la questione del condono, il tema della politica del paesaggio viene progressivamente derubricato tanto dall’agenda politica nazionale quanto dal governo urbanistico a livello municipale, in nome di un liberismo che sottomette l’idea di bene comune a quella della crescita quantitativa.
A livello locale, di fronte alle pressioni avanzate da robusti operatori immobiliari o da attori pubblici settoriali, le amministrazioni, sempre più a corto di risorse, si scoprono deboli, disposte ad accettare localizzazioni e programmi senza obiettare sulla coerenza rispetto al contesto o sull’adeguatezza delle reti infrastrutturali di supporto, concependo sempre più la partita urbanistica come una mera politica fiscale. Analogamente, un professionismo sotto scacco per il ruolo molto inflazionato che riveste la professione diventa funzionale a questo meccanismo, rinunciando a esprimere una qualunque posizione critica. E tutto questo accade mentre l’Italia sigla la celebrata Convenzione europea del paesaggio, dove si dichiara che tutto il territorio è un bene a cui estendere la tutela, inclusi i territori antropizzati, richiamando espressamente sia «i paesaggi della vita quotidiana sia i paesaggi degradati».
D’altra parte, a un’opinione pubblica ben più ampia delle élites illuminate di alcuni decenni prima, pare con sempre maggiore evidenza che l’enorme quantità di cemento caduta sul suolo italiano ne comprometta il volto paesistico bruciando potenzialità turistiche, rendendolo più faticoso e meno abitabile (per le famiglie, ma anche per le imprese), incrementando un dissesto ambientale che genera malessere, insalubrità e talvolta catastrofi. Non si tratta più solo di segnalare i profondi problemi di una crescita troppo rapida ed erosiva, l’impressione è che l’enorme attività del settore delle costruzioni e le ingenti quote di rendita fondiaria siano insostenibili per il processo complessivo di accumulazione e distolgano risorse da altri investimenti non più rinviabili per lo sviluppo. Proprio il deficit di paesaggio sembra quindi essere alla radice di una crisi spaziale che contribuisce a generare la crisi economica e sociale. Dentro questa linea di ragionamento cresce la riflessione critica di alcuni studiosi – come Settis, Edoardo Salzano (No sprawl, a cura di M.C. Gibelli, E. Salzano, 2006) e Carlo Petrini (Terra madre, 2009) – con l’azione dei molti comitati attivi contro la realizzazione di un’opera pubblica o di operazioni immobiliari eccessivamente impattanti, dalle associazioni di cittadini che sostengono cause contro attività produttive inquinanti ai movimenti che si propongono uno sviluppo a ‘zero consumo di suolo’.
Il filo che unisce queste variegate iniziative è un’idea di paesaggio percepito come bene comune. Lo scarto si fa qui notevole, tanto rispetto alle posizioni culturali alte e alle retoriche istituzionali, quanto al degrado delle regole e alla riduzione privatistica della questione del paesaggio. È una sorta di ritorno sulla scena dei cittadini, un’azione ‘dal basso’ secondo una prospettiva rovesciata rispetto a quella dell’individuo proprietario cui si rivolgevano la strategia di mobilitazione individuale e il condono edilizio, in cui questa volta ricompaiono – con qualche ambiguità rispetto a un atteggiamento nimby (not in my backyard) – il senso di responsabilità e l’attitudine verso la cura della sfera pubblica e del suo spazio fisico-paesistico. Ciò è segnalato dalle pratiche d’uso che sanciscono la straordinaria crescita dell’utenza dei pochi parchi pubblici realizzati e di paesaggi tutelati, ma anche le pratiche attive di custodia del territorio, come le oasi della LIPU (Lega Italiana Protezione Uccelli) e del WWF (World Wildlife Fund), e di agricoltura urbana e periurbana, di riscoperta del valore di cascine, ville, antichi opifici e di boschi e fiumi.
Su questi due sfondi la pratica professionale – quella del paesaggista-giardiniere, oltre a quella dell’architetto-paesaggista e dell’urbanista-paesaggista – sembra trovare qualche maggior attenzione (emblematicamente nella rivista «Lotus»), sebbene nei fatti il paesaggismo rimanga prevalentemente una pratica patinata, limitata al disegno di uno spazio verde di qualità, contenuto da dinamiche ‘altre’ sulle quali non riesce a influire, sovente dinamiche immobiliari di cui il paesaggio è meramente scenografia. Un parco urbano sovradisegnato che si realizza a scomputo degli oneri, a fianco del nuovo quartiere direzionale o sopra il nuovo parcheggio interrato; un giardino ricamato dentro il nuovo headquarter della multinazionale; un brano di paesaggio pregiato collinare o litoraneo che viene cintato e arredato, a fruizione esclusiva del nuovo resort. In questa accezione, il paesaggio si riduce a essere l’aggiunta di valore a un gesto architettonico di grido, del tutto eccentrica rispetto alle necessità geologiche, idrauliche ed ecologiche di un territorio sempre più bisognoso di manutenzione. Non di rado, nella stessa direzione si muove involontariamente la stessa cultura della tutela passiva delle eccellenze, sempre più ridotte a scenario di un turismo e di una residenzialità elitari ed esclusivi. Solo in rari casi essa diventa supporto di quei processi virtuosi di cui si è detto, intrecciandosi con quelle pratiche alternative e interstiziali (anche di singoli imprenditori) di ricostruzione del paesaggio. In generale, in assenza di un’organizzata domanda politica e di una più forte intenzionalità progettuale, il paesaggio non riesce quasi mai a essere colto alla scala opportuna e con modalità di attuazione adeguate per rispondere alla diffusa carenza di urbanità, recuperando i depositi della storia e sorvegliando i possibili effetti redistributivi.
Analoghe difficoltà sembrano evidenziate dalle politiche delle regioni italiane, con o senza piani paesistici e con una grande varietà di quadri regolativi urbanistici. La maggior parte delle regioni fa propri i dogmi della crescita, escludendo di fatto dai propri orizzonti la questione del paesaggio (tra queste, Lom-bardia, Veneto, Emilia-Romagna e la maggior parte delle regioni meridionali), mentre grande isolamento soffrono le poche regioni che promuovono piani più coraggiosi. È stato il caso della Sardegna di alcuni anni fa (con l’adozione, nel 2006, del Piano paesaggistico regionale a tutela delle coste), o della Puglia, più di recente (con l’adozione, nel 2013, del nuovo Piano paesaggistico territoriale). Nel mezzo qualche regione – Piemonte, Toscana, Trentino-Alto Adige – che mantiene piani paesaggistici e una prassi amministrativa che almeno tenta di regolare i più delicati processi trasformativi, riuscendo a sperimentare nei territori favorevoli qualche più complessa iniziativa.
Nel pieno di una crisi strutturale che da alcuni anni investe l’economia mondiale e i suoi meccanismi di regolazione, la disgiunzione tra crescita dell’urbanizzato e qualità dello sviluppo appare così evidente da porre interrogativi rilevanti circa lo stesso nesso tra crescita economica e benessere. Tuttavia, ancorché si registrino una sempre più diffusa dismissione molecolare del patrimonio costruito, una mancanza di cura delle infrastrutture e delle attrezzature esistenti e importanti fenomeni di invenduto, le nuove edificazioni su spazi aperti non si arrestano e la politica delle grandi opere – infrastrutturali e urbanistiche – subisce solo un rallentamento. A fronte di questa situazione cresce nell’opinione pubblica la consapevolezza che la scarsa qualità degli ambienti di vita di gran parte dell’urbanizzazione italiana rappresenta un elemento di freno per lo sviluppo socioeconomico e civile: generando distretti produttivi che funzionano malamente e dove la cattiva qualità dell’abitare contribuisce a perdere terreno competitivo; rendendo le città incapaci di attrarre e ospitare nuove imprese e popolazioni; distruggendo i ‘bei paesaggi storici’ fondamentali per le possibilità di sviluppo turistico e ponendo il territorio a rischio di costosi disastri ambientali. Eppure, i temi della tutela dei paesaggi ereditati e della riqualificazione di quelli recenti, insieme alla bonifica ambientale e paesistica delle realtà più degradate, continuano a non entrare nell’agenda delle politiche nazionali e regionali. Anzi, il paesaggio viene inteso da molti policy makers come un lusso che in tempo di crisi non ci si può permettere, a fronte di ben altre emergenze. Al più, è ridotto a fattore di marketing di qualche territorio rurale o di qualche nuovo quartiere urbano in linea con le retoriche dominanti di smart city e green economy. In un simile contesto, o la politica del paesaggio si qualifica come politica trasversale, di rilevanza generale e non settoriale, oppure sembra inevitabilmente destinata a divenire marginale e del tutto irrilevante.
Il punto di partenza deve essere il rifiuto di pensare e trattare lo spazio come mero supporto indifferente di oggetti, siano essi tracciati stradali e ferroviari, edifici o complessi di edifici destinati a svolgere determinate funzioni. Il territorio è invero un complesso palinsesto entro il quale qualificare sistemi di relazione tra differenti oggetti (ereditati o nuovi), e tra essi e le pratiche sociali, ponendo ancor più che in passato una grande attenzione non solo agli oggetti aggiunti, ma allo spazio aperto che ‘sta tra le cose’, letto – quest’ultimo – nella sua verticalità storica e naturale. Entro questa prospettiva le istanze per fermare il consumo di suolo e tutelare i paesaggi storici – tra loro sempre più intrecciate – sono fondamentali, ma non sufficienti. Esistono anche i problemi connessi alla gestione delle trasformazioni dei territori di maggiore qualità, alla rigenerazione delle più recenti urbanizzazioni e del paesaggio agrario-industriale, alla questione di un più radicale intervento di demolizione e riciclo delle urbanizzazioni irriformabili, alla bonifica ambientale e alla reinvenzione paesistica di innumerevoli siti inquinati e di non pochi territori segnati da cave e discariche. C’è infine la necessità di evidenziare la vera valenza economica e sociale del paesaggio, di controllare alcuni effetti non voluti delle sue politiche (per es., redistributivi di tipo regressivo), di precisare la necessaria (ma non scontata) connessione tra politica del paesaggio e politica ecologica.
Tre possibili valenze della politica del paesaggio Entro la prospettiva appena delineata – e in maggiore continuità con la cultura e la prassi della tutela – ricade una prima valenza possibile per la politica del paesaggio italiano. In questo caso il paesaggio può diventare la leva di sviluppo per larghe parti del Paese, in particolare quelle ricche di patrimoni storico-artistici e naturali e meno stravolte dalla recente urbanizzazione. Lo può diventare, tuttavia, solo ad alcune condizioni.
La prima, è che si passi dalla tutela passiva a una attiva che accetti selettivamente la trasformazione e ragioni sui soggetti economici che la possano promuovere. Due soli esempi: il vigneto sui terrazzamenti, orientato non più perpendicolarmente ma parallelamente ai muretti a secco, in modo tale da garantire un’appropriata meccanizzazione; l’alpeggio che, per essere incentivato come in Svizzera o in Austria, richiede una strada alpina.
La seconda condizione è che le ipotesi di un museo diffuso, formulate negli anni Settanta in termini di stretta integrazione tra eccellenze e patrimonio diffuso, ma anche tra diverse forme di espressione artistica, artigianale e di assetto del paesaggio e degli insediamenti, vengano riprese e sostenute da una politica turistico-culturale nazionale.
La terza condizione è che lo sviluppo turistico pratichi modelli di offerta differenziati (albergo diffuso, agriturismo) che valorizzino, invece di minacciarlo, il paesaggio ereditato e sviluppino forme cooperative, senza le quali è inimmaginabile la promozione di iniziative e attrezzature comuni (dalla pubblicità mirata all’organizzazione di eventi culturali, all’infrastrutturazione sportiva).
La quarta condizione è che lo sviluppo turistico non venga mai inteso in forma esclusiva, come l’unico motore per questi ‘territori lenti’. A esso devono affiancarsi una rinnovata agricoltura di qualità e una politica forestale (attualmente quasi del tutto assente), che gestisca il bosco di ritorno, garantisca un bilanciato equilibrio nella produzione di legname e alimenti impianti di teleriscaldamento a biomassa nelle urbanizzazioni vicine. A tale sviluppo può inoltre affiancarsi una presenza integrata di medie imprese di eccellenza del made in Italy (spesso localizzate ai margini di questi territori lenti, come nel caso della Ferrero, della Tod’s o di Brunello Cucinelli), fortemente internazionalizzate, nell’ipotesi che esse possano trovare in questi paesaggi sia un fattore di incentivo e di commercializzazione dei prodotti sia una forma di diversificazione degli investimenti comunque radicata nel territorio.
L’ultima condizione è che queste dinamiche si alimentino di politiche pubbliche intelligentemente orientate verso nuove forme dell’abitare (e del lavorare), che prevedano un modello di accessibilità che non si esaurisce certo nello sviluppo forsennato dell’alta velocità e delle autostrade, e un sostegno a forme di neoruralità che richiedono comunque servizi di tipo urbano e un interscambio con la città.
Una seconda valenza della politica del paesaggio implica invece un’innovazione culturale più radicale. Essa nasce dall’idea – ancora poco condivisa – che anche lo spazio spesso malamente urbanizzato nel dopoguerra debba essere inteso come paesaggio potenziale, dunque dall’idea che una politica del paesaggio sia fondamentale nella ricostruzione di condizioni di vivibilità e abitabilità in questi territori per le imprese e per le famiglie, e che proprio il paesaggio possa rappresentare sia un fattore di benessere diffuso e un elemento per un migliore sistema di welfare che si qualifichi per la sua componente materiale non circoscrivibile alle sole attrezzature indoor (poiché una buona scuola in un ambiente incivile non educa, e un istituto d’eccellenza per la cura dei tumori localizzato in una bolla di inquinamento non cura), sia un fattore di attrattività – nel senso non banale evidenziato da Antonio Calafati (Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia, 2010) – per molte attività economiche.
Una simile politica del paesaggio ha sicuramente un carattere più innovativo e non si preoccupa solo di tutelare qualche emergenza storico-paesista (in primo luogo i centri storici) e neppure di abbellire il land-scape di un nuovo intervento urbanistico. Ritiene invece necessarie altre iniziative. La prima è un forte incentivo a rimodellare lo spazio costruito dove, con opportune misure fiscali, va concentrata l’attività edilizia e dove vanno proposte anche procedure di demolizione e ricostruzione, di ricollocazione dei volumi già costruiti e di ristrutturazione che rispondano sia a esigenze energetiche e paesistiche sia a un’urbanistica finalmente orientata al riuso. La seconda è una radicale riforma nel modo di pensare, programmare, progettare e realizzare le opere pubbliche e infrastrutturali, come progetti di territorio capaci di integrare un investimento principale e uno complementare, tra cui, per es.: il miglioramento energetico di un edificio scolastico con la riqualificazione degli spazi aperti stradali e verdi circostanti; la messa in sicurezza di una strada pericolosa e trafficata e un progetto di paesaggio stradale; la realizzazione di un’infrastruttura di trasporto e la tutela e la riforma degli spazi aperti attraversati. Un’ulteriore iniziativa riguarda una progettazione degli spazi aperti nella dimensione intercomunale che lavori sul ruolo ecologico ed economico di questi grandi spazi interclusi e delle potenziali reti verdi, interrogandosi anche su un possibile ritorno della natura in ambiti costruiti, sulla sua gestione effettiva e sui temi di un intervento di bonifica che non può essere limitato ai soli siti inquinati.
Un’ultima valenza di tale politica riguarda il paesaggio come bene comune, la cui costruzione e i cui usi non possono essere l’esito dell’azione individuale e privata, ma neppure di un’azione dall’alto puramente statuale. La sua produzione e la sua cura richiedono qualche forma di civismo, la faticosa definizione di regole e di codici condivisi che condizionino le trasformazioni del suolo. La politica del paesaggio assume lungo questa via aspetti meno scontati. Da un lato, specialmente in alcune parti del Paese, è politica della legalità e di freno a forme di appropriazione individuale di oggetti e suoli che ha assunto anche forme illegali e criminali, nel quadro di forme diffuse di corruzione amministrativa. I paesaggi della terra dei fuochi nella ex Campania felix, delle coste calabresi, ma anche delle molte cave del Nord Italia e di numerosi impianti di trattamento di rifiuti speciali devono essere ripensati nel quadro di una ristabilita legalità e correttezza amministrativa, con la condivisione trasparente di un codice spaziale. Dall’altro lato, la cura e il ‘rifarsi’ del paesaggio italiano richiedono quelle forme di azione cooperativa che una studiosa come Elinor Ostrom (Governare i beni collettivi, 2006) – proprio in riferimento a boschi, pascoli e opere di irrigazione – ha evidenziato essere decisive per evitare quei fallimenti (dei beni comuni) che ad altri erano parsi inevitabili. D’altronde, le stesse pratiche storiche di autoorganizzazione come quelle del Club alpino italiano (CAI) o di molte associazioni ambientaliste, le forme di cittadinanza attiva che promuovono esperienze di agrocivismo e di cura del patrimonio verde, le forme cooperative nei ‘territori lenti’, che oltre alla promozione di un bed & breakfast si prendono cura dei sentieri o del bosco, hanno da tempo permesso di fare e manutenere il paesaggio.
La politica del paesaggio intesa nel senso più tradizionale della cultura della tutela novecentesca, o nelle forme nuove appena richiamate, è indubbiamente una politica nazionale alla pari di quella ambientale e urbanistica, e sempre più spesso dovrebbe esservi associata. È a livello nazionale, infatti, che è necessario trovare punti di riferimento comuni: nel codice del paesaggio, in una nuova legge sul consumo del suolo, in un rinnovato quadro normativo per la sua difesa e anche in una nuova legislazione urbanistica che si confronti con la problematica di governo del territorio dopo la stagione della crescita. Non è invece a livello nazionale che essa può farsi politica attiva. Per farsi tale deve muovere dal riconoscimento dei diversi caratteri esistenti e potenziali dei paesaggi contemporanei. Un quadro che, sebbene in forme diverse da quelle del dopoguerra, ci riporta al medesimo problema di un’articolazione spaziale che poco ha a che fare con il ritaglio amministrativo regionale, muovendosi tra due differenti scale.
Una scala macroregionale che ci aiuta innanzitutto a comprendere il differente peso delle tre tematizzazioni della politica del paesaggio appena richiamate.
È evidente che una politica del paesaggio intesa come politica di sviluppo dei ‘territori lenti’, delle città d’arte, delle agricolture e di una industria di alta qualità e con forti tradizioni artigiane può rappresentare una strategia di sviluppo appropriata per l’Italia centrale. Malgrado in tale macrocontesto vi siano ambiti fortemente urbanizzati – si pensi all’urbanizzazione lineare lungo il litorale adriatico, o alla conurbazione Firenze-Prato-Pistoia e naturalmente alla grande area urbana romana dove predomina il tema dell’abitabilità –, una prospettiva del paesaggio come quella indicata può contribuire a definire un tratto di fondo di un modello di sviluppo.
In egual modo, nonostante nell’Italia del Nord si rintraccino paesaggi-territori lenti e chiaramente delineati – per es. nei contesti collinari delle Langhe o sulle Alpi, in ampie porzioni del Trentino-Alto Adige – emerge tuttavia un paesaggio dominato da uno spazio urbano dilatato all’inverosimile. L’estensione dell’urbanizzazione diffusa, combinata a una fitta rete di medie e piccole città e alla presenza di importanti nodi metropolitani produce una vera e propria megalopoli padana, un contesto tra i più rilevanti e sviluppati a livello continentale, in cui si impone una politica del paesaggio intesa come politica di risarcimento ambientale e di riforma e rinnovo dell’abitabilità. La qualità del paesaggio urbanizzato diventa allora un fattore decisivo nel sorreggere il dinamismo economico e sociale del suo vasto sistema industriale e dei suoi nodi urbani, al pari del buon funzionamento della sua rete aeroportuale o dell’estensione della banda larga.
Nel Mezzogiorno, infine, è la terza valenza della politica del paesaggio ad assumere indubbiamente un ruolo centrale. Come ricostruzione delle condizioni minime di convivenza civile e – grazie a ciò – come valorizzazione delle potenzialità auto-organizzative di quel capitale umano di cui il Mezzogiorno pare particolarmente ricco, quanto sprovvisto di un reale accompagnamento e sostegno. Solo dentro questo processo la forma porosa e imprevedibile dei paesaggi urbani meridionali può diventare una straordinaria risorsa, garantendo flessibilità e capacità di adattamento nel riposizionamento delle città nei flussi economici globali. Senza per questo negare la rilevanza della seconda valenza in molte aree interne e nelle poche porzioni costiere non urbanizzate (il Salento, ma anche il Cilento, il Trapanese e buona parte della Sardegna). D’altra parte, anche fuori dalle tre valenze delineate, a una dimensione macroregionale rimandano non di rado – nella loro materialità e nelle immagini che ne possono guidare la possibile riorganizzazione – i nuovi paesaggi italiani: si pensi all’incerto destino del grande sistema agricolo della Pianura Padana irrigua, alle urbanizzazioni pedemontana e adriatica, ai caratteri che stanno assumendo alcune aree interne della penisola a cavallo tra Abruzzo e Molise, o tra Campania e Basilicata.
Tuttavia, l’osservazione sostantiva dei paesaggi e delle loro trasformazioni ci riporta anche e soprattutto a una dimensione minore e intermedia, microregionale e sovracomunale. Una dimensione, questa, ampiamente negata dalle riforme del governo locale, dapprima con la mancata istituzione dei comprensori in sostituzione delle vecchie province; quindi con una troppo timida assegnazione di competenze urbanistiche, paesistiche e ambientali alle province riformate, schiacciate tra la forte autonomia dei comuni e un’azione tutta settoriale delle regioni; in ultimo, con la mancata attivazione delle città metropolitane (sebbene costituzionalizzate con la riforma del titolo V), e l’annuncio dell’abolizione delle province. Eppure è solo in questa dimensione intermedia che si dà oggi il governo di una città in estensione nelle sue diverse forme, non solo metropolitana e non necessariamente per contiguità spaziale (si pensi ai reticoli urbani minori che caratterizzano molti ambienti a minor densità). Un governo che ripensi ciascun ambito oltre la logica espansiva e agisca di conseguenza cancellando e aggiungendo, rinaturalizzando alcuni vuoti non più riutilizzabili e prevedendo densificazioni e possibili sviluppi interconnessi. È solo in tale prospettiva che un ‘grande’ progetto di molte e spesso minute infrastrutture (strade, scuole, attrezzature sportive) può farsi progetto di paesaggio; cosi come è a quella scala che agricoltura, industria e artigianato possono ritrovare un rapporto con il territorio. Infine è mobilitando questa scala intermedia che la tutela attiva del patrimonio storico e naturale e la riforma del patrimonio recente possono dialogare entro un comune progetto di paesaggio. Un progetto che potrà darsi – come sottolinea Alberto Magnaghi (Il progetto locale, 2000) – solo in una rinnovata vicinanza alla dimensione locale; una dimensione, questa, oggi del tutto trascurata dall’azione amministrativa e di governo delle regioni, così come da un ritorno al centralismo da parte di uno Stato-nazione indebolito dalla crisi della finanza pubblica e dai processi di globalizzazione.
Se la strada di un programma di riforma appare possibile e necessaria osservando le ‘cose’, gli ‘avvenimenti’ che ci circondano non giustificano facili ottimismi. È allora prevedibile un diverso paesaggio per il Paese: un paesaggio che testimonia una diffusa condizione di degrado paesistico e civile ma anche – stante la sua grande complessità e immensa stratificazione – un’incorporata presenza di lacerti di bel paesaggio del passato e di azioni di resistenza e reinvenzione paesistica, costruiti al margine dell’azione istituzionale, negli interstizi o all’esterno dei territori forti, da pratiche sociali laterali. Il tutto dentro una dimensione di conflitto sempre più radicale non solo tra differenti paesaggi, ma anche tra differenti mondi di vita, o meglio tra potenti e uniformi razionalità moderne e postmoderne e progettualità locali, che potranno trovare una ‘presa’ indispensabile per la loro azione sia nei patrimoni storico-naturali ereditati sia negli scarti e nei rifiuti della più recente urbanizzazione. In quei paesaggi che, nel loro insieme, reagiscono ai processi in corso mostrandoci non solo la loro inerzia, ma svelandoci quotidianamente le possibilità ‘altre’ per altre storie individuali e collettive.
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