DELLA BERETTA, Giovanni Antonio
Nacque a Milano il 15 luglio 1733 dal conte Carlo Fabrizio, di famiglia di antica nobiltà pavese, e da Anna Teresa D'Isabella, di famiglia patrizia novarese. Tra il 1746 e il 1755 compì, nel collegio gesuitico di Brera, il consueto corso degli studi (dalla retorica, nella quale ebbe come maestro il letterato G. Ferrari, alla filosofia e alla teologia). Nel 1750 vestì l'abito clericale; chiese di entrare nella Compagnia di Gesù, ma non vi fu accolto a causa della sua delicata salute, ciò di cui ebbe a rammaricarsi il padre F. A. Zaccaria, con il quale il giovane D. era in familiare corrispondenza.
Nella formazione del D. determinante fu, in questi anni, il modello di austera vita sacerdotale e di intensa pratica religiosa offertogli dal direttore di coscienza, l'oblato G. B. Raineri - autore dell'operetta Norma pratica di un vero ecclesiastico (Milano 1760) - il quale influì in modo profondo e duraturo sulla rigorosa concezione che il D. ebbe del ministero sacerdotale.
Nel settembre del 1755 il D. rinunciò, in favore del fratello maggiore Gian Stefano, alla propria parte di patrimonio familiare, ereditata dieci anni prima, alla morte del padre, e si trasferì a Roma. Qui fu ordinato sacerdote (1757) e completò i suoi studi con il diritto civile e canonico, sotto la guida dell'avvocato rotale F. Gabrielli. Coltivava intanto interessi eruditi - per l'antichità classica e cristiana, per le lingue orientali -; frequentava le adunanze di una dotta "accademia", che si riuniva attorno ad A. E. Visconti, suo protettore, e dell'Accademia teologica presieduta da P. Balzarini.
Il 28 marzo 1763 giunse al D. la nomina a cameriere segreto di Clemente XIII; subito dopo, lasciò Roma per Napoli, la Sicilia e Malta, primo di una lunga serie di viaggi che da allora in poi ebbe agio di compiere, mosso dal gusto, tipico dell'età sua, di conoscere luoghi celebrati per bellezze artistiche e per curiosità naturali, e di intrecciare ovunque colte amicizie. Si venne così tessendo la fitta rete dei suoi corrispondenti, con cui si intratteneva di archeologia, di letteratura, di teologia: tra gli altri, G. Tiraboschi, S. Donati, F. Mingarelli, M. Guarnacci - che nel 1764 lo annoverò tra gli accademici Sepolti di Volterra -, G. D. Mansi, G. M. Pagnini, P. A. Slatri, A. M. Gardini.
Nel settembre del 1763 fece ritorno a Milano, dove rimase alcuni anni, dedicandosi a ricerche antiquarie, in rapporto con gli eruditi G. Giulini, G. Allegranza e A. F. Frisi. Nel decennio 1767-77 viaggiò molto, cercando sollievo ad una cronica affezione cutanea nel mite clima di Liguria e Provenza e visitando altri luoghi d'Italia. Nel 1770 era però nuovamente a Milano: nominato canonico dell'imperiale basilica di S. Ambrogio, divenne prefetto di quell'archivio e pose mano al suo riordino: rinunciò al canonicato nel '74, serbando su di esso una pensione. Nel 1777 si stabilì a Roma, intendendo adoperarsi per ottenere un vescovato; ma l'occasione opportuna giunse per lui solo nel 1783, allorché il card. F. Herzan lo presentò a Giuseppe II in visita a Roma: il 24 nov. 1784 il sovrano lo destinava alla sede vescovile di Lodi, allora vacante. Consacrato vescovo il 24 febbr. 1785 dal card. A. E. Visconti, il D. fece il suo ingresso nella diocesi il 13 aprile, senza sfarzo - con la "modestia che vuol essere in ogni cosa del vescovo", per il quale è "stretto dovere" riservare parte delle sostanze ai poveri (lettere al fratello da Roma, 15 e 26 genn. 1785: Lodi, Arch. d. Mensa vescovile, arm. II, scaff. II, cart. 20/S).
Nell'editto del 6 giugno 1785sui costumi e la disciplina del clero (Lodi, Arch. Curia vesc., cart. Circolari Della Beretta)egli proclamava come primo suo impegno pastorale il curarsi "unicamente della buona qualità e giammai della quantità indistinta del clero". Né questa rimase semplice enunciazione di principio: severità nella selezione degli aspiranti chierici e nel controllo sulla disciplina del clero diocesano furono, per quanto i tempi glielo consentirono, gli strumenti di cui si valse a questo scopo; ed ancora in punto di morte avrebbe ribadito che non si pentiva "di averne allontanati alcuni dal Santuario" (14 febbr. 1816:Lodi, Arch. d. Mensa vescovile, arm. II, scaff. IV, cart. 17/O). Ebbe, del suo ministero episcopale, un'alta e rigorosa coscienza: significativa, a tale proposito, la ripugnanza da lui manifestata per la prassi, in vigore anche nella curia di Lodi, di riscuotere "emolumenti" per ordinazioni e collazioni beneficiali, in contrasto con le norme tridentine; ed il suo progetto di procedere ad una radicale riforma, "salariando con le rendite della Mensa vescovile" tutti gli ufficiali di curia (promemoria s. d., ma del 1787:Ibid., arm. II, scaff. IV, cart. Z). Adempì con zelo ai suoi obblighi episcopali: rimise in vigore, secondo l'ordinamento borromeiano, le annuali "congregazioni" dei vicari foranei; tra il 1786 e il 1789compì la visita pastorale della diocesi.
Negli anni della massima affermazione del giurisdizionalismo giuseppino, come durante le travagliate vicende della Repubblica cisalpina, il D. non esitò a porsi come intransigente difensore dei diritti della Chiesa e dell'ortodossia dottrinale, affrontando scontri anche assai duri con il governo. Questo atteggiamento di inflessibile opposizione, incurante di ogni calcolo politico, può ben assumersi come uno dei tratti più caratteristici del suo episcopato, insieme con il rigorismo ed il radicale pessimismo che improntano la sua visione della società: tra le sue carte, numerosi sono gli appunti e i memoriali per le autorità sul dilagare della corruzione, le cui cause risiedevano, a suo giudizio, principalmente nella scandalosa tolleranza da parte dello Stato e nell'impotenza di una Chiesa spogliata della propria giurisdizione.
Nell'ottobre del 1785 il D. ricusava di concedere una dispensa matrimoniale, in contrasto con la nuova normativa giuseppina. Di questo fu chiamato a rendere conto al ministro plenipotenziario per la Lombardia J.-J. Wilzeck, per espresso ordine sovrano. L'anno seguente, di fronte all'opposizione del D. a pubblicare l'editto del 25 settembre che regolava le cerimonie religiose, sembra gli venisse minacciato il sequestro dei redditi della mensa vescovile. Alla morte del sovrano, nel 1790, il D. si unì con ardore all'azione intrapresa dai vescovi lombardi contro l'edificio delle riforme ecclesiastiche giuseppine, e anzitutto contro il seminario generale di Pavia, la cui apertura aveva significato anche per Lodi, nel 1787, la soppressione del seminario diocesano. Sottoscrisse la "rappresentanza" dell'arcivescovo di Milano F. M. Visconti a Leopoldo II (17 giugno), ma avrebbe voluto, e se ne fece invano fautore, un'iniziativa più energica, una vera e propria trattativa dei vescovi con Vienna. In questo clima di aperta reazione al giuseppinismo, fi D. fu al centro di un altro "caso": con un decreto ordinò ai parroci di intimare l'interdetto ai trasgressori del precetto pasquale (agosto 1791); ma un gruppo di parroci ed un possidente, colpito dal provvedimento, fecero ricorso al governo. Chiamato in causa dal Wilzeck, il vescovo di Lodi rispose con la consueta intransigenza, invocando, in una materia "di mera coscienza, e di oggetto spirituale", la sola autorità del proprio metropolita (minuta di lettera, 31 ott. 1791: Lodi, Arch. d. Mensa vesc., arm. II, scaff. I, cart. Vicarj foranei).
Il 10 maggio 1796 il Bonaparte sconfisse l'esercito austriaco al ponte di Lodi; il giorno seguente, il D. si recava a rendergli omaggio, invitandolo a pranzare in vescovado. Ma di amichevole, nel suoi rapporti con il nuovo regime, vi fu solo l'esordio: la sua profonda avversione per le nuove idee democratiche, ed i gravami e le spoliazioni che anche la Chiesa lodigiana ebbe a subire dall'occupazione francese resero in breve sempre più ferma la sua volontà di non collaborazione, ed ostentato il suo dissenso. Dopo alcuni scontri, si giunse all'aperta rottura, determinatasi sulla questione della nomina del parroco di Codogno.
Gli abitanti di Codogno avevano chiesto, in una petizione al vescovo (29 maggio 1797), che designasse a tale carica il loro concittadino don Pietro Mola, insegnante nel seminario lodigiano, la cui candidatura era sostenuta anche dal ministro degli Interni. Proprio a causa del favore di cui il Mola godeva presso il governo repubblicano, il D. dovette ritenere inopportuno affidargli la parrocchia più importante della diocesi; e l'8 ag. 1797 nominò parroco di Codogno tale don Felice Zambellini, che naturalmente non ottenne il placet. Nonostante pressioni e minacce, il D. fu irremovibile nel ricusare al Mola il certificato di idoneità necessario per concorrere all'elezione popolare, indetta, secondo le nuove leggi ecclesiastiche della Cisalpina, per la parrocchia di Codogno.
Per queste "prove non equivoche del suo incivismo", il 17 ag. 1798 l'"incorreggibile e recidivo" vescovo di Lodi veniva sospeso dalle sue funzioni, e l'amministrazione generale del dipartimento dell'Adda era incaricata di prendere possesso dei beni del vescovato (decreto del Direttorio esecutivo 30 termidoro a. VI: copia in Lodi, Arch. d. Mensa vesc., arm. II, scaff. II, cart. 18). Il D., che si trovava nella villa di famiglia di Bulciago, non poté rientrare a Lodi, e dovette nominare un provicario ben accetto alle autorità.
Durante la sua assenza, l'arcivescovo di Milano concesse l'istituzione canonica al Mola, eletto nel frattempo parroco, nell'intento di chiudere l'incresciosa vicenda. Ma l'opposizione del D. nei confronti del Mola, se all'origine si era nutrita di ragioni eminentemente politiche, era ormai divenuta una questione di principio, l'intransigente difesa delle stesse prerogative episcopali. Per questo, negli anni che seguirono, il D. non esitò a porsi in conflitto con il suo arcivescovo, inoltrando ricorso alla Congregazione del Concilio; non volle accedere ad alcuna delle proposte di composizione di cui si fece promotore il ministro del Culto, G. Bovara; e sfidò, da ultimo, la disapprovazione della S. Sede, che premeva per un accomodamento. La vertenza si esaurì solo nel 1806, con la morte dello Zambellini e con la promozione del Mola a più alta carica.
Al ritorno degli Austriaci in Lombardia, il D. poté rientrare a Lodi (2 maggio 1799); ne ripartì l'aprile dell'anno seguente, alla volta di Venezia, dove era riunito il conclave, per sottoporre al Collegio cardinalizio il caso di Codogno. Dopo la vittoria di Napoleone a Marengo, che pose fine nel giugno alla restaurazione austriaca, il D. si stabilì dapprima a Treviso, poi, all'avvicinarsi delle truppe francesi, credette prudente ritirarsi a Capodistria. Nella primavera del 1801, allorché pensava di rimpatriare, il suo segretario G. B. Lampugnani gli scrisse da Lodi per dissuaderlo: il D. era infatti sotto accusa per aver cercato di rendere esecutiva la sentenza della Congregazione del Concilio, che invalidava l'istituzione canonica del Mola; e per questo sarebbe stato infatti, di lì a poco, condannato ad una multa. Ma la situazione politica non era ormai più quella del triennio rivoluzionario: e il 13 nov. 1801 il vescovo, ancora "esiliato", riceveva l'invito a partecipare, come deputato del dipartimento dell'Alto Po, alla Consulta convocata dal Bonaparte a Lione. Il D. si affrettò a raggiungere Milano, dove ottenne la restituzione dei beni posti sotto sequestro nel 1798; e di lì si mise in viaggio per Lione. Il 26 genn. 1802 il primo console lo nominava membro del Collegio elettorale dei dotti.
Nella sua partecipazione all'Assemblea di Lione si segnala soprattutto un vigoroso intervento di rivendicazione dei diritti della Chiesa sui beni espropriati; si racconta inoltre che, interpellato personalmente da Napoleone nel corso di una seduta, non volle celare un'amarezza ed un dissenso che gli anni dovevano ulteriormente inasprire: "Il vescovo di Lodi - avrebbe detto - non ha altro più che tacere e piangere" (Lampugnani, 1892, p. 19).
Tacere e adattarsi non era però suo costume. Gli ancor lunghi anni del suo governo episcopale sono caratterizzati da un'aperta opposizione nei confronti del nuovo Stato napoleonico, della sua organizzazione amministrativa non meno che della sua politica ecclesiastica. Così, nel 1803, il Melzi citava proprio il caso del D. come rappresentativo della dichiarata avversione di una parte del clero riguardo all'impopolare istituto della coscrizione obbligatoria: alle richieste di collaborazione del governo - scriveva - vescovi e parroci "hanno corrisposto pro forma e qualch'uno nemmen tanto, come il vescovo di Lodi, che dice non potersi il sacerdozio immischiare di ciò che riguarda la milizia" (lett. al Marescalchi, Milano 3 apr. 1803, in I carteggi..., IV, p. 237). Così, il prefetto dell'Alto Po rimproverava il D. - nel dicembre del 1804 - per l'abitudine di non rispondere a lettere e circolari inviategli dal ministro del Culto, Bovara, e rilevava come egli non avesse dato diffusione, nella diocesi di Lodi, né ad una circolare sull'innesto del vaiolo, né ad un'altra che annunciava l'amnistia per i disertori. Con il Bovara, continuatore di una tradizione giurisdizionalista di stampo giuseppino, i rapporti furono in effetti assai tesi, e frequenti i conflitti, che il D. non fece nulla per attenuare.
Nonostante il suo atteggiamento di scoperto dissenso, l'anziano e battagliero prelato veniva insignito da Napoleone, il 28 marzo 1811, del titolo di barone del Regno d'Italia.
Già da un anno gravemente malato, il D. morì a Lodi il 16 febbr. 1816.
Fonti e Bibl.: Lodi, Arch. della Mensa vescovile, arm. II, scaff. I, cartt. Q, Vicarj foranei, A, 20/S; scaff. II, cartt. 10/L, 18, Carte particolari; scaff. III, cartt. G, 15, 22, 23, 25, 26; scaff. IV, cartt. U, 17/0, Z; arm. VII, cart. VI; Ibid., Arch. d. Curia vescovile, cart. Circolari Della Beretta; Ibid., Bibl. com. Laudense, ms. XXIV-A-19: A. Orietti, Mem. riguard. la città di Lodi..., passim; Ibid., A.XXI, f. A, nn. 87-90: A. Cagnola, Orazione funebre in morte di R. da Edling; Ibid., Arch. storico municipale, D. B., 62-84, 187; Arch. di Stato di Milano, Culto, p. antica, cartt. 3, 4 (fascc. 3, 11, 14), 558 (fascc. 59, 60), 568 (fascc. 2, 14, 18), 569 (fasc. 21), 2125 (fasc. 4); Milano, Bibl. Ambrosiana, A. 349 inf.; Archivio Segreto Vaticano, Lettere di vesc. e prelati, vol. 312, f. 473; Processus Consistoriales, vol. 186, ff. 60-67; S. Congregationis Concilii Relat., 453 A; Vienna, Haus-, Hof-und Staatsarch., Familien Archiv, Sammelbände, 26; Lombardei Correspondenz, 320 (r. d. 8 dic. 1791); P. Valdani, In morte di S. A. Rev.ma R. G. da Edling, Milano 1804; G. Salmoiraghi, Oraz. funebre per mons. G. A. D., Milano 1816; I Comizi naz. di Lione..., a cura di U. Da Como, Bologna 1934-1940, I, p. 410; II, 1, pp. 73, 245; 2, pp. 555, 615; III, 1, p. 97; 2, pp. 45 s.; I carteggi di F. Melzi d'Eril, a cura di C. Zaghi, Milano 1960, IV, pp. 236 s.; G. B. Lampugnani, Mem. sulla vita del conte G. A. D., in Arch. stor. per la città e comuni del circondario di Lodi, X (1891), pp. 97-112, 137-57; XI (1892), pp. 1-37; Cronaca del 1799, ibid., X (1891), pp. 179-88; P. Ferrari, Biografia di R. da Edling, ibid., XXII (1903), pp. 122-35, 161-77; F. Cusani, Storia di Milano, IV, Milano 1867, pp. 341-44; G. Agnelli, Lodi e suo territorio nel Settecento, in Archivio storico lombardo, s. 3, VIII (1897), p. 369; Id., Una piccola città lombarda (Lodi) durante la Repubblica cisalpina, in Arch. stor. ital., s. 5, XXIV (1899), pp. 193-248; L. Samarati, I vescovi di Lodi, Milano 1965, pp. 276-98; S. Cuccia, La Lombardia alla fine dell'Ancien régime, Firenze 1971, pp. 81 s.; X. Toscani, Il clero lombardo dall'Ancien régime alla Restaurazione, Bologna 1979, pp. 216-26; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica..., VI, Patavii 1958, p. 254.