Delio Cantimori
Delio Cantimori è stato agli occhi di tanti un «grande maestro» (Sasso 2005, p. 278) nella cultura italiana ed europea del Novecento. È questa realtà di fatto che sollecita a continuare a leggerlo e a studiarlo: studiarlo nei percorsi e nelle esperienze che lo hanno reso tale, nei risultati delle sue ricerche storiche, nelle sue proposte sul senso e la funzione dello studio della storia, nelle sue indicazioni sui modi con cui va studiata. Tale riconoscimento, un tempo largamente condiviso, è stato in questi ultimi anni variamente messo in discussione, con interventi, talvolta, al limite della denigrazione, in riferimento soprattutto alle sue scelte politiche.
Delio Cantimori nacque a Russi (Ravenna) il 30 agosto 1904, primo di tre figli. Suo padre Carlo, insegnante e preside di liceo, era studioso di Giuseppe Mazzini, ardente repubblicano e anticlericale. Nella fede in questi valori fu educato il giovane Delio, in un contesto violentemente antimonarchico e di pieno discredito delle istituzioni dell’Italia liberale, e condividendo sino in fondo la passione politica che della Romagna era allora più che mai un tratto saliente. Nel liceo classico di Ravenna, dove condusse buona parte dei suoi studi, ebbe professori il latinista Cesare Bione (che lo indirizzò alla Scuola Normale di Pisa) e Galvano Della Volpe, laureato di fresco in filosofia a Bologna.
Seguendo il padre negli spostamenti cui lo portavano le sue funzioni, terminò gli studi liceali a Forlì, dove conseguì la maturità classica nel 1924. Nel novembre di quello stesso anno vinse un posto di convittore interno alla Scuola Normale di Pisa e si iscrisse alla facoltà di Lettere della locale Università. Furono anni importanti: per l’incontro con Giovanni Gentile e Giuseppe Saitta, che insegnava storia della filosofia e con il quale si laureò nel giugno 1928 discutendo una tesi su Ulrich von Hutten, e per il formarsi di solidi legami di amicizia che durarono tutta la vita. In quell’ambiente Cantimori mise anche un primo punto fermo alla sua passione politica iscrivendosi nel 1926 al Partito fascista, inteso, sulla scia degli orientamenti di Gentile e soprattutto di Saitta, come l’unica forza capace di portare a termine la rivoluzione nazionale italiana iniziata con il Risorgimento (un’ampia testimonianza autobiografica su tale scelta è offerta da una nota del 30 agosto 1934, in Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura di A. Prosperi, 1992, pp. XXI e seg.). Nel 1927 iniziò la sua collaborazione con «Vita nova», la rivista del fascismo bolognese fondata da Leandro Arpinati, che, sotto la direzione di Saitta, di tali idee e del dibattito che ne derivava era vivace espressione.
Dopo la laurea trascorse ancora un anno di studio alla Normale e nel 1929 discusse con Gentile la tesi di perfezionamento sul concetto di Rinascimento. Nel settembre dello stesso anno vinse il concorso per una cattedra di storia e filosofia nei licei e ciò lo portò a insegnare per due anni al liceo classico Dettori di Cagliari. Nel giugno del 1931 si laureò a Pisa anche in letteratura tedesca (una conferma del suo interesse per quella cultura già emerso nella sua collaborazione a «Vita nova») e nell’ottobre ottenne il trasferimento al liceo classico Ugo Foscolo di Pavia. Nel dicembre però, grazie a una borsa di studio ministeriale, si trasferì a Basilea e vi rimase fino al luglio del 1932, iscrivendosi alla facoltà di Teologia, dove seguì i corsi di storia della Chiesa e dei dogmi di Ernst Staehelin e quelli di teologia sistematica di Johannes Wendland, avviando insieme ricerche sugli eretici e protestanti italiani del Cinquecento.
Rientrato in Italia, Cantimori riprese il suo insegnamento pavese stabilendo rapporti amicali con Baldo Peroni, insegnante nel suo stesso liceo, e con Renato Sòriga, direttore del locale museo civico, due studiosi che si richiamavano alla scuola storica positiva. Risale a questo periodo anche l’inizio dei suoi rapporti con Carlo Morandi e Federico Chabod, e della sua collaborazione a «Leonardo», la rivista di cultura e informazione bibliografica diretta da Federico Gentile.
Nell’estate 1933, grazie all’appoggio di Giovanni Gentile e di Gioacchino Volpe, ottenne dalla Fondazione ‘Volta’ della Reale Accademia d’Italia un assegno di studio che, a partire dal 1° agosto 1933, gli permise di riprendere la sue ricerche cinquecentesche, in un lungo viaggio attraverso l’Europa sulle tracce degli eretici e riformati italiani. Durò più di un anno e le sue tappe furono Coira, Zurigo, Salisburgo, Vienna, Cracovia (dove incontrò Stanisław Kot, il grande studioso del socinianesimo, con cui stabilì un durevole legame), Breslavia, Berlino, ancora Zurigo, Londra, Dublino. Fu un viaggio ricco di conoscenze nuove, ma soprattutto occasione anche di una più ravvicinata e consapevole attenzione per quanto stava avvenendo in Germania, dopo la vittoria del nazionalsocialismo e l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Rientrato in Italia il 15 settembre 1934, divenne nell’ottobre assistente presso l’Istituto italiano di studi germanici di Roma, addetto alla redazione della rivista «Studi germanici» e alla direzione della biblioteca. Risalgono a questo periodo una più diretta conoscenza degli scritti di Karl Marx e il suo distacco dalle illusioni giovanili sul fascismo. Un’attestazione indiretta è costituita dal suo rapporto con Emma Mezzomonti, militante comunista del ‘Soccorso rosso’, sposata nel febbraio 1936 (cfr. Vivanti 1991, p. 783).
Nel dicembre 1936 conseguì la libera docenza in storia della Chiesa e l’anno dopo ottenne l’incarico dell’insegnamento di storia del cristianesimo presso la facoltà di Lettere dell’Università di Roma. Continuarono anche i suoi periodici viaggi all’estero, in vista della sue ricerche ereticali: negli anni tra il 1935 e il 1938, sempre in agosto-settembre, fu via via a Zurigo, Basilea, Lipsia, Dresda e Parigi. E a Basilea tornò ancora nei primi mesi del 1942, su invito di Werner Kaegi, per tenere alcune conferenze presso la Historische und Antiquarische Gesellschaft della città: attestazione ulteriore dei particolari rapporti che aveva stabilito con quegli ambienti (cfr. Kaegi 1967, p. 891).
Nel 1939, dopo la pubblicazione presso Sansoni degli Eretici italiani del Cinquecento, vinse il concorso universitario alla cattedra di storia moderna e iniziò l’insegnamento al Magistero di Messina. Nel 1940 vi furono il ritorno alla Scuola Normale, dove Gentile lo chiamò come professore interno di storia, e l’avvio degli studi sul socialismo utopistico e i riformatori e giacobini italiani del tardo Settecento e del primo Ottocento. Risale a questi stessi anni l’inizio della sua collaborazione con Giulio Einaudi e la sua casa editrice, che diverrà molto intensa nel dopoguerra. È di questo periodo anche la nascita di un legame di amicizia con Hubert Jedin, il grande storico del Concilio di Trento, ospite frequente della sua casa romana (cfr. Jedin 1984; trad. it. 1987, pp. 239 e seg.).
Sono i duri anni di guerra, così a lungo incerti negli esiti, e durante i quali Cantimori venne rafforzando la sua collaborazione con il movimento comunista clandestino di cui, al di là di testimonianze più tarde, restano poche, ma precise tracce coeve: tra l’altro, il fatto che nel 1939 ospitò nella sua casa Velio Spano, entrato clandestinamente in Italia come inviato del centro estero del partito. Anche la presentazione, all’indomani della liberazione di Roma, dell’ampio progetto di una collana, che avrebbe dovuto essere da lui diretta, sul Pensiero sociale moderno, suggerisce un’attività già operante negli anni precedenti (Miccoli 1970, pp. 203 e segg.). Ma merita anche ricordare l’ospitalità offerta durante l’occupazione nazista di Roma, con evidente rischio personale, a un’amica ebrea, Serena Cagli Basaldella, che anni dopo ne diede una testimonianza che voleva essere pubblica: «Venero la memoria di questi amici», scrisse riferendosi sia a Delio sia alla moglie Emma, «per loro posso ancora credere che le parole fratellanza e coraggio abbiano un significato» (cit. in Tedeschi 2002, p. 51 e nota 132).
Nel 1948, quasi in risposta alla vittoria democristiana del 18 aprile, prese la tessera del Partito comunista. Lo lascerà silenziosamente nel 1956, all’indomani dei fatti di Ungheria, ma soprattutto, come si vedrà, per gravi dissensi sulla linea culturale del partito. In quello stesso anno assunse l’insegnamento di storia moderna alla facoltà di Lettere di Pisa per passare nel 1951 alla facoltà di Lettere di Firenze. Mantenne però, fino al 1956, l’incarico di storia della Chiesa presso la Normale, per poi ottenere, dopo una breve interruzione, nel 1960, quello di metodologia della storia.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta aveva ripreso le ricerche sul Cinquecento religioso, senza tralasciare però un’intensa attività pubblicistica, di prefazioni, recensioni, traduzioni, interventi su riviste sia di storia sia di cultura generale, che era poi il suo modo di insistere «sul significato dello studio della storia nella formazione del cittadino» (Mangoni 2004, p. 70). Nel luglio 1960 gli venne conferita, insieme a Stanislav Kot, la laurea honoris causa dall’Università di Basilea (cfr. Kaegi 1967, p. 889). Nei primi mesi del 1966 trascorse un periodo di studi a Princeton su invito di Felix Gilbert. Le condizioni di studio e di lavoro che vi incontrò lo entusiasmarono: «sono soddisfatto e felice», scrisse a Giuseppe Alberigo (cit. in Miccoli 2010, p. 920), e non sono in lui espressioni consuete. Morì improvvisamente a Firenze il 13 settembre di quello stesso anno per le conseguenze di un banale incidente.
L’ambito in cui fin dall’inizio si mossero i suoi studi fu il Cinquecento religioso e politico. Ancora studente scrisse un saggio, pubblicato nel 1927, sul caso della congiura e della condanna di Pier Paolo Boscoli narrato da Luca della Robbia, ed è del giugno del 1927 la sua tesina in storia e filosofia su Bernardino Ochino uomo del Rinascimento e riformatore. E in quest’ambito di interessi si muove anche la sua tesi di laurea su Ulrico von Hutten e i rapporti tra Rinascimento e Riforma.
Le premesse di tali ricerche si richiamano chiaramente alla visione generale della filosofia attualistica di Gentile. Le diverse personalità prese in esame assumono, per dir così, una funzione tipica, di illustrazione dei caratteri e dei rapporti tra Rinascimento e Riforma, ipostatizzati nelle loro caratteristiche e visti entrambi come due momenti di quell’unica rivoluzione che sta all’origine del pensiero e della civiltà moderni: momento soggettivo, astratto, dell’«autocoscienza singola», il primo, momento «oggettivo» il secondo, che diventa dell’«autocoscienza piena». Ma se questo è lo schema generale che intende sorreggere e guidare l’impianto dei suoi lavori, emergono già in essi un’attenzione e un gusto per le determinazioni concrete, la tendenza a piegare in qualche modo quelle concettualizzazioni generali alla specificità delle situazioni, e ad avvertire dunque, sia pure ancora confusamente, una loro inadeguatezza, di cui una prima sistemazione teorica è espressa nel saggio Osservazioni sui concetti di cultura e di storia della cultura del 1928 (che darà occasione a un intervento critico di Benedetto Croce; cfr. Miccoli 1970, pp. 36 e segg.).
Si tratta di una tendenza che troverà sostegno e conferma nella «scoperta» di Lucien Febvre, prima attraverso un articolo di Morandi (Problemi storici della riforma) pubblicato su «Civiltà moderna» (nel 1929 ma uscito nel 1930, pp. 668-80), e subito dopo attraverso la lettura del saggio di Febvre, Une question mal posée: les origines de la Réforme française et le problème général des causes de la Réforme, uscito sulla «Revue historique» (1929, 161, pp. 1-73). Nel saggio, oltre all’affermazione del carattere storico, storicamente definibile e delimitabile, del sentimento religioso, Cantimori trovava enunciato un principio di metodo fondamentale per uno studio della storia che non fosse espressione delle proprie concezioni generali: l’affermazione cioè che un uomo del 16° sec. va studiato e compreso non in rapporto a noi e alle nostre idee, ma in rapporto ai suoi contemporanei e alle loro idee. Era un primo punto fermo di un percorso che avrà un coerente e articolato sviluppo successivo, nella crescente consapevolezza che lo studio della storia richiede di evitare, come prima elementare cautela critica, che la passione e gli orientamenti del ricercatore si sovrappongano alla realtà dei personaggi e delle situazioni indagate. Non a caso, qualche anno dopo, egli potrà segnalare il limite grave di quella scuola, che era stata anche sua, nel fatto che «la sovrabbondante passione per una verità e una convinzione da affermare polemicamente» finisse per ricoprire la figura storica del personaggio studiato: «la storia del pensiero rimane dissolta nell’affermazione del proprio attuale pensiero» (cit. in Politica e storia contemporanea, a cura di L. Mangoni, 1991, p. XVI). E in effetti, pur richiamandosi ancora a Gentile, si muove ormai in termini largamente indipendenti da lui il lungo saggio Sulla storia del concetto di Rinascimento, del 1932, che costituiva in origine la sua tesi di perfezionamento. Ma sarà il primo soggiorno a Basilea ad aprirgli ulteriormente gli occhi sui caratteri e le esigenze di un’autentica ricerca storica, e ad avviarlo allo studio degli ‘eretici’ italiani del Cinquecento.
A Basilea Cantimori era arrivato, come scrisse in occasione della traduzione tedesca degli Eretici, con il proposito di studiare la partecipazione italiana alla Riforma, nella prospettiva di una ricerca sui «precursori italiani», in posizione di primato, del pensiero moderno, e dunque secondo un progetto condotto «sul piano esclusivo della storia del pensiero filosofico». Ma ben presto si rese conto, nello svolgimento del lavoro, che, con tale approccio, se di «rapporti tra idee ed idee se ne potevano stabilire tanti, e così facilmente, che alla fine sorgeva il sospetto della loro arbitrarietà», restavano del tutto lontane e sfuggenti le vite degli uomini, le loro attività, i loro reciproci rapporti (Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, cit., pp. 11 e seg.).
Ne derivava la necessità di dare alla propria ricerca una base nuova, che non fosse offerta da quei concetti generali da cui precedentemente partiva: il paziente scavo erudito, la puntuale analisi filologica dei testi divenivano così una componente essenziale e preliminare del suo lavoro. Inizia da qui, attraverso lo scavo a largo raggio condotto in archivi e biblioteche, la scoperta di personaggi, opuscoli e trattati di quel settore dell’emigrazione italiana critico verso l’ortodossia di tutte le Chiese. Sono ricerche che troveranno una prima illustrazione nei saggi pubblicati negli anni successivi, per confluire poi nell’importante edizione di testi del 1937, curata insieme a Elisabeth Feist. Risale anche al soggiorno a Basilea l’inizio dei suoi rapporti con Roland H. Bainton, autore allora di un saggio su Sebastiano Castellione e la sua protesta contro Giovanni Calvino per il rogo cui era stato condannato Michele Serveto (nel 1963 Bainton dedicherà a Cantimori, con parole non consuete, una sua raccolta di studi sulla riforma: «Delio Cantimori, amico multos post annos fideli, animae candidae» (cit. in Tedeschi 2004, p. 22 e nota 30). Ed è a Basilea che il contatto con il mondo protestante, vivificato dalla «teologia della crisi» di Karl Barth, lo porta ad abbandonare «la concezione ingenua della religiosità protestante come religiosità filosofica», mentre la «scoperta» della teologia e della sua forza mobilitante lo apre alla consapevolezza della profonda riserva di energie di cui la religione era capace. Comincia anche da qui una più diretta presa di contatto con il mondo tedesco, cui peraltro da tempo si era orientata la sua attenzione. Prendono così corpo due precisi filoni di ricerca: lo studio degli eretici del Cinquecento e l’analisi delle correnti politiche e culturali dell’attualità tedesca; due realtà profondamente diverse, ma legate dalla comune caratteristica di essere per tanta parte espressione di un «mondo sotterraneo», ribollente di passioni (Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, cit., p. XX).
Del fascismo giovanile di Cantimori si è già detto. Dei suoi caratteri e delle illusioni che lo nutrirono scrisse anche in anni recenti; e se ne definì i tratti come un «mistero di stoltezza», precisò però che del fascismo è impossibile parlare genericamente, come se fosse stato una balena che tutto inghiottì e portò alla perdizione, perché bisogna discernere «la varietà di correnti, movimenti, tendenze, interessi […] ma anche illusioni, fantasie, incoscienze ecc. ecc., che permisero a Mussolini e ai suoi di conquistare il potere»; un’esigenza di discernimento, ricordava Cantimori, che vale anche per l’antifascismo. Si è già accennato anche alla sua collaborazione a «Vita nova», che durò dal 1927 al 1932. I suoi numerosi articoli riguardano soprattutto due versanti: da una parte gli orientamenti del fascismo e i suoi caratteri, in particolare contro l’interpretazione clericale e reazionaria di esso (fortemente espressivo fin dal titolo un suo intervento del 1931: Fascismo: rivoluzione e non reazione europea); e, dall’altra, le tendenze politico-ideologiche di gruppi giovanili tedeschi, antidemocratici e «antiborghesi», gravitanti in parte intorno al nazionalsocialismo in lenta crescita, ma in parte ancora da esso distinti, e che guardavano a certi aspetti del fascismo italiano come a un modello (ma merita ricordare come già in questi primi articoli del 1928-29 la più evidente differenza di questi movimenti dal fascismo fosse indicata nella «mai abbastanza deprecata mentalità razzista», e che la «mentalità razzistica, etnicistica» fosse definita «una non bella eredità della guerra»).
Di questi interventi, espressione dell’interesse e della curiosità di Cantimori per questo mondo in parte sotterraneo, torbido, emozionale, non privo di singolari aperture alle realtà del comunismo sovietico, rileverei in particolare anche due altri aspetti: lo sforzo che mettono in luce di scoprire dietro formule e miti irrazionali, o apparentemente tali, i fini e gli interessi politici (come quando, in un saggio del 1927, interpreta l’antisemitismo di questi gruppi come strumento di una battaglia contro «gli ideali democratici e umanitari a carattere utopistico ed universalistico», Politica e storia contemporanea, cit., pp. 31 e anche 27); e, in secondo luogo, l’insistenza programmatica sulla necessità di informarsi, capire, storicamente e criticamente, per fondare un giudizio valido a imbastire un’azione politica.
Sono spunti, osservazioni, rilievi non privi di interesse in una biografia intellettuale di Cantimori; non più della premessa però di quell’ampia serie di contributi che, con ben altra informazione e penetrazione, e in distacco ormai dal fascismo, egli dedicherà, a partire dalla metà degli anni Trenta, a questi stessi argomenti e in particolare al nazionalsocialismo trionfante: con edizione di testi (i Principii politici del Nazionalsocialismo di Carl Schmitt, del 1935), con la pubblicazione di ampi saggi, note critiche e recensioni su «Leonardo», sull’«Archivio di studi corporativi» e su «Studi germanici», e con la stesura di una serie di voci per il Dizionario di politica dell’Istituto della Enciclopedia Italiana (4 voll., 1939-1940), la più importante delle quali è indubbiamente Nazionalsocialismo (ma vanno ricordate anche alcune altre, come Germania: storia e problemi politici, Neopaganesimo, Onore). Non giunse invece alla pubblicazione, ‘travolto’ per dir così dalle vicende della guerra, il volume antologico sul nazionalsocialismo che Cantimori aveva redatto (non è chiaro se in una stesura completa) su incarico di Volpe per la collana dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) Documenti di storia e di pensiero politico.
È un complesso imponente di scritti, nei quali Cantimori adotta uno stile espositivo strettamente analitico e descrittivo, attento a illustrare in tutte le loro pieghe e ricadute gli orientamenti e le posizioni prese in esame, nella volontà primaria di conoscere e di far conoscere, ed evitando giudizi che apparissero ideologicamente ispirati. Potevano averlo dettato ragioni di prudenza, legate ai tempi (la scelta di una «prassi nicodemitica», evocata talvolta nella memorialistica, che rinviava a comportamenti dei suoi eretici), ma esso corrispondeva pienamente allo stile di scrittura presente nei suoi scritti di ricerca storica: ciò che attesta come tale stile nascesse in primo luogo dal tipo di approccio alle diverse realtà, non importa se del passato o del presente, che egli riteneva necessario per poter conseguire una conoscenza effettiva delle cose. Era il suo modo di intendere il contributo che un intellettuale era chiamato a dare, decifrando con rigore e serietà le grandi questioni del proprio tempo, per la crescita nella società di un’autentica consapevolezza civile e politica. Non a caso, del resto, in una recensione del 1934, in riferimento ai «reazionari che scrivono e predicano nella nuova Germania» e agli «stolti antisemiti e ai razzisti fanatici», egli aveva ammonito che
non basta aver mostrato la vanità dell’argomento dell’avversario, perché l’avversario non esista più. Specialmente quando questo avversario offre argomenti facili e lusingatori alla pigrizia delle masse ed ai timori ed ai rancori dei singoli (più ampiamente in Miccoli 1970, pp. 42 e segg.).
Sono frutto del totale fraintendimento di questo stile di lavoro e di scrittura, oltre che di una totale incomprensione del suo modo di fare storia, gli scandalizzati commenti, più o meno recenti, sorti intorno a questi scritti. La domanda se ciò che viene analizzato e scritto corrisponde a fatti e dati reali esula del tutto da tali commenti. Per questo le sue analisi descrittive, asettiche, volutamente oggettive, l’individuazione dei complessi risvolti, successi, prospettive della politica del III Reich vengono lette come espressione delle simpatie, delle idee, degli orientamenti dello stesso Cantimori. Si arriva così a scrivere che Cantimori, «ancora da uomo maturo, era entusiasta del nazionalsocialismo» («La Stampa», 7 ottobre 2007, p. 33, nel riassumere i giudizi di un articolo di Alberto Papuzzi); si definisce «agghiacciante», senza ulteriori specificazioni, la voce Nazionalsocialismo del Dizionario di politica, affermando perentoriamente: «Cantimori non fu ‘gentiliano’, ma organicamente fascista» (C. Ossola, «Il Sole 24 ore», 31 luglio 2005); si arriva a individuare «l’elemento apologetico» nel fatto stesso di scegliere di trattare certi temi, come, ad es., di recensire la traduzione italiana del Mein Kampf di Hitler e l’edizione degli scritti di Benito Mussolini (già in Craveri 1975, p. 286, poi variamente ripetuto; ma si veda su quel testo ‘biografico’ Berengo, Vivanti 1976); con anacronistica faciloneria si ritiene indizio di persistenti simpatie politiche la collaborazione, alla fine degli anni Trenta, con iniziative culturali e organi del regime, senza tenere conto delle peculiarità e dell’approccio di tali interventi (D’Elia 2007, pp. 57 e seg.). Non manca il caso di una vera e propria manipolazione falsificante dei testi: Eugenio Di Rienzo, in riferimento a ciò che Cantimori scrisse del suo fascismo, cita questa sua dichiarazione, evocativa del «disordinato clima culturale del primo trentennio del secolo»: «la confusione che avevo in testa era colpa di Gentile, Croce, De Sanctis, Hegel, Mazzini, Gioberti, Gioacchino Volpe, Lutero, Burckhardt, Sorel» (Di Rienzo 2004, pp. 23 e seg.); omette però le parole che la precedono: «Non starò a fare l’analisi del come e del perché mi ero messo su quella strada, né mi metterò a dire che la confusione che avevo in testa era colpa di Gentile, Croce […]», con ciò che segue (Conversando di storia, p. 139). Ogni commento, credo, è del tutto superfluo.
Sono solo pochi esempi di una congerie di scritti che non è possibile analizzare compiutamente in questa sede: espressione anch’essi, mi pare di poter dire, dell’attuale incapacità (o difficoltà) di pensare uno studio della storia che non sia funzionale a finalità che poco o nulla hanno a che fare con la conoscenza storica perché irrimediabilmente soggetto alle proprie idee e pulsioni. Cantimori batteva una strada opposta, e fu in questo maestro: è la ragione, vien da pensare, che lo ha reso un bersaglio privilegiato.
Degli Eretici italiani del Cinquecento Kaegi scrisse (1967) che chi lesse il libro alla sua uscita «ebbe l’impressione che vi si rivelasse un nuovo aspetto del tardo Rinascimento in Italia e al tempo stesso un nuovo aspetto della storia della Riforma in Europa» (p. 890). L’osservazione coglie nel segno. Le vicende ricostruite nel libro, infatti, mettono in luce nuovi aspetti della storia italiana e della diffusione della Riforma in Italia, ma riguardano soprattutto la storia europea, non solo perché quegli esuli si sparsero per l’Europa, ma perché, dalla loro condizione di esuli «per causa di religione» e insieme di ribelli all’ortodossia delle nuove Chiese riformate, seppero elaborare, richiamandosi alla tradizione dell’Umanesimo, idee che furono feconde per la storia della cultura europea: dal principio di tolleranza a quello dell’aconfessionalità dello Stato, al primato della coscienza etica «squisitamente individuale di ogni singolo uomo».
Senza entrare nel dettaglio della lunga esposizione, nel succedersi dei percorsi dei tanti personaggi esaminati, che trovano il loro momento di coagulo nella critica e nel rifiuto della condanna di Serveto e una sintesi per dir così nel pensiero e nell’azione di Fausto Sozzini, penso si debba rilevare almeno quella che mi sembra la caratteristica di fondo dell’intera ricerca, che costituisce insieme una fondamentale indicazione di metodo: il fatto cioè che le idee, le dottrine, i pensieri, pur ampiamente esposti e analizzati, vengono sempre concretamente connessi a uomini, a libri, alla effettiva vita di relazione, nella consapevolezza che un’idea come un’ideologia possono presentare significati ed esiti molteplici, e non basta perciò descriverle e definirle, ma bisogna vederle incarnate esattamente, e operare e muoversi e scegliere, vederle insomma nel corso della loro vita reale, al di là del persistere delle astratte formulazioni esterne.
Il volume costituisce un punto d’arrivo nelle ricerche cinquecentesche di Cantimori. È degli anni immediatamente successivi, infatti, il suo volgersi alla storia degli utopisti e giacobini italiani (Utopisti e riformatori italiani 1794-1847 è del 1943). Walter Maturi (1962, p. 610) ha rilevato un nesso tra questi due ordini di ricerche nella questione della tolleranza religiosa, conquista degli eretici e questione presente ai giacobini italiani. Ma per spiegare un tale passaggio si dovrà forse tenere conto soprattutto dell’interesse che Cantimori aveva mostrato fin dai primi anni Trenta per le ricerche di Peroni e Sòriga per i gruppi iniziatici, sotterranei, segreti, che operano agli incunaboli del nostro Risorgimento con una volontà radicalmente riformatrice. Cantimori, volgendosi a queste ricerche, mirava a riscoprire le prime espressioni di un’azione e di un pensiero capaci di proporre consapevolmente il problema politico italiano sul piano sociale. Non è un caso, del resto, che il volume si apra con il ricordo di Carlo Pisacane e del suo riallacciarsi sia ai riformatori italiani del Cinquecento «che comprarono col sangue il diritto di ragionare», sia agli scrittori di filosofia e politica del Settecento, i «riformatori» nel senso più consueto del termine: Gaetano Filangieri, Cesare Beccaria, Francesco Mario Pagano, Gian Domenico Romagnosi. Era da parte di Cantimori il recupero di una tradizione divenuta marginale, un recupero che non mancava di ricadute sui problemi che venivano profilandosi nella società italiana di fronte alla crisi e alla caduta del fascismo.
Cantimori aveva cominciato a leggere Marx fin dai primi anni Trenta, ma credo sarebbe una forzatura riportare a tali letture la sua scelta comunista di cui in parte si è già detto: aiutarono però a determinarla. Ma un peso maggiore, credo, vi ebbero la consapevolezza del fallimento e del venir meno di ciò che egli aveva atteso dal fascismo, l’ammirazione per coloro che ne erano gli oppositori più radicali e l’esigenza di pensare al futuro dell’Italia nei termini di un profondo rinnovamento politico e sociale. Una sua parte vi ebbe certo l’intesa profonda con la moglie, comunista da tempo, e forse anche la percezione del rischio di una clericalizzazione cui la società italiana era esposta: fin dai primi anni Quaranta, analizzando una serie di testi vaticani, egli metteva in luce la tendenza nei vertici della Chiesa cattolica a rivendicare un ruolo di guida nella direzione della società (ciò che è altra e diversa cosa da quanto scrive Piero Craveri, che cioè la «polemica con la Chiesa cattolica appare un motivo costante nel Cantimori»: cfr. al riguardo Berengo, Vivanti 1976, p. 235).
Nel dopoguerra la collaborazione con il partito si attuò in particolare nell’ambito culturale, con saggi e recensioni pubblicati soprattutto su «Rinascita» e «Società», con gli studi su Marx e con la traduzione, condotta insieme alla moglie, del I libro del Capitale. Non mancarono incidenti, come avvenne in seguito alla pubblicazione del libro del gesuita Gustavo A. Wetter, Il materialismo dialettico sovietico (1948), da lui proposto all’Einaudi, che suscitò critiche furibonde nell’ambito del partito. E non è un caso che fin dal 1948, scrivendo di Max Weber, egli mettesse in guardia contro la «politicizzazione» degli studi, che conduce gli studiosi
a lavorare non per la ricerca e l’indagine aperte e spregiudicate, fine a se stesse, volte alla ricerca del vero, ma al ripiegamento del lavorare per dimostrare, direttamente o indirettamente, la giustezza della posizione che si è assunta (cit. in Manacorda 1979, p. 88).
Sono temi che riprenderà con vigore polemico in alcuni scritti del 1955 e 1956, contro gli orientamenti che gli sembravano emergere tra i giovani storici e gli intellettuali marxisti italiani: lo schematismo astratto, la strumentalizzazione politico-propagandistica del lavoro culturale, il dottrinarismo dogmatico con cui viene inteso il pensiero marxiano, la tendenza a fare conventicola e chiesuola, con le proprie ortodossie e le proprie scomuniche (Miccoli 1970, pp. 287 e segg.). A ciò si aggiungeva, come scrisse a Gastone Manacorda, «la pretesa dei dirigenti politici di dettare linea generale e conclusioni particolari» (Manacorda 1979, p. 104). Maturò così il distacco dal partito, forse accelerato dai fatti di Ungheria. Ma fu un distacco tacito. Alla fine del 1956 Cantimori non rinnovò la tessera.
«Penso di rimettermi davvero al mio caro Cinquecento religioso». Così, il 29 settembre 1956, scriveva Cantimori a don Giuseppe De Luca, il fondatore delle Edizioni di storia e letteratura e dell’«Archivio italiano per la storia della pietà», cui lo legavano rapporti di stima e di collaborazione. Fu un ritorno ai temi a lui più consueti (del resto mai del tutto abbandonati), ma secondo una prospettiva largamente nuova, anche sulla scia di una riflessione su alcuni aspetti dell’opera di Burckhardt, di cui nel 1959 tradusse e pubblicò, con un’ampia introduzione, le Meditazioni sulla storia universale. Non si trattava più di seguire il formarsi di quel gruppo di «eretici» che, disperso in tutta Europa, aveva riproposto e rielaborato, dando loro un respiro universale, aspetti fondamentali dell’Umanesimo italiano, ma di considerare quel movimento «specchio della vita religiosa del Cinquecento, e particolarmente della vita religiosa italiana». Ma c’era anche altro, nel senso che il progetto che si veniva profilando aveva direttamente al suo centro la società italiana del Cinquecento, la sua cultura, i diversi aspetti dei suoi orientamenti religiosi, non riducibili ai problemi e alle contrapposizioni suscitati dalla ribellione di Martino Lutero, né al formarsi del movimento ereticale. E tutto questo visto e considerato in una periodizzazione ampia, dal primo Cinquecento ai decenni iniziali del Seicento, di cui resta una prima traccia nei due saggi dedicati a Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini, e in quello, rimasto incompiuto, che ha come oggetto Galileo e la crisi della Controriforma. Si trattava inoltre di affrontare una realtà religiosa che rimaneva in qualche modo nascosta all’ottica propria delle grandi contrapposizioni dell’epoca. Come Cantimori scrive in uno dei suoi ultimi saggi (Le idee religiose del Cinquecento) erano manifestazioni «che non interessavano i contemporanei dotti né gli eredi di quelli»: «non teologia, non poesia, non eresia, non polemica, non filosofia; (ma) testimonianze di fede e di angoscia, di religiosità tradizionale di poveretti e donnette, gente […] umile e staccata dal mondo, cioè dalla società attiva e operante». Era una prospettiva che permetteva di rilevare un terreno in qualche modo largamente comune, nel quale solo successivamente prendono corpo diverse tendenze dottrinali e pratiche, e che nello stesso tempo finiva con il mostrare come quegli elementi di sensibilità religiosa, ancora elementare e indifferenziata, permanessero anche a livello più alto, riproponessero anche a livello colto alcune loro caratteristiche.
Da un certo punto di vista era il recupero, da parte di Cantimori, dell’importanza di uno studio dei fenomeni strutturali, di lunga durata, anche nella storia della cultura: un suo parziale ricongiungersi a esigenze della scuola delle «Annales», che risentiva insieme dell’influenza del metodo di ricerca di Aby Warburg e dei suoi continuatori, e della lettura attenta delle proposte e delle osservazioni che in tema di storia religiosa e di storia della pietà aveva avanzato De Luca. Erano tutti ripensamenti in corso, riflessi almeno in parte in un ampio progetto, redatto intorno al maggio 1966, di ritorno da Princeton (Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, cit., p. LXI). Ma tutto restò interrotto.
Le opere principali di Delio Cantimori sono ora raccolte nei due volumi Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura di A. Prosperi, Torino 1992, e Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, a cura di L. Mangoni, Torino 1991 (entrambi con importanti introduzioni dei curatori).
Restano estranei a queste raccolte i volumi Utopisti e riformatori italiani 1794-1847. Ricerche storiche, Firenze 1943, e Studi di storia, Torino 1959 (si tratta di una raccolta di scritti pubblicati tra il 1945 e il 1958).
Significative testimonianze delle sue esperienze giovanili sono offerte da:
Il mio liceo a Ravenna, in Ravenna una capitale, Bologna 1965, pp. 240-53.
Prefazione a R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino 1965, pp. XIII e seg.
Presentano interventi e saggi in gran parte assenti nelle altre raccolte i volumi postumi:
Conversando di storia, Bari 1967 (si tratta delle lettere scritte da Cantimori al direttore di «Itinerari» tra il 1960 e il 1964).
Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico, Torino 1971.
Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino 1975.
Dell’amplissima corrispondenza di Cantimori sono stati editi alcuni carteggi, ma anche, con una certa ampiezza, lettere sparse. Tenendo presente il suo avvertimento (troppo spesso dimenticato) a non pretendere di «conoscere quel che veramente non si può conoscere, l’intimo della personalità», secondo quanto già ammoniva il «vecchio e saggio Droysen», che cioè nel «santuario (della coscienza) non penetra lo sguardo dell’indagine» (Studi di storia, p. 227) si vedano, tra gli altri:
P. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti, Milano 1994.
J. Tedeschi, The correspondence of Roland H. Bainton and Delio Cantimori 1932-1966, Firenze 2002.
G. Imbruglia, Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana, Napoli 2003 (in appendice il carteggio Venturi-Cantimori dal 1945 al 1955).
A. Vittoria, Il Pci, le riviste e l’amicizia. La corrispondenza fra Gastone Manacorda e Delio Cantimori, «Studi storici», 2003, 3-4, pp. 745-888.
P. Chiantera-Stutte, Res nostra agitur. Il pensiero di Delio Cantimori (1928-1937), Bari 2005 (in appendice lettere con Capitini e Rossi).
G. Zazzara, Delio Cantimori e la «Rivista storica del socialismo». Carteggio con Luigi Cortesi e Stefano Merli, «Belfagor», 2009, 5, pp. 567-95.
Un elenco dei suoi numerosi corrispondenti è consultabile presso l’Archivio della Scuola Normale di Pisa.
Tra i numerosi studi che offrono un profilo complessivo si vedano:
G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, Torino 1970.
C. Dionisotti, Delio Cantimori, «Belfagor», 1998, 3, pp. 261-76.
L. Perini, Delio Cantimori. Un profilo, Roma 2004 (alle pp. 115-59 la bibliografia aggiornata degli scritti di Cantimori).
G. Sasso, Delio Cantimori. Filosofia e storiografia, Pisa 2005.
P. Chiantera-Stutte, Delio Cantimori. Un intellettuale del Novecento, Roma 2011.
Su aspetti particolari si vedano:
M. Berengo, La ricerca storica di Delio Cantimori, «Rivista storica italiana», 1967, 4, pp. 902-43.
I. Cervelli, “Storici e storia” nel pensiero e nella critica di Delio Cantimori, «Belfagor», 1972, 6, pp. 625-52.
M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori, Bari 1977 (ma si vedano al riguardo i fondati rilievi critici di B. Farolfi, Una storiografia al servizio dello Stato?, «Quaderni piacentini», febbraio 1978, 65-66, pp. 168-73).
R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario politico di Delio Cantimori, Milano 1997.
Si vedano inoltre, per gli altri scritti citati nel presente saggio:
W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino 1962.
W. Kaegi, Ricordo di Delio Cantimori, «Rivista storica italiana», 1967, 4, pp. 883-901.
P. Craveri, Cantimori Delio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., Roma 1975, ad vocem.
M. Berengo, C. Vivanti, Biografia e deformazione, «Belfagor», 1976, 31, pp. 234-36.
G. Manacorda, Lo storico e la politica. Delio Cantimori e il partito comunista, in Storia e storiografia. Studi su Delio Cantimori, Atti del Convegno, Russi (7-8 ottobre 1978), a cura di B.V. Bandini, Roma 1979, pp. 61-109.
H. Jedin, Lebensbericht, hrsg. K. Repgen, Mainz 1984 (trad. it. Storia della mia vita, Brescia 1987).
C. Vivanti, Politica e riflessione storiografica: Delio Cantimori, «Studi storici», 1991, 4, pp. 777-97.
E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze 2004.
L. Mangoni, Delio Cantimori e l’organizzazione della cultura, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. IV, 2004, 9, 1, pp. 61-77.
J. Tedeschi, Ancora su Delio Cantimori. Per la storia degli eretici italiani, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. IV, 2004, 9, 1, pp. 15-60.
N. D’Elia, Delio Cantimori e la cultura politica tedesca (1927-1940), Roma 2007.
G. Miccoli, L’insegnamento fiorentino di Pino Alberigo, «Cristianesimo nella storia», 2010, 3, pp. 905-25.
In riferimento alle discussioni sui suoi orientamenti politici non merita aggiungere altro a ciò che si è già detto, anche se molto ci sarebbe da citare in ambito giornalistico. Mi limiterò a ricordare ancora, come ulteriore esempio di sottile tendenziosità, il volume di P. Simoncelli, Cantimori e il libro mai edito, Firenze 2008, e, per una prima messa a punto della questione, gli articoli di A. Prosperi, Ricordare Cantimori o del cattivo uso dei centenari e A quel «Corriere della Sera» mancava un Dionisotti, «Belfagor», 2005, rispettivamente 2, pp. 213-16 e 3, pp. 349-51.