DEL TUFO, Giovanni Battista
Nacque a Napoli intorno al 1548, ottavo dei diciannove figli di Fabrizio e Lucrezia Carafa, esponenti di illustri ed antiche famiglie partenopee; i Del Tufo, in particolare, potevano vantarsi di discendere da Ercole Monoboi, cavaliere normanno venuto al seguito di Roberto il Guiscardo.
Di questi antenati, che gli permettevano di esibire tutti i quarti di nobiltà, il D. fu evidentemente fiero, tanto che in un'ottava dell'ultimo "ragionamento" del suo Ritratto, così ricostruisce la sua prestigiosa genealogia: "Di Sangro a Nido l'ava di mio padre / Madre già di sua madre e fu all'istesso / Questa pur di Bologna, e l'altra madre / Del padre Macri ancor di nobil sesso. / L'un'ava già Carbon d'illustri squadre / a Capuano il nobil Ceppo impresso / fu di mia madre, ed è, mercé divina, / Carrafa, e Riccia l'ava e Saracina".Per la sua condizione di cadetto, tuttavia, il D. fu costretto al mestiere delle armi e ad arruolarsi nelle milizie di Filippo IL Nel 1571 comandò una compagnia di archibugieri all'ordine di Giovanni d'Austria nella battaglia di Lepanto. Più tardi combatté nelle Fiandre tra le file cattoliche e conobbe anche (per "l'empie mani" "di luterani") un breve periodo di detenzione "ne la Provincia" "di Casirnira" a Huppenen, "villa di Dio rubella". Dopo questo turbinoso periodo, caratterizzato da amare disillusioni (i "mille tradimenti / Dalle più amiche genti"), il D. si recò nel 1588 a Milano, dove sembra godesse di un più prospero stato, come indicano gli "alti favori" di cui era, per sua ammissione, oggetto, e soprattutto la composizione del Ritratto, che, dedicato alle gentildonne milanesi, presuppone un clima di riposi mondani e di piacevoli intrattenimenti.
Il Ritratto o modello delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli (pubblicato da G. Tagliareni, Napoli 1959, dal manoscritto XXX. C. 96 della Bibl. naz. di Napoli) è un componimento in versi diviso in sette "ragionamenti", corrispondenti ai "sette giorni della settimana", in cui il D., "lunge de la ... patria e forestiero", si propone di illustrare le bellezze della sempre rimpianta città natale. L'opera presenta con vistosa evidenza la pratica del bilinguismo, come risultato di una contrapposizione tra i ceti colti e il loro volgare illustre e il mondo popolare, ritratto nell'immediatezza espressiva del vernacolo. A questa stessa necessità di contemperare il gusto virtualmente più esigente dei destinatari con le caratteristiche dei locutori di volta in volta introdotti corrisponde la scelta del metro, che è costituito dalunghe sequenze di endecasillabi e settenari, intervallati da sonetti, canzoni, ottave. La mescolanza di livelli e qualità espressive rappresenta del resto il carattere precipuo del Ritratto, che procede con disordinata e imprevedibile tessitura alla rappresentazione e al commento della realtà napoletana, i cui aspetti appaiono intrecciati e concatenati per trapassi non sempre giustificati. Non c'è nel libro una rigida partizione tematica; gli argomenti scaturiscono quasi casualmente dall'istinto celebrativo dell'autore e dalla sua vena eminentemente pittorica. Il D. non rinuncia a conferire tuttavia una certa sostenutezza al suo dettato poetico, sicché fa precedere la sua trattazione da una canzone d'appello al lettore e da un sonetto riassuntivo del contenuto dell'opera, nonché da un ampio proemio, che anticipa alle "Signore altiere" destinatarie del racconto la multiforme materia che si degneranno di ascoltare. E proprio in vista di questo lieto intrattenimento il D. ambisce ad organizzare e definire per nuclei tematici la sua narrazione, perciò introduce prima di ciascuna "giornata" una "dichiarazione" che funge da rubrica e da guida alla lettura, anche se fin da essa si avverte l'eterogeneità degli argomenti assembiati e l'inclinazione dell'autore alla farragine e alla disimmetria.
Nel primo "ragionamento", infatti, il D. incomincia con la descrizione "de' luoghi più piacevoli e deliziosi della città di Napoli"; ma poi la sua attenzione si sposta sulla rappresentazione "delle cose necessarie, che continovamente passano per le strade" e si fissa in particolare sui gesti e sul comportamento dei venditori di frutta e sul loro instancabile vociare; ed infine trasvola, dopo queste pagine assai apprezzate dai folkloristi, a celebrare la "bellezza della gentilissima costa di Posillipo". Nel secondo la "dichiarazione" segnala il proposito dell'autore di ritrarre il "passeggio della sera" e di "ragionare" delle professioni più diffuse e dei cittadini più ragguardevoli nelle varie arti; ma sorprendentemente si trovano in esso i passi famosi sull'attività delle levatrici e delle balie ("Descrizione dell'Arte delle mammane napoletane"; "Modo di cantare delle nodrici napoletane nel connolare, ossia nel dondolare i putti per farli dormire"), di timbro decisamente popolari. Nel terzo viene proseguita la rassegna dei mestieri, dai medici agli speziali, fino al vario stuolo degli artigiani e alla "poveretta, turba" degli accattoni; quindi il discorso procede con la celebrazione delle festività dell'anno, che procurano "spasso e piacere" e ancora con i "molti balli di donne e di cavalieri ballatori".
Il quarto "ragionamento" è dedicato alla illustrazione dei più diffusi passatempi; ampio spazio è riservato ai "diversi giuochi" di carnevale, che offrono ai cavalieri l'opportunità di cimentarsi in varie prodezze sportive e di essere ammirati dalle loro finestre dalle gentildonne reputate della città, qui racchiuse in un galante catalogo; ma non manca in questa giornata la trattazione dei "diversi giuochi che usano a fare i fanciulli napolitani" e, quindi, della leggiadra consuetudine del calendimaggio. Continuando nella sua descrizione delle liete ricorrenze cittadine, nel quinto "ragionamento" il D. propone alle sue interlocutrici il quadro colorato delle varie usanze connesse con le feste religiose di larga risonanza popolare con particolare riguardo alle tradizioni alimentari, ai modi della partecipazione delle masse, alle consuetudini cerimoniali; quindi, divagando, magnifica la sontuosità dei palazzo del viceré e, in particolare, del suo parco.
Nel sesto vengono elencate le istituzioni pie e caritatevoli (ospedali, conventi, confraternite), le processioni e i cultì devoti con tutto il contorno di appuntamenti rituali e tradizionali. Nel settimo, infine, viene celebrata la "bellezza del sito ed aria della Città di Napoli", delle isole e delle cittadine circostanti in una sorta di conclusiva apoteosi, in cui vengono imparzialmente elargite lodi alle donne, alle acque, ai palazzi di una città fortunata, che, unica al mondo, è capace di una "buona sodisfazione" dei "sensi umani" o con le altri parti del corpo".
Come si vede, il D. organizza la sua materia, probabilmente destinata a migliorie e revisioni per trapassi e addizioni, creando un caleidoscopio di situazioni, legate insieme dal filo dell'orgoglio municipalistico e dell'apologia. Nel Ritratto manca in effetti un piano espositivo e una compartimentazione della materia entro omogenei percorsi; la narrazione si presenta invece "corne un insieme eterogeneo, non organizzato nelle singole parti in cui è diviso" (A. Quondam, Dal manierismo..., p. 445). Gli argomenti rampollano dalla penna dello scrittore per momentanee associazioni e pretestuose affinità. Ma essi sono come unificati dalla costante celebrazione della gloria di Napoli, un sentimento questo che spinge il D. a porre la sua città al di sopra di tutte le altre e a non risparmiare, nel raffronto, gli epiteti più volgari, nemmeno a quella che lo accoglieva ("porcile", dice della fangosa Milano) e le cui gentildonne si proponeva di dilettare. Non c'è manifestazione della vita civile o aspetto del mondo naturale, in cui non si possa riscontrare la superiorità di Napoli e l'alto grado di civiltà dei suoi abitanti e delle sue istituzioni; persino il lugubre ufficio delle esecuzioni capitali è spettacolo non orrifico e raccapricciante; infatti il condannato ("il poverel") è "quasi contento / Del futuro crudel aspro tormento" e lungo tutto il percorso verso il patibolo viene assistito dalla folla compartecipe del suo dramma (Caldi tutti d'amore / Li confortano il core").
Nel D. è presente, accanto al gusto un po' oleografico di cantore del cielo delle acque dei vicoli della bella Partenope, la coscienza di una dignità antica, che non mira alla rivendicazione di un primato regionale, che all'autore appare peraltro pacifico; ma all'affermazione di un rango internazionale, in quanto città capitale, che offre un nobile e articolato modello di vita urbana. Napoli è la metropoli di un vasto reame e, come tale, funge da polo d'attrazione per uomini di ogni razza e condizione (persino "il Turco il Moro e l'Indo, ogni straniero / Vi sta volentiero"), i quali sono affascinati dalla qualità di una vita (il "viver comodo"), che non conosce ristrettezze e miserie.
La fede municipalista del D. ha qualche ripercussione anche sul piano degli atteggiamenti politici; ed infatti una certa xenofobia, di marca prettamente antispagnola, si avverte in certi suoi interventi e con non poca sorpresa, giacché egli aveva seguito con convinzione le armi della superpotenza spagnola, in avvenimenti decisivi per la storia del secolo. Il D., erede di potenti e albagiose dinastie feudali, esprime con questa serpeggiante contestazione il disagio e l'avvilimento di una nobiltà ridotta a mera rappresentanza, ma anche la prostrazione delle masse, depredate da un signore vorace e insaziabile. Vivace è il ritratto dell'occupante; egli arriva lacero e con una spada arrugginita dal suo viaggio trasmarino e dal suo paese "non porta valor d'una castagna"; ma ben presto abbandona la sua "ispida ciera", per fare "di doppio vestir superba mostra", forse - commenta amaramente l'autore - "per virtù de l'aria nostra". Ma queste patriottiche denunce non escludevano in altri momenti la piaggeria; lo stesso D. invoca l'onore di una visita del sovrano di Spagna a Napoli: "Vien dunque alto Signor, vien per qualch'anno / a rallegrar coi vivo raggio alticro / l'aria, il sito, la patria, ogni sentiero". Esponente di una nobiltà che considerava la propria condizione "con fatica e sudor acquistata", come una dimensione di naturale privilegio, vorrebbe porre la sua classe al riparo dai modi insolenti dei padroni e dalla trivialità di una plebe spiata con trasporto tutto cromatico dalle finestre di qualche palazzo antico. Non è un caso perciò che nel Ritratto venga deplorato l'involgarirsi dei costumi sotto la spinta di "certi sforgiati villancioni", i "gentiluomini di teglia" tutto spagnolesco sussiego e manierate creanze, che costituiscono la turba montante dei parvenus.
Ma il libro del D. non è tanto il "ritratto" di un'epoca e di una condizione storica, quanto la descrizione di una condizione eticosociale, quella del popolo napoletano, che manteneva e avrebbe in un certo senso mantenuto caratteristiche antropologiche durevoli e quasi immutabili. L'interesse dello scrittore è volto infatti alla rappresentazione della vita societaria e delle relazioni molteplici tra i vari strati della popolazione, anche se queste, per difetto di prospettiva e di giudizio, vengono colte nei loro rapporti di superficie e di concomitanza e non di interdipendenza. L'opera del D. anticipa la tendenza a guardare e a riprodurre un patrimonio culturale, spesso tramandato oralmente, che nel Seicento napoletano si sarebbe affermata con gli scritti di G. C. Cortese e di G. B. Basile, ai quali, pur senza esplicite ammissioni, il Ritratto non dovette essere ignoto. All'opera del D. si sono infatti accostati soprattutto gli studiosi di tradizioni popolari, ai quali essa offre testimonianze cospicue di usi, costumi, rituali in buona parte ancora praticati, di motti, proverbi, locuzioni idiomatiche, nonché tracce di una letteratura sommersa, genericamente indicata come popolare, che il D. consente di capir meglio nella sua genesi, come quando, ad es., indica i capoversi di alcune villanelle, che si ritrovano anche in altre tradizioni (cfr. G. M. Monti, Le villanelle...). La sterminata materia, della quale è composto il Ritratto, offre, pur nella sua arbitrarietà, un panorama quanto mai vasto della vita quotidiana a Napoli: dai giochi dei bambini alle "voci" dei mercati, dalle abitudini alimentari alle feste, che risultano assai fitte sia lungo il calendario liturgico, sia negli appuntamenti civili.
Ma la musa del D. non è portata ad approfondire situazioni o a liberarsi da un'ottica tutta celebrativa; sa soltanto descrivere una folla estroversa che sembra aspettare le ricorrenze e gli anniversari per mettersi in parata o abbandonarsi alla sua spensierata emotività. In effetti nel libro ci sono come due livelli di socialità: la "piazza" e il "palazzo"; a questi livelli corrispondono, pur nella comune disponibilità verso i piaceri della vita, forme e manifestazioni antropologiche differenti ed anche distinte caratteristiche di scrittura (il dialetto che recupera l'oralità; la lingua che aspira alla creazione personale). Il bilinguismo del testo, giocato costantemente tra mimesi vernacolare e coiné colta, riproduce in effetti una divaricazione eticosociale. Il dialetto si pone perciò come l'"altra" lingua, quella riservata alla codificazione di un mondo alieno e lontano; esso non viene rielaborato pertanto come privato linguaggio di un artista, ma riprodotto, sia pur con un certo divertimento, nelle sue esteriori vibrazioni coloristiche. Per questo il dialetto in uso tra il popolo è giudicato in modo assai negativo, tanto che su di esso il D. si sofferma nel paragrafo intitolato "Parlar goffo della plebe napolitana", collezionando detti e locuzioni grossolane, che offendono "l'usata orecchia al bel parlar ch'intende". Il D. oscilla in realtà tra opposti atteggiamenti: da un lato, convinto che "il favellar gentil napoletano" è "uguale al toscano", sembra allinearsi su posizioni di rifiuto del primato fiorentino; dall'altro pare voglia denunciare l'ibridismo del parlato, "mescolanza / Di tante lingue e forestier parlare", che è veicolo provvisorio del suo esercizio di scrittura. Ma in sostanza non spiega i requisiti dei napoletano "alto".
In queste contraddizioni, come nelle allusioni letterarie spesso inertemente esibite, si avvertono le ambiguità e i limiti del Del Tufò. Egli strizza l'occhio ad un mondo subalterno, che viene ridotto al manierato, sia pur in apparenza lusinghevole, stereotipo della "Napoli milionaria", che allestisce una perenne Piedigrotta; ma vuole anche porsi come piacevole conteur, che intrattiene dame e cavalieri, ai quali deve mostrare una certa scienza delle lettere. Da questa esigenza nasce la strutturazione del libro in "ragionamenti", in certo senso omologhi sul piano narrativo alla ripartizione in giornate propria della novellistica.
Dopo i quattro mesi di permanenza milanese il D. tornò a Napoli, dove partecipò alla vita politica della città. Morì nei primi anni del sec. XVII, poiché G. B. Testa Del Tufo nella sua Cronologia composta nel 1627 afferma che in quella data egli era morto già da molti anni.
Fonti e Bibl.: G. B. Testa Del Tufo, Cronologia della illustrissima famiglia Del Tufo, Napoli 1627; S. Volpicella, G. B. D. illustratore di Napoli del sec. XVI, Napoli 1880 (cfr. recensione in Arch. stor. italiano, s.4, VIII [1881], pp. 132 s.); A. D'Ancona, La vita a Napoli nel sec. XVI [1882], in Saggi di letter. popolare, Livorno 1913, pp. 433-43, G. M. Monti, Le villanelle alla napoletana, Città di Castello 1925, ad Indicem;B. Croce, Nuovi saggi sulla letter. italiana del Seicento, Bari 1931, p. 279; C. Caravaglios, Voci e gridi di venditori in Napoli, Catania 1931, pp. 2 s., 34 s., 46; C. Tagliareni, Opera manoscritta del marchese G. B. D. poeta napoletano del '500. Usi e costumi, spassi, giuochi e feste in Napoli, Napoli 1954; R. Colapietra, La storiografia napol. del secondo Cinquecento, in Belfagor, XV (1960), 4, p. 435 n.; M. Petrini, La musa napoletana di G. B. Basile, ibid., XVII (1962), 4, pp. 424 s.; F. Nicolini, Saggio di un repertorio bibliografico di scrittori nati o vissuti nell'antico Regno di Napoli, Napoli 1966, pp. 274, 278; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari 1967, p. 46 n.; A. Cirillo Mastrocinque, Moda e costume nella vita napol. del Rinascimento, Napoli 1968, passim;A. Quondam, Dal manierismo al Barocco, in Storia di Napoli, Napoli 1972, V, pp. 442-46; S. Nigro, Napoli: l'eredità aristocratica di G. B. D., l'ottica borghese di G. C. Cortese e la questione "Sgruttendio", in La letteratura ital. Storia e testi, Il Seicento, V, 2, Roma-Bari 1974, ad Indicem;V. Gleijeses, Feste, farina, forca, Napoli 1976, ad Indicem.