DEL CARRETTO, Gerolamo Maria
Quintogenito di Domenico Donato [I], marchese di Balestrino e Bossolasco, e di Laura Damiano dei conti di Castellinaldo, nacque ad Albenga intorno al 1670.
Insieme con il fratello Ottaviano [II] fu uno degli animatori del partito ghibellino nelle Langhe. Dopo un periodo di formazione di cui non sono rimaste tracce documentarie, ma in cui acquisì una notevole cultura giuridica, egli si dedicò alla causa dei feudi imperiali delle Langhe rivendicati da Vittorio Amedeo II di Savoia. Durante le trattative per la contribuzione bellica nel corso della grande alleanza tra Impero e potenze marittime, strinse rapporti con Milano, nuova sede della plenipotenza imperiale in Italia. La frequentazione degli ambienti ghibellini lombardi tra 1690 e 1705 lo convinse della necessità di seguire di persona le trattative diplomatiche per la cessione dei feudi imperiali delle Langhe ai Savoia, e nel 1707 si recò a Vienna.
Qui assoldò avvocati con cui elaborò le principali linee di difesa dei feudi dalle pretese sabaude. Il D. godé in questi anni dell'appoggio di buona parte della feudalità imperiale locale e dette vita con i conti Del Carretto di Millesimo, i conti Caldera di Monesiglio e i marchesi Scarampi di Mioglia a un partito nobiliare; con loro intrattenne una fitta corrispondenza allo scopo di organizzare la resistenza antisabauda nei feudi. I frutti di questa collaborazione si fecero sentire durante le trattative diplomatiche del 1711-13 tra Sabaudi e Imperiali per la cessione del Monferrato, in cui il D., "Mecenate de' Vassalli dell'Impero", raggiunse lo scopo di ritardare l'incorporazione dei feudi delle Langhe nello Stato piemontese. In questo periodo si manifestò anche l'attività pubblicistica del D. che redasse opere teorico politiche in sostegno della causa delle Langhe.
L'impegno nella causa imperiale gli valse l'amicizia del conte Carlo Borromeo Arese, plenipotenziario cesareo a partire dal 1714, di cui sarà confidente nel secondo decennio del secolo, come testimonia una fitta corrispondenza; la fedeltà alla causa gli varrà, nel 1718, l'infeudazione di due piccole Comunità delle Langhe, Serravalle e Bardineto, strappate ad altre linee dei Del Carretto grazie al favore del Consiglio aulico imperiale.
I contatti con i nobili ghibellini tesero tuttavia a diradarsi a partire dal 1720, quando si esaurirono le più forti speranze di resistenza ai Savoia, e si manifestarono le prime dissensioni intestine. Da un lato il D. reagì tentando di riottenere la disciplina interna rivendicando presso il Consiglio aulico la propria superiorità feudale sugli altri vassalli, in particolare il conte Caldera di Monesiglio; d'altro canto, con il prolungarsi delle trattative e della permanenza a Vienna, il D. pretese per via legale il rimborso delle spese dagli ex alleati, ma perse entrambe le cause (1726-27).
Ciò non impedì tuttavia che egli si adoperasse ancora per la libertà dei feudi imperiali: almeno fino al 1734-35 egli funse da tramite viennese per i residui focolai filoghibellini, in particolare il marchesato di Monforte; a partire dal 1733 esercitò pressioni sulla conferenza di pace di Aquisgrana, ma non riuscì più ad impedire l'incorporazione dei feudi nel Regno di Sardegna. Fu così sottoposto all'umiliazione del giuramento di fedeltà al re di Sardegna, nel 1737, e in quest'occasione oppose le ultime, ormai personali resistenze al governo torinese. Segno del progressivo isolamento politico del D. è l'accentuarsi di una concezione nostalgica dell'autorità imperiale, che egli manifestò a partire dalla metà degli anni Venti nella corrispondenza con il fratello Ottaviano [II]. Inoltre fu sempre più assorbito dalle vicende familiari, che richiesero la sua presenza a Vienna per ottenere in giudizio la successione controversa a una serie di feudi lorenesi, trentini e genovesi. Non riuscì tuttavia a liberarsi da queste incombenze prima della morte, che lo colse a Vienna il 30 giugno 1742.
La sua azione politica è caratterizzata dalla rivendicazione dell'autonomia dei feudi imperiali delle Langhe, cui dedicò ogni energia intellettuale e materiale, riuscendo a ritardare per più di un trentennio l'incorporazione delle Langhe nello Stato sabaudo.
Le tappe dell'azione del D. sono almeno tre. Una prima, che risale al periodo 1707-13, fu di intervento diretto nelle trattative tra il consigliere di Vittorio Amedeo II, Pietro Mellarède, e l'Impero a conclusione della guerra di successione spagnola trattative con le quali il duca di Savoia pretendeva l'annessione dei feudi imperiali in quanto dipendenze feudali del Ducato di Monferrato, da lui conquistato con le armi, e dell'ex Ducato spagnolo di Milano. La diretta ispirazione e organizzazione del partito ghibellino delle Langhe appare mirata alla difesa non soltanto dello status dei nobili dell'Impero, ma soprattutto alla conservazione dell'autonomia politica di una regione caratterizzata da un profondo intreccio di giurisdizioni lungo le quali si dipanavano numerose vie commerciali tra litorale ligure e pianura padana, usate per il contrabbando del sale verso il Piemonte. Il partito, perciò, oltre ai nobili locali, coinvolse mercanti e notabili liguri e langaroli, direttamente interessati al traffico mercantile. La resistenza locale venne duramente contrastata dal governo torinese, che nel 1711 rispose all'azione viennese del D. con la denuncia della protezione offerta dai vassalli dell'Impero al banditismo e al contrabbando. A questa fase della sua attività politica sono da attribuire le opere politiche e storiche del D., con cui intese legittimare la dipendenza diretta da Vienna dei feudi contesi.
La seconda fase è legata all'assunzione della plenipotenza imperiale da parte del Borromeo, nel 1714: essa si sviluppò fino alla fine del decennio intorno al progetto di difendere le Langhe con la costituzione di un governo imperiale in Italia, con sede in Milano. Il D. funse in questi anni da consigliere del Borromeo, gli propose i contatti cruciali per lo sviluppo della politica imperiale in Italia, e di fatto lo rappresentò a Vienna negli ambienti vicini al Consiglio aulico. Due furono le direzioni principali di attuazione del progetto: la prima, la creazione di una gabella del "sale delle Langhe" capace di legalizzare il contrabbando, avrà traduzione concreta per almeno un decennio. La seconda, la creazione di una forza armata di intervento nei casi più spinosi di contestazione sabauda della giurisdizione imperiale, avrà esito discontinuo e controverso: da un lato, come lamenterà lo stesso D. al Borromeo, si scontrerà con le resistenze milanesi a un impegno diretto nelle Langhe, ma soprattutto non riuscirà ad arginare una diffusa conflittualità politica locale, di cui furono protagonisti sia i diversi rami feudali che si contendevano le giurisdizioni locali, sia, soprattutto, le popolazioni langarole lacerate da faide parentali e contrasti di fazione.
Gli anni Venti videro il fallimento della seconda parte del progetto di creazione della "provincia" imperiale delle Langhe: il Borromeo, per il quale la regione costituiva uno tra i tanti poli di azione politica, manifestò una maggior distanza dal D. e predilesse ormai interlocutori locali capaci di controllare in prima persona la violenta conflittualità che agitava i feudi. Per contro il D. tentò di reagire alle divisioni interne al partito ghibellino appoggiando con maggior energia gli interessi nobiliari, e prestò il proprio aiuto ai Del Carretto di Monforte, invisi ai propri sudditi, nella difesa degli interessi e della giurisdizione familiare contro le Comunità del marchesato.
La morte del Borromeo, i non felici rapporti del D. con il conte Stampa, suo successore, fecero sì che le suppliche rivolte ai diplomatici imperiali nei preliminari della pace di Aquisgrana restassero senza esito.
Il pensiero politico del D. emerge con chiarezza dalle opere che egli scrisse, da solo o in collaborazione, nel corso della controversia diplomatica con i Savoia, negli anni 1709-11.
Il primo contributo, relativo alla questione monferrina e presumibilmente redatto in collaborazione con il proprio avvocato, gli Iura Sacri Romani Imperii, svolgeva un'argomentazione prevalentemente giuridica. Il saggio confutava la pretesa torinese che i feudi imperiali delle Langhe avessero derogato alla primitiva natura stipulando, a partire almeno dalla dedizione al Monferrato nel 1355 e per i tre secoli successivi, patti di aderenza con quei marchesi, con i duchi di Milano e i loro successori spagnoli. Gli Iura intendevano dimostrare come né lo Stato di Milano né il Monferrato avessero mai potuto vantare diritti sui feudi, e come perciò questi non potessero rientrare nel trattato di alleanza tra Vittorio Amedeo II e Leopoldo I del 1703. A questo scopo si esaminava la dottrina dei contratti di aderenza nel diritto feudale e imperiale, e se ne sottolineava il carattere di mero artificio, estorto con la violenza dai duchi di Milano a feudatari inermi nel 1431, durante la lega antiveneziana. Si giungeva così a ipotizzare una teoria estremamente elastica del contratto feudale: se, con Grozio, si concordava sulla necessità che il patto non contraddicesse alla natura della libertà umana, si sosteneva soprattutto che l'aderenza feudale non poteva estendersi oltre la vita dei contraenti. Altrimenti, esso costituirebbe un pregiudizio per i successori, un limite alla loro libertà di aggregarsi in nuove formazioni clientelari.
Di poco successiva, e interamente ascrivibile al D., è la Risposta alle rimostranze... delli Ministri di S.A.R. di Savoia, in cui si sottolineava la funzione che l'Impero poteva assolvere nella penisola italiana: la rivendicazione di Leopoldo I dell'immediata superiorità sui feudi imperiali contro le usurpazioni operate "sotto pretesto di aderenza" dai principi italiani "ha liberata l'Italia, vuò restituire ad ogni uno la sua libertà".
La scelta di un'argomentazione politica si accentuava così negli anni immediatamente successivi, quando le precedenti suppliche avevano ottenuto l'effetto di indurre i funzionari imperiali a imporre il riesame dei feudi delle Langhe effettivamente toccati dal trattato del 1703 in una serie di "conferenze feudali" tra Piemontesi, Imperiali e Spagnoli. Il D. intendeva così convincere l'imperatore a porre come condizione per lo svolgimento della nuova trattativa l'abbandono da parte dei Savoia di tutti i feudi occupati col semplice atto possessorio e con il giuramento di fedeltà imposto illegittimamente ai vassalli dell'Impero. Lo scopo era, come affermerà il D. in alcune suppliche del 1711, di avvertire gli incaricati della trattativa che il vero obiettivo sabaudo era rappresentato dal marchesato del Finale, chiave di volta nel sistema di comunicazioni tra litorale ligure e pianura piemontese. Del resto, non mancavano gli strumenti giuridici per impedire l'annessione al Piemonte, a condizione di riconsiderare in nuova luce il passato dei feudi. La "provincia" delle Langhe, sosteneva il D. nella Risposta, era stata concessa nel 967 dagli imperatori al marchese Aleramo e poi ai Del Carretto con patto di successione reciproca, di linea in linea. Il predominio formale dei lignaggi della feudalità imperiale, ribadito da tale diritto, era lo strumento giuridico con cui ostacolare la politica sabauda di acquisto dei feudi appartenenti alle linee estinte.
La reinterpretazione della storia ligure-piemontese, qui soltanto abbozzata, costituisce invece l'oggetto di una terza opera, anch'essa ascrivibile interamente al D., la Risposta ad una scrittura pubblicata dalli Ministri di S.A.R. di Savoia. L'occasione era offerta dagli sviluppi delle trattative tra il duca di Savoia, Inghilterra, Olanda e Cancelleria imperiale. Per appoggiare le proprie pretese sui feudi, la corte torinese affidò al Mellarède il compito di ricostruire una storia delle Langhe che dimostrava l'appartenenza dei feudi allo Stato di Milano o al ducato di Monferrato. Tale appartenenza è legittima, sosteneva Mellarède, non pregiudica cioè le prerogative imperiali; le investiture chieste per secoli ai due principati non avevano affatto leso le prerogative dei discendenti. L'argomentazione torinese implicava il privilegiamento esclusivo di una cronologia quattro e seicentesca, risalente cioè ai due periodi in cui i rapporti con Casale e Milano furono particolarmente fitti, mentre le relazioni con la Cancelleria imperiale risultavano interrotte. L'intento del D., nella nuova Risposta, era di dimostrare la possibilità di negare alle azioni umane la propria potenza cumulativa, con la proposta di un "ritorno" a situazioni giuridiche, lontane nel tempo, ma congruenti con il diritto delle genti. Era una prospettiva che implicava una scoperta della storia e dell'idea stessa di passato, attestata nel D., nello stesso tempo, dal risveglio di un genuino interesse per l'erudizione e la storiografia (Filelfo, soprattutto), che gli fece ricercare per il tramite del benedettino siciliano Celestino Lorefice "i luoghi in Italia ove si ponno ritrovare molti antichi Privilegi" - Milano, i conventi pavesi, il monastero di Bobbio, Ravenna - con cui smentire la storiografia dinastica sabauda di Francesco Agostino Della Chiesa.
Ne conseguiva una rivisitazione della storia italiana, che nel D. aveva come perno l'azione di darlo V, la restituzione cioè ai vassalli dell'Impero delle prerogative perdute a opera di "Potentati" territoriali e cittadini (nel caso delle Langhe, Monferrato, Asti e Milano). Venivano perciò svalutati la nascita e lo sviluppo degli Stati regionali, che qui apparivano come usurpatori di prerogative imperiali. Lo sguardo, coerentemente, assumeva una prospettiva dinastica, di matrice signorile e rurale, e tentava di definirne le radici storiche riprendendo e reinterpretando il mito aleramico: la discendenza dei Del Carretto veniva non soltanto fatta risalire ad Aleramo - ciò che suscitava le ironie torinesi - ma si insisteva sulla trasformazione del patrimonio in Stato dinastico, che non riuscì invece agli altri ceppi marchionali piemontesi, Arduinici e Anscarici. I feudi delle Langhe non andavano considerati, come si faceva a Torino, appannaggi dei cadetti di Aleramo, subordinati cioè al potere pubblico del Regno, ma quale legittima conseguenza della gestione familiare del potere, indipendente da qualsiasi "superiorità" intermedia tra feudatari e imperatore.
La prospettiva assunta dal D. prevedeva perciò l'esplicita adozione di un costituzionalismo imperiale di stampo tedesco, nel quale l'aderenza dei feudatari minori agli elettori non smentiva la loro libertà nell'assetto politico giurisdizionale complessivo. Del resto, la libertà di scelta politica dei vassalli raggiungeva un duplice obiettivo: rafforzava l'autorità imperiale moltiplicando i lignaggi ad essa legati, ma soprattutto, e proprio in virtù del frammentarsi della giurisdizione imperiale sul territorio, "rende felici li Vassalli e li popoli, poiché freggiati li uni d'illustri prerogative et immuni gli altri di ogni peso, godono un libero commercio d'ogni sorta di merci necessarie al vivere e all'opulenza del traffico", traffico che i "nuovi" principati territoriali ostacolavano sempre più. L'affermazione di un potere dinastico che si voleva territoriale proteggeva così la vocazione transitaria dell'economia locale: le Langhe costituivano una "provincia" formata dall'insieme dei feudi toccati dalle differenti "agnazioni" riconducibili ad Aleramo e ai Del Carretto. In questo senso, il D. va considerato quale pioniere della ripresa settecentesca del mito aleramico, che caratterizzerà in modo peculiare l'erudizione piemontese.
Opere: Vienna, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Reichslehensakten, mappa 27, fasc. II, n. 57: Iura Sacri Romani Imperii et Libertas Provinciae Langarum in Italia a Quocumque Vassallorum Contractu Vindicata (a stampa, Vindobonae s.d. [ma anno 1709]); Ibid., ms. n. 61: Risposta alle Rimostranze fatte a S.M. Cesarea per parte delli Ministri di S.A.R. di Savoia, sopra il Decreto Cesareo delli 20 luglio, e sue pretensioni sopra li feudi Imperiali delle Langhe [1710]; Albenga, Istituto di studi liguri, Archivio Del Carretto di Balestrino, Feudi cessi al Re sardo, mazzo 1, n. 2: Risposta ad una scrittura pubblicata dalli ministri di S.A.R. di Savoia contro delli Vassalli imperiali delle Langhe, con l'aggionta di una nuova cronologia de feudi per distrugere quelle ragioni che li Predetti Ministri vanno disseminando contra dell'Immediata Imperialità delli medesimi [1713].
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Sezione I, Lettere particolari, C, mazzo 28; Ibid., Feudi delle Langhe, cat. A, mazzo 1 (Balestrino) e cat. D (Bardineto); Ibid. cat. II, Scritture riguardanti la pendenza eccittatasi avanti il Consiglio Imperiale Aulico col conte di Millesimo, m.se di Balestrino, ed altri vassalli delle Langhe sulla da questi pretesa indipendenza de' loro Feudi, e' inefficacia della cessione fatta a SSRM nel trattato del 1703, mazzi 1-9 (in partic. mazzo 2, 6: Dichiarazioni fatte da diversi Vassalli de Feudi delle Langhe di non haver fatta alcuna procura al Marchese di Balestrino, meno haver havuto alcuna parte nel ricorso del detto Marchese all'Imperatore, e Coleggio Elettorale per sottraersi dalle prestazioni di fedeltà a favore di S.A.R. per detti feudi, e con un ricorso di detta dichiarazione, e mazzo 3, Volume di diversi attestati comprovanti le ingiustizie, e delitti che si commettono nei feudi delle Langhe da Feudatari, ed abitanti in detti Feudi); Ibid., cat. LL, Miscellanea, mazzi 4-8; Arch. di Stato di Milano, Feudi camerali, cartella 692, 27: Corrispondenza mista di Gerolamo Del Carretto di Balestrino e del Conte Borromeo, 1700-1720; Ibid., Feudi imperiali, cartelle 75-77 (Balestrino) e 352-360 (Langhe); Vienna, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Reichslehensakten, mappa 27, Langae; Ibid., Register der Lateinischen Judicial Akten, cartone 465 (Serravalle); Albenga, Istituto di studi liguri, Arch. Del Carretto di Balestrino, Feudi cessi al Re sardo, mazzi 1-6; Bossolasco, mazzi 1-3; Ibid., Lettere, scansia 1, casa 3, nn. 6-9 (1700-1726) e cat. D c 5 (Lettere di Gerolamo relative ai Feudi delle Langhe); J. Bricherius Columbus, Tabulae Genealogicae gentis Carrettensis et Marchionum Savonae, Finarii, Clavexanae, Vindobonae 1741; S. Pugliese, Le prime strette dell'Austria in Italia, Milano-Roma 1932, pp. 200 ss.; G. Tabacco, Lo Stato sabaudo nel Sacro Romano Impero, Torino 1939, pp. 159 ss.; A. Torre, Faide, fazioni e partiti, ovvero la ridefinizione della politica nei feudi imperiali delle Langhe tra Sei e Settecento, in Quaderni storici, XXI (1986), pp. 775, 789, 799.