Deh piangi meco tu, dogliosa petra
Sonetto (Rime dubbie IV; schema ABAB, ABAB: CDC, DCD) presente solo nel codice Riccardiano 1103 (carta 117 a), ove è attribuito a D.; pubblicato parzialmente dal Trucchi, lo fu integralmente dal Witte (cfr. le importanti correzioni e osservazioni del Parodi, in " Bull. " IV [1896-97] 13-15).
Il Carducci, che vedeva al v. 5 un'allusione politica alle fazioni bianca e nera, inclinò a confermarne la paternità dantesca " per certa energia " presente nei versi e per essere tutto il componimento intessuto " di allusioni e giochi di parola " sul termine pietra, che richiamano la sestina Al poco giorno e le canzoni Amor, tu vedi ben e Io son venuto; e di D. lo ritenne senz'altro il Wulff. La critica più recente (si vedano, per tutti, le osservazioni in Contini, Rime 237) nega la paternità dantesca a questo sonetto, che solo per coincidenze superficiali si richiama alle rime ‛ pietrose ', delle quali non riprende certo lo stile alto e aristocratico.
L'autore del sonetto prega la pietra sepolcrale che chiude la donna amata di aprirsi e di fargliela vedere ancora una volta, illudendosi di trovarla miracolosamente ancora viva; ma la pietra resta insensibile, sì che l'ultimo verso è quasi " un grido angoscioso " (Parodi): la pietra con la sua insensibilità ha reso insensibile anche la Pietra che rinchiude.
Bibl. - F. Trucchi, Poesie ital. inedite..., I, Prato, 1846; K. Witte, Rime in testi antichi attribuite a D., in " Jahrbuch der deutschen Dante-Gesellschaft " III (1871); F. Wulff, D., " Pietra in pietra ", in " Romania " XXV (1896) 455-458; G. Carducci, Delle rime di D., in Opere, X, Bologna 1939, 166.