DEGRADAZIONE
. Diritto. - Nel diritto canonico la pena più grave contro i chierici fu, sino al sec. XII, la deposizione, che importava perdita dell'ufficio e dei diritti patrimoniali ad esso congiunti (beneficio), separazione dall'ordine o stato clericale e conseguente incapacità di conseguire un ufficio ecclesiastico e di essere riammessi al servizio della Chiesa. La necessità politica di determinare i requisiti per cui il chierico deposto, nonostante la dottrina dell'indelebilità del carattere sacro, rientrasse sotto la giurisdizione secolare e potesse essere rimesso ai tribunali laicali per la punizione, fece distinguere dalla deposizione la degradazione (degradatio).
Essa importava per il chierico colpito la perdita perpetua dello stato clericale e dei diritti annessi e specialmente del privilegium fori. Si deve a Innocenzo III (c. 7, X, de crimine falsi, V, 20) l'aver distinto le due pene e a Bonifacio VIII (c. 2, in VI, de poenis, V, 9) l'aver fissato le speciali formalità per la degradazione. La pena constava di due gradi: la degradatio verbalis (sententialis) si aveva per sentenza che dichiarava il chierico per sempre deposto dagli ordini e gradi ecclesiastici; la sentenza dichiarava altresì che il punito doveva essere ridotto allo stato laicale e rimesso al giudice secolare; la degradatio actualis o solemnis, esecuzione della precedente sentenza, aveva per effetto la perdita dei diritti dello stato clericale e specialmente dei privilegi del foro e del canone. Ma una completa riduzione allo stato laicale non si aveva, giacché il chierico punito non era privato dell'ordinazione, né sciolto dagli obblighi annessi.
Attualmente la degradazione è una pena vindicativa che si può comminare soltanto contro i chierici (c. 2298, § 12) e in sé comprende la deposizione (c. 2303), la privazione perpetua dell'abito e dei privilegi dello stato ecclesiastico e la riduzione allo stato laicale (c. 2305, § 1). La degradazione può essere verbale o edittale, se è irrogata per sola sentenza, o reale, se compiuta con l'apposita cerimonia liturgica prescritta nel Pontificale romano (c. 2305, § 3).
I delitti per cui s'incorreva in detta pena erano l'eresia manifesta, la falsificazione delle lettere apostoliche, quella delle monete, l'assassinio, il procurato aborto, la sollecitatio ad turpia nella confessione, l'adulterio, l'incesto, ecc. Il codice canonico contempla specialmente: l'aver dato il nome e l'aver pubblicamente aderito a una setta acattolica (c. 2314, § 1, n. 3); le violenze e vie di fatto contro la persona del pontefice (c. 2343, § 1, n. 4); l'omicidio volontario (c. 2354, § 2); i casi più gravi di sollecitatio nella confessione (c. 2368, § 1); il venir meno al voto solenne di castità (c. 2388, § 1). Può essere comminata anche contro il chierico già deposto e privato dell'abito clericale che seguita a dare grave scandalo per un anno.
Per i delitti che importano tale pena non ha luogo la riprensione giudiziale (c. 1948, § 1), né l'ordinario può avvalersi della facoltà di rimettere la pena (c. 2237, § 1, n. 3).
Bibl.: L. Ferraris, Prompta bibliotheca canonica, nuova ed., Roma 1885 segg., III; F. Kober, Die Deposition u. Degrad. nach den Grundsätzen des kirchl. Rechts, Tubinga 1867; P. Hinschius, in Das Kirchenrecht des Kathol. u. Protest. in Deutschland, Berlino 1893-95, V. §§ 262, 269; D. Schiappoli, Dir. pen. can., in Encicl. del dir. pen., a cura di E. Pessina, Milano 1904, p. 834 segg.
Nel diritto penale militare la degradazione è una pena morale ignominiosa restrittiva della capacità giuridica del militare, la quale produce non soltanto l'incapacità assoluta di servire sotto qualsiasi titolo nelle forze armate dello stato e di coprire qualunque pubblico impiego, ma anche la perdita delle decorazioni, della pensione e del diritto alle medesime per i servizî antecedenti. Non ha per presupposto il possesso di un grado. È pertanto applicabile a qualsiasi militare come pena accessoria, mai come pena principale, e consegue ope legis alle pene che rendono indegno il condannato di appartenere alla milizia.