LABERIO, Decimo (Decĭmus Laberius)
Scrittore romano di mimi, appartenente a famiglia equestre. Contemporaneo di Cicerone e di Cesare, doveva esser nato nel 106 a. C. Secondo S. Girolamo, morì nel 43 a. C. Decaduto L. dal suo stato di fortuna, Cesare, che lo teneva in sospetto per la sua eccessiva libertà di linguaggio, approfittò di questa circostanza per costringerlo ad apparire in pubblico anche come attore. Nel 46, durante i giuochi ordinati da Cesare, L. sostenne in un suo mimo (di cui ci sono rimasti frammenti) la parte di uno schiavo, a cui però la condizione servile non impediva di pronunziare frasi pungenti, dove tutto il pubblico vide chiare allusioni a Cesare stesso, il quale si trovava nel teatro. Cesare, alla fine della rappresentazione, dichiarò L. inferiore al suo competitore Publilio Siro, ma tuttavia gli fece dono dell'anello, segno della dignità equestre, a cui lo restituì riabilitandolo, liberandolo, cioè, da quella qualsiasi infamia da cui si consideravano come colpiti gli attori.
Il prologo del mimo, a cui si è accennato, è la cosa più lunga che ci rimanga di L., ma da esso si ricava pochissimo per conoscere l'arte di lui. Sono giunti a noi 43 titoli di mimi da lui composti, e, in complesso, poco più di 150 versi (i frammenti, in Ribbeck, Comic. romanorum fragmenta, 3ª ed., Lipsia 1898, p. 339 segg.). A giudicare dai titoli, egli traeva gli argomenti delle sue composizioni dalla vita comune, cosa che del resto si può agevolmente capire dato il genere mimico quale lo conosciamo, p. es., dai poeti alessandrini e specialmente da Eroda. Alcuni titoli fanno pensare alla religione o a cerimonie religiose (Anna Perenna, Compitalia), o magiche (Necyomantia), ma anch'essi, come altri, che potrebbero adattarsi a commedie palliate (Aulularia, Cacomnemon) o togate (Nuptiae, Paupertas) si possono benissimo riferire a scene della strada, come quelle che portano per titolo un nome di popolo o di professione (Galli, Fullo, ecc.). Gli antichi, i quali non pare lo stimassero molto, notavano però la grande ricchezza, varietà e audacia del suo vocabolario, ed esprimevano meraviglia per la libertà con cui coniava vocaboli nuovi.
Bibl.: W. Kroll, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., XII, col. 246 segg.; Schanz-Hosius, Gesch. der Lat. Lit., I, Monaco 1927, p. 257 segg.; G. Curcio, Storia della letteratura latina, II, Napoli 1923, p. 537 segg.; V. Ussani, Storia della letteratura latina, Milano 1929, p. 275 segg. Sul mimo romano in genere, C. Marchesi, Storia della letteratura latina, I, Messina 1925, p. 211 segg.