GIOVENALE, Decimo Giunio (D. Iunius Iuvenalis)
Poeta satirico latino del I-II secolo d. C. Nacque ad Aquino tra il 55 e il 60 d. C. Dopo la prima educazione in patria, dove il padre possedeva casa e un podere, e dopo il servizio militare, in cui - se un'iscrizione trovata nel 1846 (Corp. Inscr. lat., X, 5382) si riferisce al poeta - egli avrebbe raggiunto anche il grado di tribuno e di comandante di una coorte dalmatica, ritornò in patria, e per qualche anno vi sostenne (ma è dubbio) la carica di duumviro quinquennale. In ogni modo, si può ritenere con certezza che, per le condizioni discretamente agiate della famiglia, fosse in grado di trasferirsi, abbastanza presto - non dopo il 78 - a Roma, dove passò la maggior parte della vita, dedicandosi allo studio della retorica e poi esercitando l'eloquenza con qualche successo, sotto Domiziano e Nerva e nei primi anni di Traiano per circa un ventennio (non prima dell'80 fino a non molto dopo il 100), arrivando così circa al 40° anno e riuscendo a possedere un poderetto a Tivoli e una casa a Roma. Il fatto più notevole della sua vita fu l'esilio da Roma e dall'Italia, della cui realtà non è lecito dubitare. È verosimile che sia stato Adriano ad esiliare il poeta nel periodo 120-123, per essere G., anche come satirico, o per inimicizia di qualche potente o per altro motivo a noi ignoto, incorso nell'ira del principe. L'esilio dovette durare per circa un decennio (non prima del 120, non dopo il 130), dopo il quale l'imperatore lo richiamò.
È ammissihile che durante l'esilio G. abbia potuto viaggiare e visitare paesi anche lontani: ma solo per l'Egitto - non oltre il Delta - possiamo essere sicuri per la sua diretta attestazione (Sat., XV, 45). Le notizie relative ad altri luoghi da lui visitati (Britannia) e a particolari del suo esilio, e anche l'ipotesi, fra le altre, che, per pretesto di allontanarlo da Roma, gli fosse affidato, quando era già vecchio, un comando militare alla frontiera di paese lontano, non sono che frutto di mal fondate induzioni.
Alla politica G. dovette restare estraneo, e nella vita imperiale alla fine del sec. I e nella prima metà del sec. II egli ci appare come un solitario sdegnoso e disgustato di tutto e di tutti, che non nascondeva il proprio pessimismo specialmente verso i principi e verso la nobiltà. Certo è che, dopo l'esilio, da cui ritornò a oltre 70 anni e di cui non fa mai cenno nelle sue Satire, continuò a vivere in Roma per alcuni anni e scrisse e pubblicò le 4 satire dell'ultimo libro (V), arrivando fino all'ottantesimo anno e probabilmente anche sorpassandolo. La sua morte si può fissare con maggiore verosimiglianza verso il 135 d. C.
Le Satire. - Tutta l'attività poetica di G. è rappresentata dalle 16 satire giunte a noi col suo nome, distribuite in 5 libri; né v'è una seria ragione di credere che ci sia stato sottratto qualche cosa dell'opera sua, se si fa eccezione dell'ultima parte della satira XVI, che si interrompe bruscamente col verso 60.
Prima del 1899 il testo della satira VI era costituito da 661 versi. E. O. Winstedt scoprì in quell'anno nel codice Canon. XLI della Bodleiana di Oxford 36 versi appartenenti al testo di quella satira e mancanti in tutti gli altri manoscritti, costituiti da un frammento di 34 versi e da uno di 2. Ma già Giorgio Valla nella sua edizione di G. (1486), annotando il verso 614 del testo tradizionale della stessa satira, aveva riportati altri 3 versi, mancanti nella maggior parte dei manoscritti, con la dichiarazione di averli letti in un codice antico. Non mancarono fra gli studiosi quelli che si dichiararono subito e si mantennero contrarî all'autenticità dei frammenti bodleiani: ma maggiore è il numero di quelli che li ritengono autentici. Più accurati studî portano alla conclusione che nessun argomento abbia tal forza da costringerci a toglierli a G., a cui anzi convengono benissimo, per diverse ragioni: e già in alcune delle più recenti edizioni sono stati accolti. L'opinione più verosimile sembra che il frammento maggiore del codice bodleiano sia da inserire nel testo della satira VI tra il verso 365 e il 366 in sostituzione dei 3 versi 346-348, che ne sarebbero un infelice riassunto, entrato poi nel testo da una nota marginale, ma spostato dal suo posto originario, per opera di un antico amanuense che pensò di espungerne, per la loro troppa oscurità, ritenendoli indegni di G., i 34 versi del frammento maggiore e che avrebbe anche omesso, per distrazione, trascrivendolo tuttavia, nella revisione, in margine, con un richiamo, il frammento minore di 2 versi tra il verso 373 e il 374; mentre i 3 versi del Valla siano da aggiungere fra il verso 614 e il 615 della stessa satira, donde sarebbero stati espunti poi perché ritenuti quasi indecifrabili.
L'operosità poetica di G. resta compresa nel periodo di circa 40 anni. Non si può escludere, anzi è probabile, che già verso la fine del regno di Domiziano e quando ancora esercitava l'eloquenza, il poeta avesse cominciato a ritrarre in alcuni tentativi le proprie impressioni e che qualcuno di quei primi saggi satirici fosse stato anche divulgato fra pochi amici: ma certo è che nessuno dei suoi componimenti poté pubblicarsi finché visse il tiranno, se anche qualche satira, come probabilmente la II, poté essere composta, nel suo nucleo originario, prima. La vera pubblicazione dovette adunque cominciare dopo il 96: e si può credere che il poeta, dopo avere, secondo l'uso, fatto conoscere le sue satire, man mano che le andava componendo, pensasse egli stesso a raccoglierle e ordinarle nei cinque libri che possediamo. Per credere (Teuffel e Leo) che una seconda edizione sia stata fatta o da G. stesso con ritocchi e modificazioni nel testo, o da altri, mancano argomenti fondati. E per quanto le scarsissime notizie del poeta sui casi proprî e le non molto numerose e non precise allusioni a persone e a fatti ben conosciuti rendano difficile precisare la cronologia delle satire, sembra che la pubblicazione dei 5 libri sia avvenuta col seguente ordine: I (I-V), anni 101-102 d. C. (la I satira che serve di presentazione e prologo all'intero libro fu composta per ultima tra il 100-102), II, che contiene la sola satira VI, anno 111; III (VII-VIII-IX), anno 115 (il verso 119 della satira IX va considerato come spurio); IV (X-XI-XII), anni 119-120; V (XIII-XIV-XV-XVI), anni 130-132.
Tutta la vita di Roma, durante l'impero di Domiziano che coincide con la giovinezza e con la prima virilità di G., e di cui egli conservò incancellabile il ricordo, si riflette nelle Satire, tanto che il poeta non mostra quasi di accorgersi dei nuovi e migliori tempi di Nerva e Traiano, sotto i quali a lui era stato possibile scrivere e farsi conoscere. Ciò spiega anche come Domiziano sia l'imperatore più odiato, trovando il poeta il modo di ritornare a lui anche in satire composte in epoca lontana, con un accorgimento suo proprio, per effetto del quale alla rappresentazione della vita romana nei tempi dei due ultimi e buoni imperatori che egli conobbe (Traiano, Adriano) si mescola e si sovrappone pur quella dell'epoca anteriore, anche con qualche danno per l'evidenza e per l'effetto. Le vicende poi della vita e l'avversione ad ogni forma di tirannia e d'ingiustizia lo sospinsero a dirigere di preferenza la sua satira contro la classe aristocratica e ricca, contro i liberti saliti in alto e contro tutti gli stranieri in genere, come il dispregiatissimo Crispino, ma specialmente contro i Greci e gli Orientali. Va però notato che tutti i personaggi di qualche considerazione, contro i quali scaglia i suoi strali, erano morti, quando egli scrisse; pochi ancora vivi, o dell'ultimo ceto o in condizione di non potergli nuocere. Tutto ciò si vede principalmente nelle satire più importanti (I-IX). Alcune di queste, e più di tutte la IV e la IX, hanno tutta la vivacità di veri mimi. Già nell'VIII, ma specialmente nella X e in quelle che seguono si sente di più l'influsso dell'educazione retorica: i caratteri più notevoli e il principale aspetto della satira giovenaliana sono la violenza, l'invettiva e la declamazione. Egli dice di aver preso a modello Lucilio (I, 19-20), ma mentre carattere della satira luciliana era l'acerbità condita di ridicolo, ma fredda, che lasciava raramente sentire l'interna commozione del poeta, in G. invece c'è esuberanza di immaginazione e calore di sentimento, onde le impressioni sue, anche per effetto dell'educazione retorica, si coloriscono facilmente in immagini e lasciano traboccare la passione. Si deve pur dire che lo spettacolo del male, ingrandito dall'immaginazione, lo attrae e lo assorbe come se egli non veda che male e si compiaccia di ritrarlo nella sua più espressiva e spesso più cruda evidenza, e in questo senso si può chiamare il primo poeta satirico tragico (VI, 679-692; XV, 27-31), con manifesta preferenza per l'iperbole, di cui non di rado abusa; ma l'esagerazione e la declamazione, rimaste in lui e nel suo linguaggio anche dallo studio della retorica, e dall'esercizio del foro, non arrivano a soffocare la sincerità e la spontaneità, come l'espressione, pur nel tono enfatico, conserva gran parte della sua efficacia. A G. non mancò neppure l'attitudine di cogliere e ritrarre il ridicolo nelle persone e nelle cose, che gli consente di schizzare in diversi luoghi vere caricature in quadretti pieni di arguzia e di effetto comico. In certi momenti sembra, infine, che G. senta il bisogno di sottrarsi allo spettacolo del male per abbandonarsi alla serena contemplazione della semplicità campestre o di qualche scena intima o delicata. E talora nel suo verso vibra anche una nota soavemente triste. Né bisogna dimenticare che anche altri poeti, oltre Lucilio, esercitarono notevole influsso sull'arte di lui: Virgilio, Orazio, Marziale, suo contemporaneo e amico.
La sua lingua non si discosta nell'insieme dall'uso letterario e poetico del tempo: è ricca d'immagini e fa sentire qua e là un leggiero colorito arcaico, talvolta con effetto comico, ma anche per semplice vaghezza. Egli fa largo uso di grecismi inserendo nel suo testo anche parole e citazioni greche, e raccostandosi anche per ciò a Lucilio. I neologismi veri sono rari: non più di una trentina. Notevole è anche la vaghezza dei diminutivi, spesso usati, pur essi, con intendimento comico. Nello stile può sorprendere un certo contrasto fra la ridondanza degli ornamenti, e principalmente dell'amplificazione, della digressione, dell'esemplificazione e la concisione, non rara, della frase e dei costrutti, talora anche a scapito della limpidezza. Nella metrica G. non si allontana dall'uso tradizionale dell'esametro oraziano, specialmente di quello delle Epistole, per accostare il ritmo alla semplicità del discorso, specialmente nelle clausole, dove abbondano i monosillabi.
G. è natura veramente poetica, e, giudicato nel complesso dell'opera sua, appare indubbiamente come il maggiore poeta latino del sec. II d. C. Ma lo scrittore appare talora inferiore, e non solo per influsso della retorica ma anche per elaborazione non sempre adeguata, che non si spiega - come si volle spiegare da alcuni - con la vecchiaia del poeta, perché ve n'è traccia anche in alcune delle prime e più belle satire. Quelli che al Ribbeck (Der echte u. unechte Iuvenal, Berlino 1865) parvero errori, contraddizioni, incoerenze e che lo portarono ad attribuire la paternità di un intero gruppo di satire (X, XII, XIII, XIV, XV, XVI) a un poetastro imitatore di G., trovano sufficiente spiegazione, per chi non dimentichi che la satira di G. fa sentire, anche più di quelle dei predecessori, l'apparente disordine dell'antica satura, mentre le differenze più profonde fra diverse satire trovano la loro ragione nelle diverse condizioni in cui furono scritte e nel diminuito fervore poetico della vecchiaia.
Per tutto il sec. II e III, se non mancarono lettori a G., le sue satire, per il gusto dell'arcaismo che dominò l'indirizzo letterario sotto gli Antonini, per il sempre più profondo oscurarsi della coscienza morale pagana e per il diminuito interesse, a cui non dovette essere estranea anche la difficoltà d'interpretazione, non furono oggetto di particolare ammirazione. Solo il mutamento nel gusto e nell'indirizzo letterario, che risospinse nell'ultimo periodo dell'impero la poesia latina ai suoi grandi modelli, e la più libera manifestazione del pensiero cristiano poterono ridare voga all'opera poetica di lui nel sec. IV. Durante il Medioevo, dopo Virgilio, Orazio, Ovidio, Terenzio, G. fu dei poeti più letti anche nelle scuole, in grazia specialmente delle numerose sentenze morali. Al chiudersi del Medioevo, col rifiorire degli studî, G. è sempre dei poeti più letti. Dante lo tenne fra i più cari sì da metterlo nel limbo con gli altri poeti più grandi. Si trova spesso citato anche dal Petrarca. L'Umanesimo non tardò a farne conoscere e a divulgarne l'opera.
Manoscritti. - Tutta la tradizione manoscritta (oltre trecento codici) risale probabilmente a un archetipo della fine del sec. IV, da uno dei cui apografi dovette presto staccarsi l'ultimo quaternione, lasciando interrotto il testo della satira XVI. Un apografo così decurtato dové servire di base alla cosiddetta "recensione niceano-serviana", che introdusse nuove modificazioni e soppresse altri versi ritenuti di troppo difficile interpretazione. Da questa dipende a sua volta l'ulteriore tradizione che si scisse presto in due correnti, una meno corrotta (cod. di Montpellier 125, secolo IX [P]), l'altra più corrotta e anche contaminata di diverse recensioni (codices mixti). Fra questi importante è il Canon. XLI della Bodleiana, con i due frammenti già citati e con un testo in parte proveniente da antichissimo manoscritto anteriore alla recensione niceano-serviana su cui dovette essere più tardi corretto.
Ediz. e trad.: Generalmente si cita come editio princeps quella stampata a Roma nel 1470, apud Uldaricum Gallum, ma prima di questa n'era venuta in luce, nello stesso anno o nel precedente, un'altra pure a Roma (senza indicazioni tipografiche) con le sole cinque satire del primo libro. Fra le edizioni moderne si indicano principalmente quelle di: O. Ribbeck (Lipsia 1859); J. E. B. Mayor (I, Londra 1893; II, ivi 1888; mancano la II, VI, IX); C. F. Heinrich (Bonn 1839); O. Jahn (Berlino 1851); A. Weidner (2ª ed., Lipsia 1889); L. Friedländer (Lipsia 1895); A. Lewis (2ª ed. Londra 1882); A. E. Housman (Iondra 1905; coi frammenti bodleiani e coi versi del Valla); E. Cesareo (Messina 1900-1903; le sole prime 5 satire); J. D. Duff (Cambridge 1898; mancano la II e la IX); S. G. Owen (2ª ed. Oxford 1907; coi due framm. bodleiani e i tre versi del Valla); H. L. Wilson (Boston 1903; coi due framm. kodleiani); Jahn, Bücheler, Leo (4ª ed., Berlino 1910); P. De Labriolle e F. Villeneuve (Parigi 1921; coi due frammenti bodleiani e con versione francese).
Delle numerose traduzioni italiane, superiore alle altre resta sempre quella in endecasillabi sciolti di R. Vescovi (Firenze 1875), viva ed effiicace spesso, pur non mancando di qualche inesatta interpretazione.
Gli Scolii si dividono in 2 gruppi: quelli detti Pithoeani dal manoscritto più autorevole che li contiene, pubblicati nel 1851 dal Jahn e recentemente (1930) dal Wessner, e quelli erroneamente attribuiti a Cornuto da cui anche si chiamano.
Bibl.: Vedi, oltre alla bibliografia data dallo Schanz e dalle altre storie della letteratura latina e alle introduzioni di molte delle ediz. citate: E. Stampini, De Iuv. vita, Torino 1881; Fr. G. Merchant, The parentage of Iuv., in Amer. Journ. Philol., XXII (1901); Boissac, L'Exile de Iuv., in Rev. phil., 1917; Löschorn, in Philol. Woch., 1900, p. 262; F. Ramorino, in Atene e Roma, III, 1900; C. Marchesi, Giovenale, Roma 1922; P. Ercole, Note giovenaliane, in Riv. Indo-greco-ital., X (1926), III; id., La cronologia delle satire di Giovenale, in Riv. di filol. classica, II, luglio 1929 e III, settembre 1929; U. Knoche, Die Überlieferung Iuvenals, Evering 1926; Perret, La trasmission du texte de Iuv. d'après une nouvelle collation, Helsinki 1927; id., Ein Iuv. codex des XI Jahr. in Beneventan Schrift und seine Einordnung in die handschr. Überlieferung, in Hermes, LXIII (1928), p. 68; id., in Gnomon, IV (1928).