DECENTRAMENTO
(XII, p. 458; App. II, I, p. 761; III, I, p. 470; IV, I, p. 578)
Negli ultimi decenni, il principio del d. ha sempre più incontrato un diffuso favore tra gli uomini politici e gli specialisti di scienze sociali, indipendentemente da ogni implicazione ideologica. Si insiste sull'importanza di avvicinare l'amministrazione agli amministrati e sulla necessità di tutelare le autonomie locali, criticando, nel contempo, il carattere centralizzato delle strutture politiche e amministrative che si sono sviluppate nel 19° secolo e nei primi decenni del 20° secolo.
Si è notato, tuttavia, che l'ampiezza del dibattito, piuttosto che contribuire a una chiarificazione del concetto, è stata fonte di confusione. Il d. può essere visto come una mera formula organizzativa oppure può essere interpretato come una semplice reazione al processo, praticamente ininterrotto, di centralizzazione e di burocratizzazione che ha caratterizzato lo sviluppo dello stato sociale o stato provvidenza. In tale contesto il d. viene ravvisato come un rafforzamento degli interessi degli enti territoriali minori (comune, provincia, regione) di fronte al prepotere dello stato e della sua opprimente struttura burocratica. Il trasferimento di poteri alle comunità regionali e locali appare così la soluzione ideale per superare le difficoltà economiche, sociali e politiche del momento. Il d. ha l'effetto di conferire un'accresciuta autonomia ai governi regionali e locali ma ha anche il fine di permettere una più ampia partecipazione degli amministrati allo svolgimento di attività che direttamente li riguardano e di consentire una migliore conoscenza delle istanze locali nel momento dell'adozione di decisioni da parte dei poteri centrali. È forse questa seconda forma che si palesa la più importante ai fini di una trasformazione sostanziale di tutto l'apparato amministrativo.
L'aspetto partecipativo, d'altronde, permette di migliorare anche quelle funzioni che devono o comunque rimangono prevalentemente (se non esclusivamente) centralizzate, come per es. la raccolta e la distribuzione delle entrate tributarie. Per essere quanto più possibili efficaci, le politiche di redistribuzione devono infatti utilizzare al massimo l'apporto di informazioni e di istanze che provengono dai governi locali e regionali e lo stesso può dirsi per i programmi di sviluppo che coprono ampie parti del territorio nazionale.
Tuttavia, per quanto riguarda l'Italia, deve riconoscersi che attualmente, a quasi cinquant'anni dalla Costituzione, non si è ancora pervenuti a una lettura aggiornata dell'art. 5 che pone come principi fondamentali quelli dell'autonomia locale e del decentramento. La carta costituzionale ha inteso superare la deficienza di fondo dello stato liberale e ha deciso di spezzare l'accentramento e, quindi, l'assoluta centralità amministrativa a base comunitaria, dando importanza a centri territoriali di amministrazione a base comunitaria, incrementando cioè un canale democratico di comunicazione fra gli amministrati e l'amministrazione. Si è cercato in tal modo di realizzare un indirizzo preciso di organizzazione fondato sul sistema binario stato-enti locali. Il modello deve essere la base per dare vita a una ''amministrazione obiettivata'' (F. Benvenuti) che, concependo l'amministrazione come funzione, e come funzione democratica, traduca in pratica il superamento del pluralismo dei vari soggetti pubblici nell'interesse del cittadino-amministrato, avviandosi verso quella efficienza, imparzialità, rapidità ed economicità dell'azione amministrativa che sono postulati dalla stessa Costituzione.
La pratica attuazione di tali princìpi, però, non risponde finora alle premesse. Anche la riforma regionale, con tutto il suo potenziale innovativo, non ha dato luogo né alla revisione dell'apparato statale in centro e periferia, né al riordinamento delle autonomie locali.
Da questo punto di vista, anzi, oggi in Italia, a molti anni di distanza dall'emanazione del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, in attuazione della delega data al governo con la l. 22 luglio 1975 n. 382 per la realizzazione dell'ordinamento regionale e del d., la situazione appare oltremodo scoraggiante.
A Venezia si sono svolte nell'autunno del 1986, organizzate dalla Regione Veneto, tre giornate di studio per esaminare lo stato d'attuazione del d. a seguito del trasferimento di compiti alle regioni.
I due più autorevoli partecipanti, M. S. Giannini e F. Benvenuti, che sono fra i padri fondatori del regionalismo in Italia, hanno osservato, il primo, che in Italia non solo non si è attuata quella riforma in senso autonomistico e di d. che si voleva e doveva realizzare, ma che si è addirittura pervenuti a ''un centralismo soffocante'', e il secondo che ciò dipende anche e soprattutto dal fatto che manca tuttora in Italia una cultura idonea a comprendere il nuovo tipo di stato che segni un effettivo avanzamento nei confronti del passato, cioè uno stato sociale veramente decentrato, nel quale la democrazia non sia un fatto formale ma significhi la presenza e la partecipazione di tutti i consociati. La realtà, come avverte A. Barbera, è che si continua a fare una politica delle istituzioni di tipo centralistico.
È chiaro che il fulcro del d. è connesso alla funzionalità degli enti minori e soprattutto dei comuni; ma è proprio qui che la riforma regionalistica, la quale avrebbe dovuto avere il suo punto fondamentale nella delega di funzioni dalle regioni ai comuni, è venuta meno in ragione della mancata riforma degli enti locali. La disciplina comunale e provinciale è rimasta troppo a lungo ancorata a una legislazione frammentaria, farraginosa, antiquata, formata da disposizioni vecchie di 150 anni, che dovevano convivere con gli innumerevoli rappezzi normativi sopravvenuti. La mancata attuazione della riforma delle autonomie, che ha dato luogo a innumerevoli disegni di legge, ha anche condizionato la legislazione regionale in materia di deleghe a comuni e province, e il risultato è stato non già un disegno uniforme per il d. delle funzioni, ma una frammentazione dei rapporti con gli enti locali. Solo di recente è stata promulgata la l. 8 giugno 1990, n. 142 che è un testo di norme fondamentali sull'amministrazione locale e che sostituisce le vecchie leggi del 1915 e 1934 nonché il venerando regolamento del 1911. La nuova legge contiene una riaffermazione dell'autonomia del comune, struttura primaria di tutto il sistema delle autonomie, e prevede che ogni comune debba dotarsi di un proprio statuto nel quale disciplinare, fra l'altro, l'organizzazione interna. Viene così eliminata l'inderogabile uniformità che era finora imposta dalla precedente normativa.
Comunque la prolungata deficienza di un'organica e razionale legislazione per i comuni è stata posta in evidenza da S. Cassese, il quale ha notato la contraddizione esistente tra la forza politica di cui sono dotati i poteri locali, assicurata dalla loro rappresentatività democratica, e la loro debolezza amministrativa prodotta dalla promiscuità delle funzioni. I comuni svolgono compiti essenziali ma, nel loro esercizio, sono condizionati dal centro o per l'esistenza di leggi che disciplinano unitariamente il settore, o perché sono soggetti ancora a troppi controlli e approvazioni, o perché hanno soltanto una finanza derivata. Dal momento che l'amministrazione del comune è diretta dal centro, il corpo politico locale, più che amministrare, funge da mediatore e finisce per diventare un semplice gruppo di pressione nei confronti del potere politico centrale.
La vera causa del fallimento del d. è comunque da ravvisare nel fatto che lo strumento finanziario è quasi del tutto centralizzato, in quanto l'imposizione è concentrata nello stato, che è poi il ripartitore dei gettiti tributari fra i diversi enti. Lo stato si presenta cioè come "redistributore di ricchezze ai poteri pubblici" (Giannini), i quali divengono così fruitori di una finanza pubblica derivata. Attraverso l'accresciuta potestà di manovra della finanza pubblica si è conseguentemente ridotto il contenuto e la sostanza di un possibile d. e le previsioni di adeguamenti normativi, quali sono desumibili dalle discussioni che si svolgono in sede politica, sono tutt'altro che aperte a un effettivo disegno autonomistico in materia di finanza. Purtroppo il problema non viene risolto neppure dalla nuova l. 8 giugno 1990, n. 142, il cui art. 55 conferma il principio tradizionale legato alla concezione dell'unità della finanza pubblica.
La difficoltà sostanziale del d. deriva quindi dal permanere di una concezione centralistica dello stato che tuttora considera le autonomie locali come delle organizzazioni che si frappongono fra esso, soggetto sovrano, e i cittadini. Attraverso la normativa, che stabilisce competenze, opera deleghe, attua trasferimenti, disciplina la fonte e l'utilizzazione delle risorse finanziarie, lo stato cerca, in sostanza, di riaffermare, contro le tendenze centrifughe, la propria legittimità di ente sovrano, considera serventi i soggetti locali e ne condiziona la vitalità attraverso la legislazione finanziaria. Se ciò sia una inevitabile conseguenza dello stesso sviluppo dello stato sociale, che deve garantire ai cittadini l'eguaglianza economica e la sicurezza sociale, è un interrogativo che dobbiamo porci anche perché negli stati federali si sono verificate identiche tendenze di accentramento, soprattutto finanziario.
Non vi è dubbio che l'equilibrio tra sovranità e autonomia è sempre assai difficile e instabile, specie quando le zone di autonomia sono molteplici o tendono a modificarsi. Nel cammino dallo stato accentrato a quello decentrato, fondato sul sistema delle autonomie, si viene infatti verificando il fenomeno della moltiplicazione delle sfere di amministrazione a vocazione generale.
I comuni non diminuiscono di numero nonostante ve ne siano troppi di scarsissima popolazione e di irrisorie e inadeguate risorse economiche (comunipolvere). Aumenta la tendenza a moltiplicare il numero delle province, nonostante la prevalente opinione che si tratti di un ente sopravvissuto, di scarsa utilità, privo di sostanziali funzioni e di eccessivo costo per la collettività. Nascono enti intermedi e comprensori; si appalesa d'altro canto indispensabile creare, nelle circoscrizioni comunali aventi dimensioni di metropoli, strumenti di d. per portare l'organizzazione e la resa dei servizi più prossima al cittadino. E ciò si è verificato con la nuova l. 1990 n. 142, che ha introdotto l'area metropolitana per nove grandi città in modo da far fronte al crescente fenomeno della conurbazione. Vi è quindi un insieme di contraddizioni che sono riconoscibili nell'inventario dei fenomeni che tra gli anni Settanta e Ottanta hanno caratterizzato quella figura che classifichiamo sotto l'etichetta generica di ''decentramento''.
Vista sotto alcuni profili la stessa attività normativa e amministrativa delle regioni, nell'ambito di quei limiti che sono ad essa indicati dalla legislazione costituzionale e statale e che sono stati interpretati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, sembra riprodurre, in senso deteriore, quel processo avvenuto più di un secolo fa e che venne identificato come ''unificazione amministrativa''.
Si è potuto così giustamente osservare che lo stato accentrato "in luogo di impartire disposizioni amministrative ai propri uffici ha formulato dei testi normativi in forma di leggi, e i piccoli parlamenti regionali hanno dovuto attenersi ad essi perché fosse appunto salva l'uniformità normativa, anche a mezzo dell'indifferenza agli interessi reali, oppure alle aspirazioni ideali cui singolarmente gli enti di autonomia avrebbero potuto adeguarsi avendo avanti agli occhi le aspettative delle rispettive popolazioni" (G. Berti).
In questo contesto la Corte costituzionale, che dovrebbe garantire, in base alla Costituzione, la sfera di attribuzioni legislative e amministrative delle regioni e quindi, in sostanza, il principio del d., con la propria giurisprudenza ha sovente cercato di salvaguardare la legittimità di interventi statali che sembrano contrari al d. e al rispetto delle autonomie.
Il concludersi della lunga operazione di trasferimento di funzioni dallo stato alle regioni è stato da molti interpretato − come si è detto − in termini recessivi. E ciò anche perché il limite delle materie indicate dalla Costituzione sembra ampiamente inadeguato e da superare. Altre materie e altri settori di intervento pubblico, che sono al di fuori dell'esiguo elenco delle materie regionali, dovrebbero essere identificate. Ma anche in quelle indubbiamente regionali, l'intervento statale si verifica in senso nettamente opposto come è provato dalla regolamentazione centralistica dell'ambiente disposta dallo stato con la l. 8 luglio 1986, n. 349. Né appaiono soddisfacenti la nuova legge sulle autonomie locali e le dichiarazioni di governo intese ad affermare che essa contribuisce a fornire nuova forza e più adeguate forme alle autonomie locali.
Bibl.: A. Barbera, Le istituzioni del pluralismo - Regioni e poteri locali: autonomie per governare, Bari 1977; M. La Rosa, Decentramento e riforma dello Stato. Il caso italiano, Roma 1980; A. Barbera, Sviluppo della programmazione e sviluppo delle autonomie, in Le autonomie, ivi 1983; G. Berti, Diritto e Stato, Riflessioni sul cambiamento, Padova 1986; S. Cassese, Centro e periferia in Italia. I grandi tornanti della loro storia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1986, p. 594; G. Berti, Tastiera regionale, in Il diritto della regione, 1988; M. S. Giannini, L'amministrazione pubblica nello stato contemporaneo, Padova 1988; E. Buglione, G. France, La promozione della funzionalità nelle istituzioni pubbliche, Milano 1990.