debito sovrano
Debito accumulato nel tempo da uno Stato sovrano per far fronte ai propri compiti. In una visione ideale lo Stato dovrebbe fornire ai propri cittadini i servizi essenziali, utilizzando risorse provenienti dal prelievo fiscale (imposte e tasse). Sono necessarie, però, anche spese derivanti dall’esigenza di effettuare investimenti strutturali indispensabili al progresso economico e sociale del Paese. Di queste spese beneficeranno le generazioni future o le presenti, ma in epoca successiva.
È fisiologico che questi investimenti vengano finanziati accendendo d. da ripagare con prelievi fiscali sul futuro reddito così accresciuto. L’efficacia di tali politiche infrastrutturali è, peraltro, piuttosto aleatoria. Inoltre è sempre presente, per motivi legati all’acquisizione del consenso popolare in vista del successo elettorale, la tentazione di ricorrere all’indebitamento (➔) anche per finanziare parte della spesa corrente. Per queste ragioni quasi tutti i Paesi a economia avanzata in cui vigono regimi di democrazia parlamentare (per es., i Paesi del G7, cioè Stati Uniti, Canada, Giappone, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia) hanno fatto registrare, nel corso del 20° sec., una tendenza generalizzata, pur se con valori diversificati, alla crescita dei rispettivi d. sovrani. Va precisato che ciò che conta non è il valore assoluto del d., ma quello in rapporto al Prodotto Interno Lordo (➔ PIL ) corrente del Paese, tenendo conto delle prospettive di crescita future. È infatti dal prelievo fiscale sul PIL che dovranno provenire le risorse, sia per finanziare le spese correnti sia per ammortizzare il d., o almeno pagarne gli interessi, mantenendo il rapporto debito/PIL entro limiti di sicurezza. Gli accordi di Maastricht (➔ Trattato di Maastricht), sottoscritti dai Paesi dell’Unione Europea, individuarono nel 60% il confine superiore di accettabilità del rapporto debito/PIL, prevedendo sanzioni o disincentivi per gli Stati che sforassero questo tetto o che, avendolo già fatto in passato, non intraprendessero incisive politiche di risanamento.
Posto che ogni Stato sovrano si finanzia emettendo titoli obbligazionari (buoni), la situazione risulta diversa se i creditori, ovvero i detentori di tali titoli, sono famiglie o imprese dello Stato stesso (debito domestico), o di altri Stati (debito estero), ovvero istituzioni economiche internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (➔ FMI), il Fondo di stabilità europeo (➔ EFSF) e la Banca Mondiale (➔). Nel primo caso si tratta principalmente di un problema di equilibri politici interni su chi debba sostenere l’onere fiscale del debito. Nel secondo caso, il drenaggio di risorse, derivante dal pagamento all’esterno di interessi passivi (➔ interesse ), può deprimere l’economia, determinando un circolo vizioso.
In linea di principio uno Stato non è esposto al rischio di bancarotta (➔) se il suo d. s. è in valuta nazionale e non indicizzato all’inflazione (➔ ). Per pagarlo può infatti stampare moneta, a meno che non esista una clausola di ‘divorzio’ fra lo Stato stesso e la sua banca centrale (no bailout clause; ➔ bailout); in tal modo, esso genera inflazione e beneficia (come ogni debitore) della riduzione del valore reale del debito. Questa strada non è invece percorribile se il d. s. è in valuta estera. Un’evenienza di questo tipo causò, per es., verso la fine del 20° sec., la bancarotta del d. s. dell’Argentina (tango bonds) e di alcuni Stati del Sud-Est asiatico. Inoltre, questa via d’uscita non esiste nell’Europa. Infatti, gli Stati aderenti all’euro non possono più ricorrere a questa strategia perché il trattato impone la no bailout clause e ciò rende vulnerabili, in periodi di bassa crescita del PIL, i Paesi con più alto d. s., come Grecia, Italia e Portogallo. La bancarotta di uno Stato sovrano è un evento temuto dai mercati, in quanto può provocare fallimenti bancari e una crisi generalizzata del sistema finanziario che, propagandosi per contagio all’economia reale, genererebbe effetti disastrosi.