DEBITO PUBBLICO
(XII, p. 437; App. II, I, p. 759; III, I, p. 468; IV, I, p. 577)
Il problema del d. e del disavanzo p. di un aggregato convenzionale di istituzioni pubbliche operanti fuori mercato, denominato Pubblica amministrazione (P.A.), si pone oggi nella realtà e nella dottrina in termini diversi da come si poneva in passato. La differenza si riassume nell'abbandono definitivo della discussione sull'alternativa tra d. e imposta straordinaria, la cui ragione d'essere risiedeva nell'opinione largamente scontata che la funzione economica delle entrate dello stato fosse quella di coprire le spese, e che fare spese pubbliche senza copertura fosse per definizione cattiva amministrazione. Solo circostanze straordinarie, considerate per definizione temporanee, potevano causare e giustificare una diversa condotta finanziaria. L'evoluzione delle interdipendenze e delle istituzioni finanziarie, quella della presenza pubblica nell'economia, e quella della dottrina hanno portato a un diffuso cambiamento di prassi e di opinione. Un disavanzo pubblico anche prolungato, e il conseguente accumulo di un consistente e durevole stock di d. p. può costituire un fenomeno fisiologico, da valutare nelle sue cause e nei suoi effetti, ma non qualificabile a priori come nocivo o anomalo. La prolungata presenza di disavanzi e d. consistenti in molti paesi ha altresì accresciuto l'importanza relativa dell'argomento, che è oggi uno dei più dibattuti dagli economisti.
Presentiamo un'esposizione, di sintesi e orientativa, dei principali punti della dottrina economica moderna del d.p., ponendo l'accento sugli aspetti concettuali e teorici, così come sono andati sviluppandosi nella letteratura scientifica, con riferimento implicito alla esperienza recente delle economie industrializzate di mercato. Nella parte finale forniamo un prospetto sommario dell'evoluzione quantitativa del d.p. e delle altre grandezze macroeconomiche strettamente correlate, in Italia e nei principali paesi industrializzati.
D. e disavanzo sono due facce dello stesso fenomeno: il disavanzo è il generatore del d. e il d., tramite il servizio degli interessi, alimenta il disavanzo. Pertanto parlare dell'uno significa parlare anche dell'altro e viceversa. La più semplice relazione definitoria tra d. e disavanzo è la seguente: G − T + RD = D = 〈P6>DD, dove G è la spesa per consumi e investimenti pubblici, T sono i trasferimenti netti ricevuti dalla P.A., escluso il saldo degli interessi (principalmente dunque entrate tributarie, meno pensioni e trasferimenti sociali vari), R è il tasso di interesse nominale medio sul d. netto della P.A., D è lo stock nominale di tale d. netto (RD è dunque pari al saldo degli interessi nominali pagati meno quelli ricevuti), ·D è il disavanzo nominale totale (indebitamento netto), pari per definizione alla variazione dello stock nominale del d. netto nell'unità di tempo, e 〈P6>D = ·D/D è il tasso di detta variazione nell'unità di tempo. G − T, cioè la parte positiva o negativa, di disavanzo non dovuta alla spesa netta per interessi, è il disavanzo primario. Occorre poi distinguere dal disavanzo totale nominale, testè definito, il disavanzo totale reale, pari a quello nominale diminuito dell'erosione del valore del d. dovuta all'inflazione.
D. e disavanzo sono esaminati nella dottrina sotto diverse angolazioni. La più tradizionale è quella che guarda al ruolo del disavanzo nella determinazione del livello della domanda aggregata, e quindi, indirettamente, dell'attività economica aggregata. In tale angolazione il ruolo del disavanzo come generatore di d. viene per così dire accantonato o comunque posto in secondo piano. Secondo il paradigma tradizionale (detto anche, convenzionalmente, ''keynesiano'') un aumento del disavanzo genera un aumento della domanda aggregata, in misura più o meno grande a seconda dei comportamenti degli operatori, delle loro aspettative, e delle contestuali altre azioni di politica macroeconomica, segnatamente di quella monetaria. Il meccanismo fondamentale che presiede a questo effetto espansivo risiede nella condizione di equilibrio che identifica il livello tendenziale della domanda aggregata.
Nella sua espressione più semplice essa richiede che il risparmio desiderato dell'economia (famiglie e imprese) sia uguale a: 1) l'investimento desiderato della stessa, più 2) il disavanzo pubblico, più 3) il saldo delle partite correnti. Se a un dato livello del prodotto interno lordo (PIL) il disavanzo aumenta, per un aumento della spesa o una diminuzione delle entrate, si crea un eccesso di domanda. In risposta il PIL aumenta. Ciò accresce il risparmio attraverso l'aumento indotto del reddito disponibile, riduce in parte l'accresciuto disavanzo attraverso l'aumento indotto delle entrate fiscali, e riduce il saldo delle partite correnti attraverso l'aumento indotto delle importazioni. Dunque il PIL cresce fino a riportare in equilibrio il mercato aggregato dei beni.
Questo meccanismo costituisce l'impulso espansivo base del disavanzo sul PIL. Esso ne mette in moto altri che riguardano principalmente i tassi di interesse e di cambio, dipendono largamente dalla concomitante politica monetaria, e concorrono con il primo, frenandolo o accentuandolo, a determinare l'effetto complessivo sul PIL. L'esistenza del meccanismo espansivo base è tuttora generalmente accettata nella teoria, e confortata (o quanto meno non smentita) dall'evidenza empirica. In epoca relativamente recente essa è stata però contestata nei suoi fondamenti tramite la moderna riproposizione della cosiddetta ipotesi ricardiana di equivalenza. L'impulso espansivo di un aumentato disavanzo verrebbe praticamente cancellato da un corrispondente aumento del risparmio desiderato dell'economia. Gli operatori considerano che un maggior disavanzo oggi significa una maggiore tassazione domani, per sé e per i loro discendenti. Pertanto anticipano con un maggior risparmio presente il maggior d. tributario futuro atteso. Lo stock del d. p., in particolare, non sarebbe percepito come ricchezza dai suoi detentori, perché pareggiato dal valore attualizzato del corrispondente flusso di tasse future necessarie a ripagarlo. Questa controversa tesi costituisce un significativo punto di svolta nella dottrina contemporanea del d. e disavanzo p., e intorno ad essa è vivo il dibattito teorico e la ricerca di evidenza empirica.
Un'altra angolazione tradizionale è quella che guarda ai diversi modi di finanziamento del disavanzo. Un dato disavanzo pubblico (della P.A. consolidata con l'autorità monetaria) può essere finanziato con una combinazione qualsiasi di aumento di debito fruttifero, collocato presso l'economia (famiglie, imprese, banche) o l'estero, di aumento di base monetaria, e quindi, mediatamente, di liquidità, e di riduzione di riserve ufficiali. Gli effetti di modi alternativi di finanziamento si dispiegano in diverse direzioni.
Ne menzioniamo due delle principali. La prima riguarda la dinamica dell'offerta di liquidità che, ceteris paribus, cresce al crescere della quota di finanziamento monetario, e quella del tasso di cambio. Entrambe concorrono a determinare la dinamica complessiva della domanda aggregata, e quindi quella dell'occupazione, dell'inflazione e dei conti con l'estero. La seconda direzione riguarda la composizione tendenziale dello stock di d. in forma di d. fruttifero e base monetaria. Ovviamente al crescere della quota di finanziamento monetario tende a diminuire la quota del d. totale detenuta sotto forma di d. fruttifero. A tassi di interesse nominale invariati ciò comporta una riduzione dell'onere nominale del d., misurato dal rapporto tra (numeratore) l'ammontare degli interessi nominali e (denominatore) il PIL nominale. Inoltre in presenza di inflazione occorre distinguere dall'onere nominale l'onere reale del debito. Quest'ultimo sarà misurato dal rapporto tra (numeratore) l'ammontare degli interessi nominali diminuito dell'erosione del valore del d. totale dovuta all'inflazione, e (denominatore) il PIL nominale.
Per disegnare i possibili effetti macroeconomici, nel medio e lungo periodo, di scelte alternative circa l'entità e il modo di finanziamento del disavanzo sono peraltro necessarie ipotesi e analisi articolate, che esulano da questa sommaria esposizione. Merita però un cenno, per la sua attualità nella presente situazione di elevata e crescente integrazione internazionale dei mercati reali e finanziari, l'argomento degli effetti alternativi di un finanziamento interno o esterno di un disavanzo pubblico dato. L'alternativa può riguardare 1) una diversa distribuzione settoriale (P.A., economia, estero) delle transazioni finanziarie, per una combinazione settoriale data dei saldi di bilancio, oppure 2) una diversa combinazione settoriale di tali saldi.
La prima alternativa rientra, dal punto di vista logico, nel tema già menzionato dei diversi modi di finanziamento di un disavanzo dato. La seconda apre un problema diverso. A evidenziarne la peculiare importanza basta osservare che in termini di flussi un disavanzo o saldo finanziario pubblico dato deve essere per definizione finanziato dalla somma del 1) surplus finanziario dell'economia (risparmi meno investimenti privati) più 2) il deficit estero corrente (importazioni meno esportazioni più flusso netto di redditi e trasferimenti verso l'estero). Una sostituzione del finanziamento interno, a carico dell'economia, con il finanziamento esterno, a carico dell'estero, di un disavanzo pubblico dato significa dunque un aumento del deficit estero corrente e una diminuzione del surplus finanziario dell'economia. Ciò produce effetti potenziali negativi nel senso di una spinta all'aumento nel tempo della quota del d. estero sul PIL e, per questa via, all'ulteriore aumento nel tempo 1) della quota del PIL assorbita dall'estero sotto forma di flusso in uscita di redditi netti, e 2) della quota sul PIL del deficit estero corrente (appunto per la maggior incidenza di tale flusso in uscita di redditi netti). Se la diminuzione del surplus finanziario dell'economia avviene principalmente attraverso una diminuzione dei risparmi, cioè un aumento dei consumi, gli effetti negativi di un aumento del finanziamento esterno verranno accentuati. Se invece essa avviene principalmente attraverso un aumento degli investimenti e quindi della crescita, o se è comunque accompagnata da un aumento della produttività, allora tali effetti potranno essere attenuati, o anche invertiti.
Il livello del disavanzo non dipende solo da voci di spesa e di entrata esogene, relativamente insensibili al livello di attività aggregata, ma anche da voci endogene, che variano significativamente al variare di quel livello. Tra queste vi sono, segnatamente, una larga parte delle entrate tributarie, e i trasferimenti sociali legati ai bassi redditi e alla disoccupazione. Pertanto, per una data struttura delle spese e delle entrate il livello del disavanzo varia al variare del reddito. A questa nozione di disavanzo corrente, propria delle analisi e politiche congiunturali, si contrappone una nozione di disavanzo strutturale, corrispondente a un dato livello del PIL, e misurato convenientemente come percentuale di un PIL potenziale opportunamente stimato. Una tale misura del disavanzo è più appropriata nelle analisi e politiche di medio e lungo periodo. Essa è in particolare la misura adottata nel trattare la questione della sostenibilità del disavanzo, le cui prime formulazioni moderne risalgono ad alcuni decenni fa a opera dell'economista americano E. Domar.
Il problema della sostenibilità del d. e disavanzo nel medio e lungo periodo trova la sua espressione più sintetica, seppure più astratta, nella relazione tra tre grandezze, teoricamente semplici: 1) la quota del disavanzo primario (quello al netto degli interessi) sul PIL, 2) il tasso di interesse nominale medio sul debito complessivo netto, e 3) il tasso di crescita nominale del PIL. Se il tasso di interesse nominale è minore di quello di crescita nominale, allora l'accumulo di d. dovuto a un disavanzo primario prolungato, accresciuto del carico degli interessi, genera un rapporto d./PIL che tende a stabilizzarsi intorno a un livello dato. Se invece l'interesse è maggiore, o anche uguale, alla crescita, allora il suddetto accumulo di d. genera un rapporto d./PIL che tende a crescere indefinitamente (la stessa relazione si può ovviamente riformulare in termini di tassi di interesse e di crescita reali, riducendo semplicemente del tasso di inflazione quelli nominali). Disavanzo primario, interesse nominale medio e crescita nominale sono grandezze aggregate. Riflettono una realtà istituzionale, finanziaria e di mercato articolata e complessa, e sono soggette a continue oscillazioni. Premessa questa qualificazione, l'esperienza recente di molti paesi mostra una tendenza dei tassi di interesse nominale a eccedere la crescita nominale o comunque a non esserne inferiori. In tale situazione per mantenere un rapporto d./PIL costante o per diminuirlo occorrerebbe o riuscire ugualmente ad abbassare sensibilmente il costo del d., oppure praticare un durevole avanzo primario di bilancio. Comunque, anche in presenza di un interesse medio minore della crescita il rapporto d./PIL di tendenza potrebbe essere molto alto, se lo scarto è piccolo e il disavanzo primario è grande, e una crescita sproporzionata della quota del d. sulla ricchezza totale dell'economia potrebbe spingere a sua volta verso un rialzo degli interessi, per mantenere un equilibrio nel mercato delle attività reali e finanziarie.
Il discorso sulla sostenibilità conduce a quello sull'onere del d. e disavanzo, di cui esistono diverse nozioni, tutte variamente significative. Ne menzioniamo due delle principali. La prima, che abbiamo già toccato, fa riferimento al flusso degli interessi pagati su uno stock di d. comunque ereditato dal passato, inteso come voce di spesa che impegna una parte più o meno grande delle entrate (tributarie), e costituisce un trasferimento intragenerazionale di reddito (o benessere) dai contribuenti ai detentori del debito. Una misura di massima di questo onere è quella già definita, data dal rapporto tra l'ammontare complessivo degli interessi nominali o reali pagati sul d., e il PIL. Essa indica quanta parte della pressione tributaria sul PIL è assorbita dal servizio nominale o reale degli interessi, e quanta dunque ne rimane per coprire le spese primarie. Essa può anche essere interpretata come un primo indice del peso redistributivo intragenerazionale del d., nella misura in cui il possesso del d. non sia distribuito tra i contribuenti in modo approssimativamente proporzionale al loro carico tributario.
Una seconda nozione di onere fa riferimento all'impatto redistributivo non intra, bensì intergenerazionale, del d. e del disavanzo. Com'è facile comprendere, su questo problema ancor più che su ogni altro l'analisi economica non può fornire risposte univoche e definitive, bensì solo tracciare i diversi scenari corrispondenti a ipotesi alternative di interazioni, e approfondire e vagliare le basi empiriche e teoriche di tali ipotesi. Semplificando il più possibile i termini del problema, si tratta di valutare gli aspetti redistributivi o di equità intergenerazionale di un'alternativa di questo tipo: una quota data di spesa pubblica può essere finanziata, temporaneamente o permanentemente, o con entrate o in disavanzo. Le due diverse politiche finanziarie possono incidere in modo simile o diverso sull'evoluzione dell'economia. Nella misura in cui il finanziamento in disavanzo comportasse una riduzione, temporanea o permanente, della crescita reale dell'economia (rispetto a quella che avrebbe accompagnato una copertura tributaria), l'impatto redistributivo del disavanzo sarebbe a favore della generazione presente e a danno di quelle future, quantificabile in un diverso profilo temporale previsto dei consumi pubblici e di quelli privati pro-capite. Tale impatto potrebbe derivare da una riduzione dell'investimento in capitale fisico e innovazione, indotta da un eccesso di domanda e da un aumento dei tassi di interesse (spiazzamento). Pur senza poter entrare nei particolari di questa complicata e controversa questione, va avvertito che sull'impatto redistributivo intergenerazionale testè ipotizzato di una politica di disavanzo il consenso è più largo nell'opinione pubblica che fra gli economisti professionali.
Accanto agli aspetti di equità intergenerazionale del d. e del disavanzo vi sono quelli di ottimalità o efficienza, statica e dinamica. Qui ci limitiamo a osservare che la differenza qualitativa principale tra i due aspetti scaturisce dalla logica paretiana e dalla sua estensione a un orizzonte plurigenerazionale. La considerazione degli aspetti di distribuzione intergenerazionale riguarda il confronto tra politiche finanziarie pubbliche alternative che differiscono perché i rispettivi previsti profili temporali dei consumi pubblici, e di quelli privati pro-capite, comportano una diversa distribuzione del benessere tra la generazione presente e quelle future. La considerazione degli aspetti di efficienza dinamica riguarda invece l'identificazione di quelle politiche finanziarie pubbliche che massimizzino, in termini di consumi pubblici, e privati pro-capite, il benessere di tutte le generazioni. Inoltre, da più parti si sono enfatizzati, particolarmente in tempi recenti, i possibili effetti distorsivi di un'elevata pressione fiscale, che dunque può ridurre il disavanzo ma contemporaneamente peggiorare l'efficienza intra e intertemporale dell'allocazione delle risorse. Pertanto per questa via a una riduzione del disavanzo ottenuta con una maggiore pressione tributaria si potrebbero anche accompagnare effetti depressivi sulla produttività e la crescita dell'economia.
La discussione che precede ha riguardato principalmente gli aspetti concettuali e teorici del tema del d. e disavanzo pubblico. Per completare il quadro prospettiamo nella tabella una scelta di dati che forniscono un'informazione di massima sull'evoluzione quantitativa del fenomeno nei principali paesi industrializzati, nell'ultimo decennio. Le voci di disavanzo, d. e interessi (1-5) riguardano per ciascun paese il conto consolidato della P.A. Per l'Italia questo aggregato comprende essenzialmente lo Stato, gli altri enti dell'amministrazione centrale, le amministrazioni locali e gli enti assistenziali e previdenziali. Gli indici quantitativi sono stati scelti in modo da rispondere a tre principali obiettivi: a) consentono un collegamento, in termini di ordini di grandezza, tra i concetti discussi in teoria e l'esperienza economica corrente; b) si riferiscono ad alcuni degli aspetti della situazione di bilancio dell'Italia che hanno costituito nel recente passato, e continueranno a costituire nel prossimo futuro, oggetto primario di attenzione, dibattito e controversia in sede di azione di politica economica sia congiunturale che di medio termine; ci limitiamo a menzionare, tra gli altri, l'obiettivo costantemente ribadito dai governi italiani di ridurre o almeno frenare la crescita del comparativamente assai elevato rapporto d./PIL attraverso la riduzione progressiva del disavanzo primario (2) e dell'onere degli interessi (3 e 5); c) infine consentono di considerare alcune peculiarità della situazione italiana in una prospettiva comparativa.
Bibl.: B. D. Bernheim, Ricardian equivalence: an evaluation of theory and evidence, in NBER Macroeconomics Annual 1987, Cambridge (Massachusetts) 1987; The economics of public debt, a cura di K. J. Arrow e M. J. Boskin, Londra 1988; High public debt: the italian experience, a cura di F. Giavazzi e L. Spaventa, Cambridge 1988; La spirale del debito pubblico, a cura di A. Graziani, Bologna 1988; Il debito pubblico, a cura di M. Matteuzzi e A. Simonazzi, ivi 1988; D. Romer, What are the costs of excessive deficits?, in NBER Macroeconomics Annual 1988, Cambridge (Massachusetts) 1988; AA. VV., Symposium on the budget deficit, in The Journal of Economic Perspectives, vol. 3, n. 2 (1989).