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DEBITO PUBBLICO

di Gaetano Stammati - Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1978)
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DEBITO PUBBLICO (XII, p. 437; App. II, 1, p. 759; III, 1, p. 468)

Gaetano Stammati

La classificazione e l'esatta sistemazione teorica del d. p. costituiscono argomento di un'interessante evoluzione nelle opinioni dottrinali, mentre il dibattito politico sembra seguire a rilento i nuovi indirizzi della scienza finanziaria.

La dottrina tradizionale - infatti - ricollega il fenomeno del d. p. prevalentemente alla finanza straordinaria, cioè - in una situazione di pieno impiego dei fattori produttivi - all'accrescimento delle spese pubbliche, di carattere temporaneo, ma di eccezionale rilevanza (com'è il caso, tipico, di una guerra). Il fenomeno del d. transitorio (in ispecie l'emissione dei "buoni ordinari del tesoro") è stato considerato come fatto di brevissimo termine, o preparatorio all'emissione di d. a più lunga scadenza; in particolare, esso è stato discusso (Einaudi) sotto l'aspetto "aziendalistico", cioè della convenienza, da parte del Tesoro, di contrarre d. a tassi elevati. I temi dibattuti riguardavano, perciò, essenzialmente il confronto fra il ricorso al d. e il ricorso all'imposta "straordinaria", rispetto alle diverse categorie di redditi, come pure rispetto alla generazione presente o alla futura. Più recentemente queste posizioni sono state rivedute, in conseguenza della difficoltà di distinguere con esattezza fra spese ordinarie e straordinarie, ma più ancora perché il disavanzo del bilancio statale ha assunto ormai, quasi ovunque, carattere strutturale e la cosiddetta "regola del pareggio" - in presenza di fenomeni di disoccupazione o di sottoccupazione - non è più ritenuta valida (v. bilancio dello stato, in questa App.).

In conclusione, mentre da taluni il ricorso al d. p. viene ritenuto compatibile con un'economica condotta finanziaria, nella finanza straordinaria, come alternativa alle imposte straordinarie e, nella finanza ordinaria, soltanto sotto forma di buoni del tesoro ordinari (a scadenza inferiore a un anno) volti a pareggiare eventuali deficits di cassa da compensarsi entro l'esercizio finanziario; da altri, invece, il d. p. è concepito come forma non esclusiva della finanza straordinaria e quindi ipotizzabile anche come forma della finanza ordinaria.

Chi propende per la prima tesi parte dell'osservazione che lo stato può finanziare il proprio bilancio con tre diversi strumenti aventi la caratteristica d'intaccare il patrimonio nazionale: d. p., imposta straordinaria e inflazione. Ora, si dice, l'imposta straordinaria sul patrimonio e il d. p. hanno un carattere comune: quello d'incidere sul risparmio nazionale. Di conseguenza viene, secondo tale opinione, negata quella teoria finanziaria che ha cercato di convalidare la tesi che il d. p. costituisca un mezzo per spostare sulle generazioni future un onere che altrimenti graverebbe, con l'imposta straordinaria, sulle generazioni presenti.

Premesso che per "pressione" esercitata dal prestito o dall'imposta, debba intendersi la diminuzione dell'ammontare del reddito o del valore del patrimonio in seguito al prelievo operato dallo stato, e partendo dal presupposto che il fabbisogno finanziario dello stato, necessario per fronteggiare una certa spesa straordinaria, superi largamente l'ammontare del reddito disponibile di un certo periodo, si conclude che non vi è alcuna differenza tra imposta e d. anche perché l'onere viene subìto sia dalle generazioni presenti che da quelle future.

Sia, infatti, che venga applicata l'imposta che contratto il d. p., le generazioni avvenire erediteranno in entrambi i casi un patrimonio e un reddito proporzionale minore. Il sacrificio della generazione presente è identico a quello delle generazioni future e in entrambi i casi il prelievo patrimoniale non e assolutamente in grado di aumentare il sacrificio delle generazioni attualî a beneficio di quelle che verranno. Tale ragionamento viene evidentemente riferito alla collettività nel suo complesso e non con riferimento a questa o a quella classe di redditieri.

Ampia è l'elaborazione teorica per dimostrare gli effetti del ricorso all'imposta o al d. p. e per concludere che non vi è alcun elemento astratto che giochi sostanzialmente a favore del d. p. e contro l'imposta straordinaria sul patrimonio.

L'opinione contraria si basa essenzialmente sull'impossibilità di distinguere tra spese ordinarie e spese straordinarie sulla base della loro natura. Nella realtà, si afferma, non esiste un tipo o un livello di spese per il quale sia comunque doverosa la copertura mediante l'imposta, e soltanto fuori, e oltre il quale, sia legittimo il ricorso al prestito. Così per es. nella finanza delle guerre moderne, che è certo finanza straordinaria, l'entità dei fabbisogni è del tutto sproporzionata alle quantità di beni già esistenti e mobilitabili per la guerra, e può essere fronteggiata soltanto dal flusso della produzione corrente. Ma allora - si sostiene - il finanziamento deve provenire sostanzialmente dal reddito corrente. E, infatti, nella finanza straordinaria dei tempi moderni sempre più largo è il ricorso alle imposte, mentre i prestiti hanno come funzione prevalente non tanto l'assorbimento di disponibilità liquide quanto il prelievo dal reddito corrente mediante un tipo di processo inflazionistico. Viceversa, nella finanza dei tempi ordinari, il prestito si può presentare come un mezzo per mobilitare risorse che sono o rimarrebbero inerti, e per finanziare la spesa pubblica senza elevare le aliquote delle imposte a livelli mal sopportabili dai contribuenti che hanno oggi scarsi margini di reddito e che dallo sviluppo della vita economica possono attendersi un incremento di reddito che permetta loro di contribuire più agevolmente alla liquidazione del debito.

Come per il disavanzo del bilancio statale, si pone, anche per il d. p., un problema di limiti, connesso all'utilizzazione del ricavato del prestito (che può essere impiegato a scopi produttivi o meramente consuntivi), nonché all'origine dei fondi presi a prestito (se cioè si tratta di d. interno ovvero di d. contratto all'estero).

Per il nostro paese, questo dell'indebitamento esterno è divenuto negli ultimi anni un problema di grande rilievo, connesso allo squilibrio persistente della nostra bilancia dei pagamenti. Attualmente (primavera 1976), l'ammontare del nostro d. estero è di 15,5 miliardi di dollari circa, dei quali 7 raccolti sul mercato finanziario all'estero, 2,7 ottenuti dal Fondo monetario internazionale, 2 dalla Bundesbank, 2,9 dalla CEE, 0,750 dalla Riserva federale SUA. Il rimborso delle somme ottenute e dei relativi interessi si svilupperà fino all'anno 1985.

Quanto al d. interno, accanto al problema delle dimensioni si pongono altri problemi, che riguardano non solo il costo del d. nel suo complesso ma, specialmente, la sua struttura e gli effetti che esso produce, o può produrre, sulla politica monetaria. Il cosiddetto debt management si riferisce quindi alla struttura stessa del d., cioè all'opportuna gestione dei vari strumenti finanziari dello stato e delle varie forme di attività finanziaria, non solo dal punto di vista "aziendalistico" del tesoro, il quale ha certamente interesse a contrarre d. nelle forme meno costose ma, soprattutto, sotto il profilo del governo della liquidità che talune forme di d. p. (specialmente i ricordati buoni ordinari del tesoro) consentono; assumono rilievo, a questo riguardo, le cosiddette operazioni di mercato aperto, cioè gli acquisti e le vendite di titoli effettuati dalla Banca centrale.

Più che ricordare le note distinzioni del d. p. (fluttuante, redimibile, consolidato, forzoso, volontario, ecc.), giova sottolineare questo aspetto "monetario" di talune forme del d. p.: lo "scoperto" del conto corrente intrattenuto dalla Tesoreria con la Banca d'Italia; l'emissione, divenuta torrentizia, dei BOT. Giova anche sottolineare talune forme d'indebitamento connesse alla gestione del bilancio: i mutui contratti con il Consorzio di credito per le opere pubbliche, l'accumulo dei cosiddetti "residui passivi" (spese di bilancio impegnate ma non eseguite materialmente) e dei "pagamenti differiti" (annualità distribuite in un periodo di tempo, più o meno lungo, con le quali lo stato differisce il pagamento di forniture o di opere già eseguite). Con riferimento al dicembre 1975, per le principali componenti del d. p. dello stato (con esclusione delle aziende autonome, degli enti locali, ecc.) si annoveravano le seguenti: d. consolidato, redimibile e fluttuante: 38.520,7 miliardi di lire; mutui con il Consorzio di credito delle opere pubbliche, 12.193,9 miliardi.

Bibl.: M. T. Salvemini, Idee per un bilancio previsionale di cassa, in Bancaria, sett. 1969; S. Steve, Lezioni di scienza delle finanze, Padova 1972; P. Armani, Finanza straordinaria, Torino 1973.

Vedi anche
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