De vulgari eloquentia
Tradizione Manoscritta. - Comprende solo cinque testi (Berlino, Staatsbibliothek, lat. folio 437 [B], ora conservato a Tübingen; Grenoble, Bíbliothèque Civique 580 [G]; Milano, Biblioteca dell'Archivio Storico Civico Trivulziano 1088 [T]; Città del Vaticano, Reginense 1370 [V]; Strasburgo, Bibliothèque Municipale et Universitaire 206 [S]; e un breve frammento del II libro nel codice Vat. lat. 4817). Tradizione, dunque, assai povera; anzi, da giudicare poverissima, se terremo conto del fatto che il testo Vaticano è copia cinquecentesca del Trivulziano, dal quale deriva anche il frammento sopracitato; e che il testo di Strasburgo è invece copia dell'edizione stampata a Venezia da Antonio Zatta nel 1758. Tre, pertanto, i testi fondamentali oggi utilizzabili; e per secoli furono due soli, essendosi molto più tardi scoperto il terzo, il Berlinese.
Il codice conservato a Milano (conosciuto come ‛ Trivulziano ' per aver a lungo appartenuto, e fino al 1937, alla biblioteca gentilizia dei Trivulzio) è un modesto cartaceo, composto di due codicetti insieme rilegati: nel primo, di 14 carte, il trattato dantesco con il titolo di Liber de vulgari eloquio sive idiomate; nel secondo l'Ecerinis di Albertino Mussato, ambedue di mano di un veneto, come rivelano certe particolarità ortografiche. Assai probabile l'origine padovana del manoscritto: inducono a crederlo alcune note di possesso che rivelano i nomi di un Bartolomeo Zambelli e di un Giacomo Clementi, che fu notaro a Padova durante la prima metà del Quattrocento. Di un terzo possessore, Marco di Piacenza, non si è finora trovata alcuna notizia che permetta di riconoscerlo con sicurezza. Nel Cinquecento il codice appartenne al vicentino Giangiorgio Trissino, cui risalgono certe glosse marginali e certi appunti databili intorno al 1514 e al 1524. Il Trissino fece conoscere il codice a Firenze e a Roma, dove suscitò un notevole interesse in Pietro Bembo e in Angelo Colocci. Il primo lo fece copiare nell'attuale codice Vaticano, aggiungendovi di suo pugno frequenti glosse marginali e alcune correzioni, per lo più interlineari; il secondo si limitò a far copiare un breve tratto del II libro (il cap. IX e i primi quattro paragrafi del successivo), e il frammento è incollato sopra una delle ultime pagine del codice Vat lat. 4817, come s'è detto, copiosa miscellanea del Colocci. Morto il Trissino, non sappiamo che cosa sia accaduto del Trivulziano: forse passò alla Congregazione Somasca, cui i Trissino erano particolarmente legati, ma rimase inoperante e sconosciuto per quasi tre secoli. Certo è che a Venezia, nel convento somasco di S. Maria della Salute, lo sequestrarono nel 1797 i commissari francesi per trasferirlo nella pubblica Libreria Nazionale. Ma dopo meno di un anno venne restituito, rimanendo ancora qualche tempo presso i Somaschi; dai quali definitivamente emigrò per entrare, prima del 1817, nella biblioteca del principe Giangiacomo Trivulzio.
Di origine egualmente padovana è da credere il manoscritto conservato a Grenoble; ma di qualche anno posteriore e di aspetto assai diverso: membranaceo, di scrittura elegante, e con fine rilegatura cinquecentesca. S'aggiunga che le sue 26 carte contengono il solo trattato dantesco con il titolo medesimo che ha nel Trivulziano. Sappiamo che dalla biblioteca di una chiesa padovana lo trasse, nel 1570, l'abate Piero Del Bene; da questo passò, per dono, al filologo fiorentino Iacopo Corbinelli, esule in Francia, che l'utilizzò per la prima edizione del trattato dantesco uscito a Parigi nel 1577, lasciando sui margini del codice segni abbondanti dello studio attentissimo da lui dedicato al testo. Al pari che per il Trivulziano, ci restano ignote le vicende del codice nei due secoli successivi; e ignote le circostanze per le quali pervenne, ai primi dell'Ottocento, alla Biblioteca di Grenoble. Che il testo sia disceso dall'antigrafo medesimo donde fu tratto anche il Trivulziano, appare subito evidente anche a un esame sommario; ma il testo del codice di Grenoble venne sottoposto in antico a una revisione con l'aiuto di un codice indipendente [G2], che determinò espunzioni, supplementi, varianti marginali e interlineari, onde risultò migliore assai di quello del Trivulziano.
Se i due testi di origine padovana vennero conosciuti e largamente utilizzati nel Cinquecento, il Berlinese rimase ignoto agli studiosi fino al secolo presente: soltanto nel 1917 Ludwig Bertalot ne svelò infatti l'esistenza nella Staatsbibliothek di Berlino, dove era entrato nel 1878 per acquisto dall'antiquario L. Prager. Delle precedenti vicende del manoscritto nulla sappiamo; e neppure siamo in grado di stabilire con sicurezza dove e quando venne copiato. Nulla ci dice la rilegatura, che è moderna; il commento di Dionigi da Borgo San Sepolcro a Valerio Massimo, contenuto nelle prime 88 carte del codice, riportando agli anni estremi del commentatore, quando dimorò a Napoli fra il 1338 e il 1342, induce a credere che il Berlinese appartenga circa alla metà del secolo, e che non sia lecito risalire al quarto o addirittura al terzo decennio come giudicarono il Bertalot, il Rajna e il Marigo; né, quanto alla data, altro lume per più precisa determinazione ci viene dalla seconda parte del codice (cc. 89-98), contenente la Monarchia (cc. 89-95r) e il De vulg. Eloq. (95r-98v). Il fatto che la Monarchia fosse copiata senza titolo, e che all'explicit il copista aggiungesse scherzosamente " endivinalo sel voy sapere ", significa soltanto la volontà di mantenere anepigrafa e nascosta l'opera politica per il pericolo della persecuzione ecclesiastica iniziatasi nel 1328; e nient'altro aggiunge, se non la conferma di tale volontà, il fatto che più tardi, proprio in testa alla Monarchia, altri abbia scritto Incipit Rectorica Dantis, titolo poi ripetuto alla fine del De vulg. Eloquentia. Più assai potrebbe dirci il riconoscimento di quell'enigmatico domini Bini de Florentia che ambedue le volte si trova di seguito citato (onde il nome di codice Bini dato dal Bertalot al manoscritto), e sempre dopo una parola sì accuratamente erasa da rendere vano ogni tentativo di lettura; ma purtroppo nessuna delle identificazioni proposte con persone di casa Alighieri ha superato il limite di una pura e vana congettura. Il codice, che è un membranaceo di scrittura gotica su due colonne, e di tre mani (i testi danteschi sono della seconda, che già aveva vergato le carte 68-70r e 74-88r) venne ritenuto fiorentino dal Bertalot e tale lo confermarono quanti poi l'hanno studiato. Salvo, però, lo Schneider che lo giudicò di origine bolognese; e in effetti lo palesano come non fiorentino ortografie quali Scicilia, Scicilianum, sicuri riflessi di pronuncia padana. Tutti d'accordo, invece, sulla fondamentale importanza del codice Berlinese per la ricostruzione del testo. Gli altri due manoscritti sono infatti legati da speciali rapporti e rappresentano un comune, prossimo ascendente; ma il Berlinese si palesa per sé stante, e da solo basta a bilanciarli. S'aggiunga che esso, pur non derivando direttamente dall'autografo, e pur avendo certi errori comuni con l'altro ramo della discendenza (a una quindicina salgono, ad esempio, le omissioni comuni all'intera tradizione), può vantarsi di essere molto più corretto degli altri due manoscritti, e più vicino all'archetipo di quanto non fosse l'ascendente degli altri due testi. Tutti d'accordo, dunque, nel ritenere la testimonianza del Berlinese come degna di molta attenzione; non lieve dissenso, invece, intorno alla misura con cui sia conveniente accettare le sue lezioni, gran divario correndo tra la cautela parsimoniosa propugnata dal Rajna e la fiducia larghissima e quasi incondizionata degli studiosi più recenti. Ma la cautela del Rajna era pienamente giustificata dall'aver riconosciuto nel Berlinese alcune false lezioni nate da illegittime correzioni: il che lo indusse a guardare con sospetto l'intero testo, sempre temendo l'insidia di qualche deliberata alterazione. La quale innegabilmente esiste in una decina di casi, e in altrettanti è da reputare possibile o probabile, sì da rendere assai discutibile un cieco affidarsi al testo Berlinese. D'altra parte l'archetipo dell'intera tradizione dovette presentare un testo già alquanto corrotto, essendo piuttosto numerose le mende fino a oggi riconosciute: una quindicina le omissioni comuni a BTG; altrettante le trasformazioni di parole in altre che non danno senso; una decina i guasti grammaticali nati da errori di copia; senza contare un discreto corredo di minori alterazioni. Non per questo è tuttavia da condannare il copista dell'archetipo, se - come tutto lascia credere - dovette fare i conti con un autografo difficile e insidioso, redazione provvisoria, e perciò precaria, di un'opera lasciata in tronco, e rappresentata da un mero scartafaccio irto di correzioni e di aggiunte.
Riassumendo le analisi comparative sulla lezione dei manoscritti, sarà lecito sintetizzare sotto specie figurativa nel seguente stemma lo sviluppo della tradizione manoscritta:
Autografo
Archetipo
B y
T G
V
Dei codici perduti, attende ancora una persuasiva sistemazione nello stemma quello che venne in antico utilizzato per migliorare il testo di G con lezioni corrispondenti a quelle che troviamo in B. Da ciò la tendenza a percepirlo come molto simile a questo ultimo; ma dopo le proteste del Rajna, che esplicitamente dichiarò di non saper assegnargli un posto nello stemma, anche il Marigo abbandonò una sua primitiva opinione e, pur riconoscendone la voce indipendente dalla coppia TG, lo inserì nella loro medesima famiglia, e, giudicatolo non molto più schietto e autorevole degli altri due, lo dichiarò utile soltanto a ricostruire, nei suoi caratteri essenziali, l'ascendente comune.
Per quanto riguarda, infine, il contributo che i vari manoscritti hanno dato alla costituzione del testo critico, gioverà ricordare che per secoli soltanto G, posto dal Corbinelli a fondamento principale dell'editio princeps, fu attivo e operante. Bisognerà attendere la metà dell'Ottocento per vedere anche il Trivulziano e il Vaticano utilizzati da Alessandro Torri, che riuscì a porsi nelle condizioni medesime in cui si trovò poi il Rajna, curatore della magistrale edizione critica del 1896. Ciò fino al 1917, quando il Bertalot poté utilizzare il codice Berlinese. Anche il Rajna fece in tempo a giovarsene, allestendo l'edizione del 1921, e più il Toynbee, rivedendo il testo di Oxford per la ristampa del 1923; ma soltanto il Marigo nel preparare l'edizione nazionale concedette al Berlinese quella larga fiducia che inaugurò le attuali tendenze critiche, quali appaiono nel saggio di edizione pubblicato nel 1962 da Silvio Pellegrini.
Bibl. - Minuziosa la descrizione di GTV nell'edizione critica del De Vulgari Eloquentia curata da P. Rajna nel 1896 (ristampa stereotipa, Milano 1965, XI-XLVIII); per il primo da integrarsi con la riproduzione fototipica curata da Maignien e Prompt, Venezia 1892. Per il Berlinese si ha la descrizione fattane dal Bertalot in " La Bibliofilia " XXIV (1922) 261-267, con il corredo di un'ottima riproduzione fototipica; e per la sola descrizione gioverà ricorrere anche a F. Schneider, Die Monarchia Dantes aus der Berliner Handschrift cod. lat. folio 437, Weimar 1930. Ulteriori precisazioni per la storia dei manoscritti in G. Billanovich, Prime ricerche dantesche, Roma 1947, 13-19; G. Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del De vulg. Eloq., in Atti del Convegno di studi D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 385-393. Per il frammento colocciano cfr. S. Debenedetti, in " Zeit. für Romanische Philologie " XXVIII (1904) 58 ss. Per G2 cfr. G. Bertoni, in " Giorn. stor. " LXXXII (1923) 362-364; A. Marigo, ibid. LXXXV (1925) 337-338; P. Rajna, in " Studi d. " XIV (1930) 74-76. All'edizione del Rajna (CIX-CXLI) Si dovrà ricorrere anche per i rapporti che legano GTV, e per la discendenza dei primi due da un comune antigrafo; per la posizione di B nello stemma della tradizione cfr. P. Rajna, Approcci per una nuova edizione del De vulg. Eloq., in " Studi d. " XIV (1930) 5-12; per l'esatta valutazione del suo testo e per il più conveniente modo di usarlo cfr. anzitutto l'edizione del De vulg. Eloq. curata dal Bertalot (Friedrichsdorf presso Francoforte sul M. 1917, e Ginevra 1920); poi A. Marigo, Il testo critico del De vulg. Eloq., in " Giorn. stor. " LXXXV (1925) 289-338, la risposta del Rajna sopra citata, e la replica del Marigo, Per il testo critico del De vulg. Eloq., in " Giorn. stor. " XCIX (1932) 1-56. Per l'attuale tendenza critica nella costituzione del testo cfr. S. Pellegrini, Saggi di filologia italiana, Bari 1962, 68-88, dove è riprodotto uno studio primamente uscito in " Studi Mediolat. e Volg. " VIII (1960) 155-163; e anche D. Bigongiari, Notes on the Text of D., in Essays on D. and medieval Culture, Firenze 1964, 38-63, dove sono riprodotti studi primamente usciti in " The Romanic Review " XLI (1950) 1-13 e 81-95; e finalmente le osservazioni di P.G. Ricci nell'Appendice alla terza ristampa dell'ed. Marigo, Firenze 1957, 338-350.
Composizione. - I dati utili a circoscrivere cronologicamente sia pure con una certa approssimazione, il periodo della composizione del De vulg. Eloq., si ricavano dall'interno dell'opera stessa e dal Convivio. È anzitutto evidentissimo da molti elementi (a incominciare dal passaggio autobiografico di I VI 3 Nos... quanquam... Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste) che il trattato è posteriore all'esilio; se si vuol essere più precisi, posteriore alla pace di Caltabellotta (20 agosto 1302), dato il ricordo sarcastico (II VI 5) del fallimento della spedizione siciliana di Carlo di Valois. Ma il terminus post quem può esser spostato innanzi tenendo conto che in Cv I V 9, in un contesto dottrinale particolare (l'affermazione della costituzionale mutevolezza delle lingue volgari), D. annuncia: Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza (e infatti in VE I IX 7 si riprende puntualmente il tema qui toccato dell'assoluta incomprensione tra i moderni abitanti e gli antichi, se per paradosso tornassero in vita, di una stessa città). Benché sia astrattamente possibile che nel passo del Convivio D. dia " come intenzione ciò che, intrapreso di già, è tuttora lontano dal compimento " (Rajna), in realtà non si vede perché interpretare altrimenti che alla lettera quelle parole, da intendersi dunque come annuncio di un'opera in pectore, al massimo incipiente. Anzi, è da riflettere al fatto che subito nel capitolo iniziale il trattato latino entra in contraddizione con le tesi elaborate nel primo libro del Convivio, e su un punto così importante come la concezione del valore rispettivo del latino e del volgare (" È certo... che il rapporto volgare-latino come è prospettato nel De vulg. Eloq. non è ancora nato se, subito prima dell'annuncio, si elencano tutte le qualità che rendono obiettivamente superiore il secondo ", Vinay; e v. GRAMATICA). E quanto al Convivio, è probabilissimo che tra l'esilio e l'inizio della sua stesura corra un certo lasso di tempo, specie se si vuol dare (com'è legittimo) un credito positivo alle parole, certo non prive di amplificazione retorica, di I III 4 per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato (v. per questo, e in genere per la cronologia dell'opera, l'introduzione del Barbi all'ediz. Busnelli-Vandelli). Dunque la composizione del De vulg. Eloq. non sarà iniziata prima del 1303 al massimo. Ancora più puntuale è il terminus ante che risulta da VE I XII 5, dove si nomina come vivo, per attaccarlo vigorosamente assieme ad altri magnates, il marchese Giovanni I di Monferrato, morto nel febbraio 1305. A guardar bene tuttavia tale termine potrebbe esser considerato valido per tutta l'opera solo nel caso che questa fosse stata finita, rivista e divulgata: poiché così non è, non si può escludere che la stesura si sia protratta anche oltre quella data, senza che ovviamente D. sentisse il bisogno di eliminare la relativa aporia, e si deve affermare che, a rigore, il febbraio 1305 è termine ante quem per la sola sezione iniziale I I-XII 5. Resta comunque verosimile che la parte successiva, se non rientra anch'essa entro questo limite, gli sia di poco posteriore: e dunque la datazione tradizionale (1303 o 1304 - inizio 1305) rimane largamente indicativa. In ogni caso andranno sicuramente respinti, come capziosi, gli argomenti del Santangelo, basati principalmente sulle modalità di citazione dei poeti provenzali da parte di D., per abbassare notevolmente la datazione dei capitoli VII-XIV del secondo libro rispetto al resto (è invece consenziente, ancora, B. Panvini, in " Siculorum Gymnasium " n.s., XIX [1966] 116). Ancora meno accettabile la proposta di L. Pietrobono (in " Giorn. d. " XLII [1941], poi in Nuovi Saggi danteschi, Torino 1954, 30-32) di portare a dopo il 1307-1308 la stesura dell'intero trattato.
Nessuna indicazione d'ordine cronologico può venire dall'ipotesi, in sé perfettamente ragionevole (v. oltre), che l'interruzione dell'opera dipenda anche o soprattutto, come e più di quanto si ammette generalmente per l'analogo problema dell'interruzione del Convivio, dal polarizzarsi degl'interessi di D. in direzione della Commedia. Poiché, se anche si riuscisse a determinare con qualche sicurezza quando è iniziata la composizione del poema, e in genere a stringere più da vicino i tempi della stesura dell'Inferno, non potremmo naturalmente sapere mai in quale momento l'attenzione di D. si sia volta alla Commedia in modo così esclusivo da comportare l'abbandono di altre imprese in corso, né quando precisamente l'autore abbia presa coscienza della radicale contraddizione tra la poetica immanente nella nuova opera e quella teorizzata nel trattato retorico.
A parte la cronologia esterna, le modalità interne della stesura del De vulg. Eloq., anche in rapporto alla sua interruzione, sono state oggetto di varie ipotesi, generalmente fragili o comunque non ben fondabili. Quanto alla decisione di non proseguire (una volta scontato, com'è ormai pacifico, che lo stato d'incompiutezza in cui l'opera ci è rimasta non può dipendere da un accidente della trasmissione manoscritta), è evidente che si è trattato di risoluzione brusca e improvvisa, come attesta il fatto che, a differenza del Convivio, la trattazione è stata lasciata in tronco non solo prima della conclusione di un libro ma nel bel mezzo di un capitolo. Però non è sostenibile che tale risoluzione si riveli già, come vorrebbe U. Leo (The unfinished ‛ Convivio ' and Dante's Rervading of the Eneid, in " Mediaeval Studies " XIII [1951] 63), dalla supposta contraddizione interna al penultimo capitolo (II XIII), tra il proposito espresso in apertura di non trattare nichil de rithimo secundum se modo e la successiva decisione §§ 11 ss.) di fornire intanto alcuni avvertimenti-base in materia (videtur ut quae cavenda sunt circa rithimos, huic appendamus capitulo), ché anzi ciò che subito segue continua a presupporre ulteriori sviluppi: cum in isto libro [si noti] nichil ulterius de rithimorum doctrina tangere intendamus. D'altra parte non offre appigli oggettivi l'affermazione del Marigo (nel quadro di una sua interpretazione dei modi di stesura dell'opera di cui si dirà fra breve) che " verso la fine dell'opera s'avverte certa stanchezza espositiva, che preannunzia l'interruzione ". Così è senz'altro da scartare la vecchia ipotesi (Boehmer, D'Ovidio) che le parole con cui si apre il secondo libro, Sollicitantes iterum celeritatem ingenii nostri et ad calamum frugi operis redeuntes, indichino ripresa di un lavoro interrotto, laddove si tratta evidentemente di una formula generica per annunciare un nuovo libro e nuovi temi. Non sono mancati infine spunti e osservazioni degli studiosi, e con particolare sistematicità del Marigo, intorno a eventuali caratteri di frettolosità e provvisorietà nella stesura del trattato, in rapporto alla sua natura di opus imperfectum e dunque non rivisto, o rivisto solo parzialmente, dall'autore. Basandosi su vari indizi largamente aleatori, e in particolare sulla concisione ed ellitticità (a volte al limite dell'oscurità) di certe parti o passaggi, il Marigo ha insistito sulla " estemporaneità ", sul " carattere disuguale della composizione ", giungendo ad affermare che " ci troviamo dinanzi a una stesura provvisoria, che Dante ha fatto solo per sé, allo scopo di fissare il processo teoretico del pensiero ", ecc. Ma è evidente che la doverosa ipotesi di una mancata o solo incipiente revisione va tenuta in linea di massima distinta da quella di una stesura affrettata e provvisoria, quasi a uso di quaderno privato d'appunti. E per quanto riguarda la rapidità ed ellitticità della trattazione, che lo stesso D. qua e là sottolinea e che concerne comunque alcune parti e non altre, essa va anzitutto messa in rapporto con la strategia strutturale dell'opera, che contempla necessariamente un alternarsi di premesse sintetiche d'ordine generale e di svolgimenti analitici più diffusi e specifici (si pensi che in fondo l'intero primo libro, o almeno la prima metà, ha carattere in certo modo ‛ introduttivo '); in ogni caso è chiaro che quei caratteri di concisione e rapidità argomentativa significherebbero qualcosa a favore della tesi di una stesura affrettata e provvisoria solo se si potesse mostrare che vanno di pari passo con una scrittura approssimativa e corsiva, con un'insufficiente elaborazione stilistica. Ma, in linea generale, è vero precisamente il contrario, come può mostrare agevolmente qualsiasi analisi formale del testo (ad es. per quanto riguarda l'uso del cursus: v.). Naturalmente c'è pure la " disformità stilistica " da zona a zona su cui insiste il Marigo, ma è constatazione che può applicarsi a qualsiasi opera del genere, a incominciare dagli altri trattati di D., e che ancora una volta va commisurata alla struttura del testo, e in particolare alla necessaria presenza di parti e capitoli dall'andamento didattico-precettistico più pacato e analitico, che ovviamente comportano un abbassamento del livello stilistico rispetto ad altre parti. Che poi l'opera possa presentare antinomie interne e un complessivo carattere in fieri, non sorprende trattandosi di D., e per di più di un testo appunto non ‛ pubblicato ': ma è altra questione. Consistenza un po' maggiore ha l'ipotesi di una redazione corsiva e provvisoria se ristretta, come fa inizialmente il Marigo, alla sezione finale del secondo libro (capitoli V-XIV). È in questa zona, tra l'altro, che la tradizione manoscritta attesta l'esistenza di giunte marginali nell'autografo, e più in , genere un infittirsi degli errori che al limite potrebbe esser messo in relazione con uno stato più confuso e fluido, per questa parte, dell'esemplare di mano di D. (v. da ultimo per questi due aspetti i cenni contenuti nell'ediz. Mengaldo, pp. CVII-CIX).
Poco si può dire di preciso intorno al luogo o ai luoghi in cui D. avrebbe scritto il De vulg. Eloq.: questo sia per l'impossibilità di una datazione veramente puntuale dell'opera (v. sopra), sia e soprattutto perché sostanzialmente ignoriamo dove abbia vissuto D. nel periodo che sta tra il soggiorno a Forlì e a Verona e quello presso i Malaspina, cioè giusto negli anni 1304-1306. In genere si localizza l'opera a Verona o a Bologna o in entrambe le città. Verona resta un'indicazione obiettivamente possibile, almeno per l'inizio dei lavori: si tenga conto che il soggiorno nella città presso Bartolomeo della Scala è stato fissato con buoni argomenti (da G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel Veneto, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 13 ss.) tra il maggio-giugno 1303 e il marzo 1304. Non altrettanto si può dire per Bologna. È vero che molti studiosi (e in particolare del De vulg. Eloq.) danno per scontata la presenza di D. in questa città nel periodo appunto tra il 1304 e il 1306 (e c'è chi ha fissato la fine del soggiorno al marzo 1306, data del patto dei Bolognesi coi guelfi toscani), ma si tratta di una convinzione non basata su prove bensì solo su indizi, in primo luogo le indicazioni di alcuni biografi antichi, tutt'altro che decisive e univoche. Ci sarebbero poi varie spie ricavabili dall'opera stessa, e su cui si è insistito spesso: l'alta considerazione per la scuola poetica bolognese (ben oltre quella ovvia per il grande Guinizelli), la proclamazione del dialetto bolognese a pulcrior loquela tra tutte le parlate ‛ municipali ' d'Italia, soprattutto la percezione della differenza tra il bolognese del centro (Strada Maggiore) e della periferia (Borgo S. Felice): cfr. VE I IX 4, XV 2-6, II XII 6. Ma non sembrano indizi veramente probanti. Si tenga conto anzitutto che è quasi certo un soggiorno giovanile (1286-87?) di D. a Bologna, e inoltre che la città emiliana sarà pur stata per lui, come per altri esiliati fiorentini, un luogo obbligato di passaggio e di sosta nei primi anni dopo la cacciata da Firenze. In particolare, il primo dato suaccennato va inquadrato nell'ambito dell'ammirazione e del debito verso gli aspetti più grandi ed egemonici della cultura bolognese, e anzitutto nei confronti della tradizione locale di ars dictandi, che non hanno ovviamente bisogno di esser spiegati con un soggiorno continuato in loco nel periodo che c' interessa (e v. i giusti cenni di M. Marti, Con D. fra i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 19). Quanto ai due argomenti linguistici, paiono legittime e preferibili spiegazioni d'altro tipo (v. BOLOGNA). E in genere, non si può non guardare con sospetto a ogni tentativo di ricavare ipotesi di conoscenze dirette di determinati luoghi dalle indicazioni, per quanto puntuali possano essere, che D. offre sui rispettivi dialetti. Basti pensare al fatto che, mentre è sicuro un soggiorno non breve dello scrittore a Verona, e in epoca subito precedente o addirittura contemporanea alla stesura del De vulg. Eloq., la caratterizzazione del dialetto veronese (I XIV 5: e v. VERONA) è singolarmente vaga e tirata via. (A maggior ragione non va preso in considerazione il suggerimento, avanzato dallo Zingarelli, di una presenza dantesca a Pavia, in base all'accenno ai Papienses di I IX 7).
Titolo. - D. non indica esplicitamente nel corso dell'opera, a differenza di quanto fa altrove (cfr. Cv I I 16 la presente opera, la quale è Convivio nominata), il titolo che intende assegnarle. E certamente l'autografo, e l'archetipo, erano anepigrafi; i titoli recati dai due rami della tradizione manoscritta (v. sopra: TRADIZIONE MANOSCRITTA) sono entrambi apocrifi e insoddisfacenti. L'uno, Liber de vulgari eloquio sive ydiomate, tradisce nettamente il pensiero del trattato, che verte sull'eloquentia e solo subordinatamente su problemi di ydioma (mentre eloquium ha sempre in D. altro senso, di " parola scritturale, divina ", e comunque non ricorre mai nel De vulg. Eloq.); il secondo, Rectorica, è certo più conforme al senso dell'opera, ma, oltre a trovarsi in condizioni sospette (aggiunto da una o due mani diverse da quella del copista), si mostra da una parte troppo generico (manca la specificazione vulgaris), dall'altra evidentemente ricalcato sui titoli correnti per opere latine del genere (Rhetorica nova era comunemente chiamata la Rhetorica ad Herennium, c'era la Rhetorica novissima di Boncompagno, e dello stesso la Rhetorica antiqua, detta altrimenti Boncompagnus; cfr. inoltre la Rettorica di Brunetto Latini, ecc.). Il titolo tradizionale, che rimane il più soddisfacente, si ricava dal luogo cit. di Cv I V e da due indicazioni indirette del De vulg. Eloq., I I 1 (Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentiae doctrina quicquam inveniamus tractasse...) e similmente I XIX 3 (intentio nostra... est doctrinam de vulgari eloquentia tradere), oltre a essere offerto esplicitamente da due testimonianze precoci (da cui dipendono le successive menzioni del titolo vulgato: dal Pucci al Trissino: v. oltre), quella del Villani (Cron. IX 136) e quella del Boccaccio (Trattatello in laude di D., ediz. Ricci, 640-641). Entrambi usano la formula, che certamente risente di quella del Convivio (col suo libello), " libretto... De vulgari eloquentia "; ma a parte altre considerazioni si dovrà tener conto che il Boccaccio (v. più avanti) aveva una sicura conoscenza diretta del trattato. Col che sembra intanto da escludere la vecchia proposta Vulgaris Eloquentia di K. Witte (v. ad es. Le opere latine di D., in " La nuova rivista internazionale " I [1879] 405-414, 503-511). Ma lascia perplessi, non solo per questa ragione, anche l'ipotesi del Marigo (seguito poi da altri studiosi), che ricaverebbe dai due passi succitati dell'opera un titolo Doctrina de vulgari eloquentia (ma allora sarebbe forse meglio D. vulgaris eloquentiae), con l'appoggio di analoghe intitolazioni correnti (cfr. in particolare la Doctrina de compondre dictatz): in realtà, se si guarda al contesto in cui è usato doctrina nei due brani, e specialmente nel secondo (da confrontare puntualmente con Cv I II 15 movemi desiderio di dottrina dare..., e cfr. anche ad es. il " dare insegnamento " della Rettorica di Brunetto, ediz. Maggini-Segre, 6), si vede bene che il valore del termine è quello generico consueto che appare anche in II IV 3 e XIII 11.
Contenuto. - Un po' come per il Convivio, anche per il De vulg. Eloq. è possibile ricavare da accenni dell'autore stesso, o congetturare ragionevolmente, alcune delle intenzioni originarie di D. intorno alla struttura e all'estensione che avrebbe dovuto assumere l'opera, poi rimasta incompiuta. L'indicazione più precisa, ripetuta tre volte (II IV 1 e 6, VIII 8), riguarda il progetto di dedicare il quarto libro del trattato al problema dello stile comico e del relativo volgare mediocre o umile. Cosa avrebbe dovuto contenere il terzo, D. non lo dice. Certamente però doveva vertere ancora sul volgare illustre, stando che il quarto sarebbe passato appunto al volgare mediocre e umile e che D., nell'esporre compendiosamente alla fine del primo libro (XIX 3-4) gli argomenti che avrebbe trattato in seguito, dichiara l'intenzione d'iniziare ab excellentissimo [vulgari] soffermandosi sui problemi che lo riguardano in inmediatis libris. Generalmente poi si ammette l'ipotesi, accennata dal D'Ovidio (in " Rivista Bolognese di Scienze e Lettere " s. 2, III 1 [1869] 390) e ripresa dal Rajna, che il terzo libro sarebbe stato dedicato (impossibile dire se tutto o parzialmente) al tema della prosa illustre. Comunque resta la precisa dichiarazione di D. (II I 1) che il volgare più alto riguarda non solo la poesia, ma anche la prosa italiana: confitemur latium vulgare illustre tam prosayce quam metrice decere proferri (dichiarazione in cui C. Grayson, D. e la prosa volgare, in " Il Verri " 9 [agosto 1963] 7, ha visto l'intenzione di correggere esplicitamente un'eventuale impressione dei lettori di fronte ai capitoli finali del primo libro, che cioè il volgare illustre fosse inteso come di pertinenza della sola poesia più elevata); e a essa segue l'implicita promessa di trattare anche delle applicazioni prosastiche del volgare illustre: poiché - ragiona D. - la poesia ha un certo primato sulla prosa in quanto sono i prosatori a guardare come modello al volgare illustre elaborato dai poeti, e non viceversa, primo secundum quod metricum est ipsum [scil. vulgare illustre] carminemus, ordine pretractantes illo quem in fine primi libri polluximus. Di fatto, anche in ciò che ci rimane dell'opera, sono evidenti le tracce di un'impostazione dottrinale che, sulla scia della recente tradizione retorica, sia latina che volgare, considera complementari i problemi stilistici della poesia e della prosa e tende a fornire precetti validi su entrambi i versanti: cfr. II VI 4 e 7, dove dapprima D. elabora esempi in prosa latina dei vari gradi di costruzione (v. CONSTRUCTIO), affiancando quindi a quello del grado eccellentissimo la citazione delle auctoritates poetiche volgari, e poi suggerisce come forse (fortassis) utilissima, per acquistare il possesso della suprema constructio, la lettura dei latini qui usi sunt altissimas prosas, non meno dei classici della poesia regulata. Il senso di questa attenzione ai problemi stilistici della prosa è del resto ben comprensibile, anche al di fuori dei legami dottrinali con la tradizione retorica antica e recente, quando si pensi che parallelamente all'elaborazione teorica del De vulg. Eloq. D. era precisamente impegnato, col Convivio, nella pratica edificazione di un modello di prosa italiana elevata.
È infine da ricordare che nella già menzionata esposizione dei futuri argomenti da trattare (I XIX 3-4), D. schizza in realtà un ambizioso progetto enciclopedico, avvertendo che dopo l'esame del volgare eccellentissimo e quindi degli inferiora vulgaria scenderà gradatim fino a quello quod unius solius familiae proprium est; dove l'ultima indicazione va naturalmente intesa alla lettera (" il volgare che è proprio di una sola famiglia "), e non nella maniera del tutto forzata e improbabile che suggerisce il Marigo: " sarà il volgare municipale (quando assurga a qualche valore letterario), poiché l'immagine della famiglia pare ripresa dal passo... in cui il volgare illustre è dettò pater familias dell'universus municipalium grex [I XVIII 1] ". È naturalmente impossibile dire quale consistenza reale avesse questo piano onnicomprensivo nella mente di D., ed è probabile che esso sia soprattutto un omaggio momentaneo a un ideale astratto, tipicamente medievale, di sistematicità; resta anche vero che di questo piano vengono ribaditi in seguito da D. solo punti che riguardano l'uso letterario della lingua. Tuttavia esso rivela pure che l'interesse preminente e più impellente verso il problema della lingua letteraria s'inquadrava per D. in una visione organica dei fatti linguistici, quella stessa che promuove l'ampia introduzione generale e ‛ storica ' dei capitoli II-IX del primo libro, e che in tale visione prendeva posto, come del resto sappiamo pure dal primo libro, una viva attenzione agli aspetti usuali del linguaggio.
D'altra parte le linee di progetto dell'opera che possiamo concretamente ricostruire sono quelle che sono e da esse risultano rapporti di estensione e di ‛ forza ' alquanto diversi da quelli che abbiamo sotto gli occhi nel testo incompiuto, fra la parte più propriamente ‛ linguistica ' (cioè il primo libro) e la trattazione dei problemi di lingua e di stile letterari che incomincia col secondo libro e avrebbe dovuto avere così ampio sviluppo. Di ciò va tenuto attentamente conto: non per insistere unilateralmente come si tende talvolta a fare (e come aveva già fatto in forma estrema e perciò tipica il Manzoni: v. più avanti) sulla natura esclusivamente ‛ stilistica ' della dottrina del trattato; ma per cogliere il carattere in sostanza introduttivo e preliminare della trattazione più propriamente linguistica ' del primo libro, sulla quale invece ha fatto troppo spesso perno in passato la valutazione dell'opera (tipicamente nel Cinquecento, ma anche prima: si pensi al titolo contenuto nei codici G e T o al riassunto del Villani (IX 136): " promette fare quattro libri, ma non se ne truova se non due... ove con forte e adorno latino e belle ragioni ripruova tutti i volgari d'Italia ").
Così com'è stato lasciato, incompiuto, da D., il De vulg. Eloq. comprende: un primo libro di diciannove capitoli, di contenuti più generali e con funzione, nel senso che si è detto, introduttiva; e un secondo libro, interrotto nel corso del capitolo quattordicesimo, che verte più analiticamente sulla dottrina specifica del volgare illustre e dello stile eccellentissimo in quanto applicati alla lirica elevata.
Nel primo libro si lasciano distinguere, dopo il capitolo iniziale che sta in parte a sé, due blocchi fondamentali di estensione quasi uguale (capitoli II-IX e XI-XIX) con un capitolo intermedio, il decimo, che funge per così dire da ponte. Il cap. I ha, come di norma (v. il Convivio e la Monarchia), carattere proemiale, all'intera opera e più particolarmente al primo libro, con l'annuncio della materia dottrinale, e della sua novità e scopo, e l'individuazione del fondamento, subiectum, della dottrina, la lingua volgare naturale (intesa in senso generale), accanto alla quale si rileva che alcune comunità possiedono una lingua secondaria e artificiale (gramatica). Questo " nobile " subiectum è definito nei successivi capp. II-III nel suo carattere di facoltà esclusivamente umana (né gli angeli o demoni né gli animali hanno linguaggio in senso proprio, mentre è sottinteso, e poi spiegato nel cap. IV, che non l'abbia neppure Dio), e nella sua natura, in quanto appunto fatto umano, insieme razionale e sensibile. Si pone quindi la questione di quale essere umano abbia parlato per primo, e la risposta è: Adamo (IV-V); la lingua adamitica è stata concreata da Dio col primo uomo e parlata da tutti i suoi posteri fino alla confusione babelica, rimanendo poi appannaggio dei soli discendenti di Heber, gli Ebrei: lingua di Adamo ed ebraico dunque coincidono (cap. VI). Col peccato di superbia della costruzione della torre cessa, per punizione divina, l'unità linguistica del genere umano e nasce la diaspora delle lingue in rapporto ai raggruppamenti e alle migrazioni delle gentes; in Europa, da un unico idioma ricevuto in vindice confusione si originano tre lingue, a loro volta poi differenziate in vari volgari, cioè a nord il gruppo ‛ germanico ' (dagli Sclavones via via agli Anglici), a sud-est, e in parte dell'Asia, la lingua dei Graeci, e nel resto un terzo idioma, ora tripartito nelle lingue d'oc, d'oil e di sì, che mostrano chiaramente, con la loro stretta unità lessicale, l'origine comune (capp. VII-VIII). Il cap. IX conclude questa prima parte, inquadrando la constatazione del complesso differenziarsi delle lingue (l'ydioma tripharium che si scinde in tre varietà, e ognuna di queste, come l'italiano, in una serie di sottovarietà che possono perfino distinguere zone di una stessa città) nella teoria della costituzionale mutevolezza nel tempo e nello spazio del linguaggio, di ogni linguaggio post-babelico, in quanto prodotto dell'uomo, instabilissimum atque variabilissimum animal; e saldando quindi il discorso lasciato aperto nel capitolo proemiale con la spiegazione della genesi e funzione della gramatica: lingua convenzionale, regolata de comuni consensu multarum gentium, quindi inalterabile, nata appunto per ovviare all'incomprensione, fra antichi e moderni e fra popoli diversi, che deriverebbe dall'esistenza delle sole lingue naturali, infinitamente frammentate e mutevoli. Nel cap. X, dopo un confronto fra le tre lingue (o meglio le lingue letterarie o senz'altro le letterature) dell'ydioma tripharium, che assegna in sostanza la palma all'italiano, la trattazione si viene restringendo al vulgare latium, e viene abbozzato un quadro delle varietà e sottovarietà dialettali dell'Italia (a considerarle tutte, non meno di un migliaio), come premessa al loro successivo esame di merito in funzione della ricerca di quale sia la decentior atque illustris Ytaliae loquela. Questa ricerca, che occupa il resto del libro, si compone di due sezioni, diverse per contenuto e metodo. La prima (capp. XI-XV) è in sostanza la pars destruens: attraverso una rassegna empirica dei dialetti italiani, che pur ne gradua i pregi, D. perviene a negare che qualcuno di essi possa aspirare al titolo di volgare illustre: anche i migliori restano pur sempre di portata municipale, e i maggiori poeti italiani, i doctores illustres, hanno regolarmente usato una lingua che si distacca senz'altro dalle rispettive parlate locali. La seconda (capp. XVI-XIX) rappresenta la pars construens: dove la dimostrazione dell'esistenza di un ottimo volgare unitario degl'Italiani, definito coi ragionati epiteti di illustre, cardinale, aulico, curiale, rimonta sì alla constatazione che i doctores illustres qui lingua vulgari poetati sunt in Ytalia, a qualsiasi regione appartenessero, hanno concordemente usato quell'eccellente volgare sovra-municipale e unitario; ma, anche e soprattutto, è ricavata da una serie di ragionamenti deduttivi astratti sul carattere di necessità concettuale ed etico-politica di tale nozione di lingua italiana comune, che ‛ deve ' esistere se esistono un'Italia e degl'Italiani con le relative strutture giuridiche e politiche, sia pure potenziali. I due paragrafi finali del cap. XIX annunciano infine (v. sopra) la materia dei libri successivi, ribadendo, con circolare ripresa della dichiarazione proemiale, la intentio di doctrinam de vulgari eloquentia tradere.
Il contenuto di ciò che resta del secondo libro è naturalmente più compatto e lineare, e segue passo passo il disegno esposto alla fine del libro precedente, di trattare inizialmente del volgare eccellentissimo, secondo il seguente schema retorico-scolastico: quos putamus ipso dignos uti, et propter quid, et quo modo, nec non ubi, et quando, et ad quos ipsum dirigendum sit. Limitatamente alla poesia (v. II I 1, discusso più sopra), D. è arrivato a svolgere, e non completamente, gli argomenti attinenti alle tre prime modalità proposte. Nel cap. I si afferma che degni di usare il volgare illustre non sono già tutti i versificatori, secondo una falsa accezione del concetto di ornamento stilistico della materia, ma solo gli excellentissime poetantes, capaci di esprimere, in virtù di ‛ scientia ' e ‛ ingenium ' ‛ optimae conceptiones ', alle quali soltanto si addice l'optima loquela; nel cap. II si precisa quali argomenti siano degni del volgare illustre: solo i sommi (i magnalia), salus, venus e virtus, che rispondono all'essenza della triplice natura dell'uomo, " vegetale ", " animale " e " razionale " e dei relativi bisogni fondamentali, la ricerca dell'utile, del delectabile e dell'honestum. I successivi capitoli rispondono alla domanda: quo modo ?, Tra le varie forme metriche, quella in cui si devono trattare gli argomenti degni del volgare altissimo è la canzone (cap. III); tra i vari livelli di stile solo quello superiore, " tragico ", che comporta sia gravitas sententiae sia superbia carminum (versi), constructionis elatio ed excellentia vocabulorum, è adatto alla canzone in volgare illustre (cap. IV). I capp. V, VI e VII chiariscono appunto le componenti formali dello stile tragico, rispettivamente quanto ai versi da usare (superbius fra tutti l'endecasillabo), al grado di costruzione, alla qualità dei vocaboli. Il rimanente è dedicato alla specifica costituzione metrica della canzone: una volta definito più precisamente il concetto di cantio, in rapporto alla sua cellula costitutiva, la stantia (capp. VIII-IX), D. passa ad analizzare i vari aspetti della struttura della stanza (anche in rapporto ai tipi di versi impiegati e, più marginalmente, alla rima) secondo l'ordine delle componenti fondamentali dell'arte della canzone indicate in IX 4: divisione melodica, rapporto fra le varie parti (fronte, sirima, ecc.), numero dei versi e delle sillabe. L'opera è interrotta (XIV 2) all'inizio della trattazione dell'ultimo di questi punti, e precisamente nel corso dell'esposizione di una tesi, dall'apparenza alquanto astratta, sul rapporto tra maggiore o minore lunghezza della stanza e contenuto e tono della lirica (laudativo o invece di vituperio e simili). Si può anche congetturare col Marigo che a D., dopo esposta la dottrina relativa al numerus carminum et sillabarum, " restava da dire ancora qualche cosa, oltre del commiato, del numero di stanze concesso alla canzone ".
Fortuna. - E notevole, e culturalmente significativo, che nel corso del Trecento e soprattutto del Quattrocento il De vulg. Eloq. abbia avuto diffusione e fortuna complessivamente così scarse, anche rispetto a quelle degli altri due maggiori trattati danteschi. Parla subito chiaramente in questo senso la tradizione dell'opera, che si restringe per questo periodo a tre codici in tutto (trecenteschi), e nessuna edizione. Intanto è da considerare che l'opera, lasciata in tronco e dunque messa tra parentesi se non proprio ‛ rinnegata ' da D., sarà rimasta fra le sue carte fino alla morte, senza essere divulgata. L'unica indicazione di una sua conoscenza in epoca anteriore alla scomparsa di D. è quella che riguarda il Carmen di Giovanni del Virgilio, che potrebbe riecheggiarla qua e là (cfr. l'uso di astripetus, prezioso composto non attestato anteriormente a VE II IV 11, al v. 5, nonché il v. 50 che potrebbe pure aver un rapporto con lo stesso luogo dantesco; e specialmente i vv. 15-16 " clerus vulgaria tempnit, / et si non varient, cum sint ydiomata mille ", da raffrontare con l'affermazione dell'esistenza di mille e forse più volgari italiani in VE I X 9, e forse anche con la dottrina svolta nel trattato dell'intrinseca mutevolezza dei volgari di fronte alla stabilità del latino): spie notevoli, anche se certo non decisive, che comunque non sono annullate dal fatto che il Del Virgilio non mostri la minima conoscenza del De vulg. Eloq. nella sua Ars dictaminis, la quale, come non databile, potrebbe ben essere anteriore all'opera di Dante. Quanto alla modestia della stessa diffusione postuma, non basterà tenere ancora conto dell'incompiutezza del trattato, e conseguente labilità del suo significato per i lettori, ma bisognerà soprattutto pensare al nuovo clima culturale preumanistico e poi umanistico che si afferma vittoriosamente, a partire già dagli ultimi anni della vita di D., e inizialmente proprio in quella zona d'Italia tra Bologna e il Veneto in cui per evidenti motivi l'opera dantesca si sarebbe potuta diffondere con maggior facilità (come, ma solo in parte, è infatti avvenuto): poiché quella nuova cultura si muove tra coordinate ideologiche, letterarie e precisamente retoriche del tutto diverse, per non dire antitetiche, rispetto a quelle in cui è inquadrata la Rectorica dantesca.
Così ignorano il precedente di D. i primi autori trecenteschi impegnati in una dottrina retorico-metrica del volgare, Francesco da Barberino nelle glosse ai Documenti d'Amore (ove è pure, tra l'altro, la prima registrazione della pubblica comparsa dell'Inferno - e anche del Purgatorio?), e Antonio da Tempo, che nella sua Summa (1332) non solo afferma la propria iniziativa prioritaria in un simile tema ma effettivamente non rivela alcuna traccia di una lettura del De vulg. Eloq. (ed è stato osservato che dedicando la sua opera a uno Scaligero, e quando già a Verona dimorava Pietro Alighieri, non avrebbe certo potuto fingere di non conoscere il trattato dantesco). Ancora, allo stato attuale delle ricerche, non paiono reperibili indizi di una conoscenza del De vulg. Eloq. né in Petrarca né soprattutto nei commentatori trecenteschi della Commedia, con l'eccezione ben spiegabile di Pietro di D. (cfr. F. Mazzoni, in " Studi d. " XL [1963] 279-360, passim: e non si potrà pensare, in via di pura ipotesi, che egli abbia avuto un ruolo preponderante nella divulgazione dell'operetta paterna?). È a Firenze e in Italia settentrionale - in particolare in Veneto - che il trattato retorico di D. ha una certa, sia pur limitata circolazione (ben più significativi sarebbero, se fosse veramente possibile provarli, gl'influssi del De vulgari Eloquentia sulle provenzali Leys d'Amors indicati dal Favati: v. bibl.). Oltre al dominus Binus de Florentia (se va inteso come possessore) indicato nell'incipit ed explicit del cod. B (v. p. 399: Tradizione Manoscritta), c'è la citata menzione di Giovanni Villani, ripetuta dal Pucci (Centiloquio LV 243-248), che non significa però necessariamente conoscenza precisa e di prima mano; c'è soprattutto la serie di echi e testimonianze del Boccaccio. A parte la questione della lettera di Ilaro (il cui " vulgare... masicum ", r. 24 dell'ediz. Billanovich, è comunque eco solo possibile di VE II IV 2), si allineano nel tempo: l'allusione a VE II II 10 (Arma vero nullum latium adhuc invenio poetasse) nella dichiarazione del Teseida XII LXXXIV 6-8 di essere il primo a " cantare / di Marte... gli affanni... / nel volgar lazio più mai non veduti " (e v., passim, l'espressione vulgare latium); il calco dell'endecasillabo veneziano di VE I XIV 4 nel Decameron IV 2 43; la succitata menzione dell'opera nel Trattatello, con l'esatta qualifica del suo contenuto (" dove intendea di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima "); infine il probabile, o possibile, ricamo polemico sulla definizione dantesca di poesis in Geneal. XIV VII, e forse qualcos'altro ancora. Sempre fra la metà e la fine del sec. XIV il trattato appare tangibilmente in circolazione nel Norditalia: settentrionale (ma non necessariamente bolognese) è il copista del cod. B, che appartiene alla metà circa del secolo (terminus post quem il '42) ed è interessante anche per l'accoppiamento del De vulg. Eloq. e della Monarchia; con ogni probabilità padovani, e a Padova rimasti anche in seguito, sono i codd. gemelli G e T, della fine del secolo o al massimo degl'inizi del seguente - ma il manoscritto da cui discendono non potrà essere arrivato a Padova prima del 1332, per i motivi connessi ad Antonio da Tempo di cui sopra. (È solo una congettura che risenta di VE I XIII 1 la menzione di " Mino Mocato... sanese " della Leandreide IV VII, ediz. Del Balzo, 414; non significa nulla in contrario il fatto che nella stessa opera [IV III 402] si citino di D. solo Commedia e Monarchia).
Nel Quattrocento umanistico il De vulg. Eloq. pare dimenticato: non conosciamo nessun testimone manoscritto, e meno che meno a stampa, di questo periodo; le scarse citazioni del trattatello retorico in elenchi di opere di D. sono rapidissime e con ogni verosimiglianza indirette (Bruni, Landino); la presenza sicura almeno del cod. Trivulziano a Padova (padovano è uno dei possessori, il notaio Giacomo Clementi, morto nel 1450) non sembra destare echi nella cultura della città e del Veneto; Gian Mario Filelfo cita l'opera, ma inventandone di sana pianta, come d'altronde per la Monarchia, un suo inizio. (C. Dionisotti [in Atti del Congresso Internazionale di Studi danteschi, I, Firenze 1965, 371] ha fatto conoscere un interessante elogio della lingua bolognese inserito dal Nidobeato nella sua edizione [1478] della Commedia con un aggiornamento del commento del Lana: ma sarebbe azzardato ipotizzarne la dipendenza dalla valutazione di VE I XV).
Nel Cinquecento avviene un vero e proprio rilancio del De vulg. Eloq., non solo nel senso che riappare diffuso e studiato, ma soprattutto perché diviene pezza d'appoggio o idolo polemico diretto nelle discussioni sulla questione della lingua. L'iniziativa del rilancio, e il ruolo culturale attivo che acquista il trattato, spettano in sostanza al Trissino che, entrato in possesso (probabilmente a Padova) del cod. T, diffonde la conoscenza e una certa interpretazione dell'opera dantesca a Firenze nel 1513, nella cerchia degli Orti Oricellari, poi a Roma, nel secondo e terzo decennio del secolo, e ne pubblica nel 1529 una sua traduzione. Problematica una qualche diffusione all'inizio del Cinquecento, anteriormente all'azione trissiniana: non è verificabile il cenno di G. Benivieni nel Dialogo di Antonio Manetti... (edito nel 1506), per cui il De vulg. Eloq. sarebbe stato in possesso del fiorentino Rinaldo Gianfigliazzi, mentre non pare aver consistenza l'ipotesi del Lattès, secondo il quale il Calmeta e il Colocci avrebbero potuto conoscerlo e trarne spunti per la loro teoria cortigiana prima del 1513. Ma da questo momento l'opera, per lo più con la non disinteressata mediazione del Trissino, incomincia a circolare ampiamente e a provocare vari stimoli e reazioni. A Roma, il Bembo si fa eseguire una copia del ms. Trivulziano (v. oltre: TRADIZIONE MANOSCRITTA), e il Colocci ne fa trascrivere un frammento relativo alla teoria della canzone, II IX-X 4 (l'estratto è contenuto nel celebre zibaldone colocciano, cod. Lat. 4817 della Bibl. Vaticana); entrambi si servono largamente del De vulg. Eloq., rispettivamente nelle Prose della volgar lingua (dove pure non è nominato) e in una serie di postille critiche e metriche a vari codici. E l'utilizzazione filologica del trattato dantesco si continua brillantemente più tardi nell'attività del grande provenzalista e studioso di antica poesia italiana Giovanni Maria Barbieri. Sul fronte della questione della lingua, un immediato riflesso del soggiorno trissiniano, e delle discussioni sul trattato di D., presso i letterati degli Orti Oricellari, si ha nel Dialogo sulla lingua del Machiavelli (probabilmente del '14), che oppugna francamente, uso della Commedia alla mano, le tesi linguistiche antifiorentine e curiali che ravvisa (complice certamente l'interpretazione del Trissino) nel De vulg. Eloquentia. Qualche anno più tardi, e sempre in funzione anticortigiana, un altro fiorentino, L. Martelli, mette in dubbio nella sua Risposta alla Epistola del Trissino (1525) che il trattato appartenga a D., inaugurando un atteggiamento che sarà tipico dell'ambiente letterario di Firenze negli anni successivi. Intanto il Trissino col Castellano (1529) dà forma precisa alla propria utilizzazione (e sostanziale fraintendimento) delle tesi dantesche come supporto autorevole del suo atteggiamento anti-fiorentinistico e della sua teorizzazione di una lingua italiana comune, prodotto di eclettismo e mescidazione di tratti regionali diversi (" Ma sia come si voglia, tutte queste difficoltà sono spianate, e dichiarate da Dante nel libro della Volgar Eloquenza, nel quale insegna a scegliere da tutte le lingue d'Italia una lingua illustre e cortigiana, la quale nomina lingua volgare italiana "). Perciò a Firenze la difesa del patrimonio e della tradizione linguistica locale non può non coinvolgere, dato anche il crescente culto dantesco, una presa di posizione sulle dottrine del De vulg. Eloq. che si risolve in un atteggiamento radicale, sulla strada aperta dal Martelli: come sappiamo da testimonianze indirette e, più, da aperte dichiarazioni, i ‛ fiorentinisti ' maggiormente impegnati nella disputa linguistica, da Filippo Strozzi al Gelli al Borghini al Varchi (e allo stesso Tolomei, propugnatore della tesi ‛ toscana '), giungono a sostenere non solo la non appartenenza a D. del trattato, ma talvolta addirittura l'inesistenza del testo latino e il carattere di falso della traduzione del Trissino. In tutt'altro ambiente, ma sempre in rapporto alla questione linguistica, è interessante l'episodio, recentemente messo in luce, del siracusano Claudio Mario Arezzo, che, nelle sue Osservantii di la lingua siciliana, et canzoni in lo proprio idioma (1543), sfrutta per una sua tesi anti-bembiana e campanilistica il capitolo dantesco sulla lingua e poesia siciliana del Duecento (VE I XII). Fuori di un aggancio diretto con le polemiche suscitate dal De vulgari Eloquentia, è importante ricordare la conoscenza approfondita che ne rivela il Tasso nella Cavaletta (e cfr. anche i due Discorsi), utilizzandone e parafrasandone largamente alcuni concetti-chiave al servizio della propria dottrina della poesia. Viceversa, risente ancora nettamente di quelle polemiche, come si erano configurate a Firenze, il curatore dell'editio princeps del testo latino del trattato (Parigi 1577), Iacopo Corbinelli, la cui opera in favore del De vulg. Eloq. va vista anzitutto come risposta all'atteggiamento dei Fiorentini, specie gli esuli come lui a Parigi e suoi concorrenti nell'ambiente culturale di quella corte, avverso all'autenticità e ai pregi dell'opera. L'edizione è condotta sul cod. G, procurato al Corbinelli da un amico fiorentino, l'abate Piero del Bene (che l'aveva ritrovato in una chiesa di Padova), con l'ausilio della versione del Trissino e previi emendamenti e postille al codice stesso: l'accompagna un'appendice di Annotazioni del curatore al solo primo libro del trattato, cui è complementare una serie di glosse manoscritte, specie al secondo libro, che il Corbinelli appose poi a una copia della sua stampa. Ma il progetto di una seconda edizione, dichiarato dallo stesso Corbinelli in una lettera e a cui si collega quell'apparato di note e postille, non fu realizzato.
Con la benemerita edizione corbinelliana (subito registrata nella Vita Dantis Aligherii, 1587, del francese J.-P. Masson: presso Solerti, Vite, p. 218) si esaurisce in sostanza l'ondata di fortuna più intensa e culturalmente portante del De vulg. Eloq. prima degli inizi, nella seconda metà dell'Ottocento, di un lavoro più propriamente scientifico e disinteressato di costituzione testuale e interpretazione, col Witte, il Boehmer e il Moore fuori d'Italia, e con gl'italiani D'Ovidio e Rajna. Non più che un episodio circoscritto, senza risonanze degne di nota, appare la versione italiana che condusse sulla princeps, ai primi del Seicento, Celso Cittadini, mentre alla metà e alla fine del secolo si hanno due ristampe della traduzione trissiniana. E anche in seguito la fortuna dell'opera, se da un lato s'inserisce in minore nella vicenda non lineare della complessiva fortuna dantesca, dall'altro sembra seguire a lungo i binari tracciati dalla querelle cinquecentesca. A un certo numero di edizioni del De vulg. Eloq., entro più ampie sillogi di opere dantesche, dalla prima metà del Settecento in poi, fa riscontro la rarità e brevità di soste interpretative pertinenti, come nella Ragion poetica del Gravina e nel Discorso sul testo della Commedia del Foscolo (" nel libro ch'ei nomina della Volgare Eloquenza [D.] cominciò ad illustrare l'idioma poetico ch'egli creava... "); un interesse più diretto e profondo si risveglia in relazione a un più acuto risorgere della questione della lingua, non senza anacronistici strascichi, in ambiente fiorentino, della tesi della non autenticità del trattato (A.M. Salvini, V. Follini). E precisamente alla nuova fase ottocentesca della questione linguistica, tra purismo e proposte manzoniane, appartengono le discussioni e i tentativi d'interpretazione più interessanti dopo quelli cinquecenteschi, proprio nella misura in cui inseriscono di nuovo l'opera, magari strumentalizzandola arbitrariamente e deformandone il significato, in un dibattito culturale vivo e centrale. Così il Perticari, spalleggiato dal Monti, appoggia all'autorità del trattato dantesco, interpretato in chiave neo-trissiniana; la sua tesi antipuristica e filo-montiana di una lingua italiana ‛ comune ' (Degli scrittori del Trecento e dei loro imitatori, 1818; Dell'amor patrio di D. e del suo libro intorno al Volgare Eloquio, 1820), e provoca le ritorsioni del fiorentinista Niccolini (Considerazioni intorno agli asserti di D. nel libro della Volgare Eloquenza, 1819, ecc.); più tardi il Manzoni, intervenendo nella questione col consueto lucido radicalismo, prima dichiara oralmente (a detta del Capponi) che il De vulg. Eloq. è " un trattato di eloquenza e non di lingua ", poi ribadisce pubblicamente la sua tesi nell'apposita lettera al Bonghi del '68 (" in esso non si tratta di lingua italiana né punto né poco "; " per Volgare Illustre, Dante non ha intesa una lingua " ma " intende parlare... del linguaggio della poesia, anzi d'un genere particolare di poesia ", ecc.): del medesimo avviso è sostanzialmente il Capponi, come rivela la lettera allo stesso Manzoni, sempre del '68 (" a me sembra avere Dante confuso talvolta la lingua e lo stile nel concetto di quel libro ", che " non viene a fermare le ragioni della lingua, ma dell'eloquenza "; " discorre, a guardarvi propriamente, dell'alto stile ", ecc.). Col che, pur nell'angolatura parziale, è colto un nodo fondamentale dell'opera e viene in sostanza vantaggiosamente chiusa la sua secolare lettura in chiave di archetipo della questione della lingua in Italia.
Significato. - Per intendere il significato del De vulg. Eloq. giova, più e prima che soffermarsi sulla sua portata teoretica e culturale assoluta, sulle sue ‛ novità ', che pure sono cospicue, cercare di determinare il posto e la funzione all'interno della carriera di Dante. Cronologicamente esso si situa in un momento delicato e importante della vita e dell'attività dello scrittore: cioè in quei primi anni dell'esilio che gli posero, col mutamento radicale degli orizzonti politici, sociali e culturali in cui operava, il problema urgente (attestato più direttamente in varie pagine del Convivio) di una redifinizione e di un ripensamento del proprio ruolo e significato d'intellettuale; e insieme comportarono necessariamente un allargamento e approfondimento della sua strumentazione culturale di cui l'opera di filosofante del Convivio, e lo stesso De vulg. Eloq. (con la sua robusta appropriazione, anzitutto, dei risultati di tutta una tradizione retorica) sono evidente dimostrazione. Ora in quel momento D. aveva alle spalle, in sostanza, una ricca e complessa produzione di poeta lirico: e di questa i due trattati rappresentano, a diverso titolo, un bilancio e un approfondimento teoretico, l'uno (il Convivio) nel senso di una sistemazione e sviluppo filosofico tanto più articolati e ‛ scientifici ' dei contenuti dottrinali enucleati in nuce in una sezione notevole di quella produzione, l'altro come teorizzazione retorico-letteraria, come autoriflessione questa volta formale, sulla base della stessa prassi poetica. In questo senso le due opere sono l'espressione più complessa e definita di un atteggiamento costante in D., e centrale nella sua personalità: cioè il bisogno di ripensare continuamente, ora per rifiutarne senz'altro certi aspetti, ora per recuperarne altri, e svilupparli nel quadro di nuovi interessi, il tracciato della propria passata esperienza letteraria e culturale. Di qui, dalla Vita Nuova al Convivio appunto, all'Epistola a Cangrande, la costante predilezione per la forma dell'auto-commento, che d'altronde s'inserisce nella tipica tendenza della cultura medievale all'esposizione dottrinale e morale come commento a un ‛ testo ' (v. per questo rapporto, oltre alle pagine di E.R. Curtius [in Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Berna 19542], L. Jenaro Mac Lennan, Autocomentario en D. y comentarismo latino, in " Vox romanica " [XIX] 1960, 82-123); e in un certo senso si può ben dire che anche il De vulgari Eloquentia s'inserisce in questo ‛ genere ' dell'auto-commento.
Preliminarmente, è sufficiente uno sguardo, dal semplice punto di vista quantitativo, alle autorità poetiche volgari citate come supporto alla teoria, per toccare con mano che D., se allarga il ventaglio dell'esemplificazione normativa a un numero consistente di altri poeti - ma in sostanza in quanto s'inseriscano nelle linee delle proprie esperienze -, è su queste ultime che fonda sostanzialmente la sua dottrina retorica: ciò diventa evidentissimo negli ultimi capitoli del II libro, dedicati alla metrica della canzone (su quindici liriche citate, otto sono dello stesso D., e, delle rimanenti sette, tre sono allegate con riserva sul loro autentico carattere di canzoni ‛ tragiche ' , mentre le altre fanno sempre da contorno ad autocitazioni). Ma è soprattutto nei suoi nodi teorici sostanziali che il De vulg. Eloq. si rivela come opera di sistemazione critica e teorizzazione anzitutto della personale esperienza lirica del suo autore, come ‛ poetica ' prima che Rectorica; beninteso, non nel senso di una serie di passivi corollari a un'attività contemplata immobilmente nel passato e chiusa, ma, come avviene per le ampie chiose filosofiche del Convivio alle canzoni dottrinali, in quello di un ripensamento critico di tale esperienza che ne individua le possibilità di utilizzazione e sviluppo all'interno di nuove esigenze culturali e teoretiche (non si dimentichi che all'epoca del trattato il momento della lirica è in sostanza concluso, e s'affaccia quello totalmente nuovo della Commedia, la cui ombra probabilmente incombe già, sullo sfondo, in più di un'affermazione retorica del De vulg. Eloq.): e pertanto tale riesame comporta non solo scelte e autolimitazioni rigorose, ma in fondo una forma di superamento e di deformazione del senso stesso delle esperienze positivamente accettate e conservate come essenziali (si pensi ancora a quanto l'allegorismo dottrinale sistematico del Convivio aggiunge e sovrappone al messaggio originario delle canzoni commentate).
Ora, il carattere più evidente della produzione lirica di D. è la sua discontinuità e il suo sperimentalismo, il coesistere lungo il suo arco, e bene spesso contemporaneamente, di esperienze condotte secondo codici stilistici (e ideologici) nettamente diversi e talvolta opposti, dalla fase stilnovistica agli esperimenti comici (che ora sappiamo ben più consistenti data l'attribuzione a D. del Fiore), dall'oggettività e sottigliezza concettuale delle canzoni dottrinali, stilisticamente equilibrate, all'egocentrismo ed esclusivismo così formali come psicologici delle petrose. Sembra chiaro che esiste un preciso rapporto tra una siffatta esperienza, articolata in tale varietà di registri, e l'impianto dottrinale del De vulg. Eloq., progettata come enciclopedia stilistica e linguistica onnicomprensiva che doveva abbracciare non solo la scala completa (dal tragico al comico ed ‛ elegiaco ') dei livelli di stile, ma parallelamente tutte le modalità d'uso del volgare, da quella illustre giù giù fino a quella " propria di una sola famiglia (v. sopra, Contenuto). D'altra parte la dottrina stilistica del De vulg. Eloq. configura una poetica che (almeno a giudicare, come necessario, da quanto è stato effettivamente compiuto dell'opera) appare sostanzialmente fondata su una scelta precisa che privilegia, all'interno della produzione lirica dantesca, due fra le varie ‛ fasi ' che la caratterizzano, e cioè quella stilnovistica e ancor più quella (nel complesso recenziore e si può dire ancora in corso) delle grandi canzoni morali e dottrinali, del poetare ‛ sottile ': fase che, giova tener presente, rappresenta dal punto di vista che qui importa, quello stilistico, assai più una prosecuzione e un arricchimento che un'inversione di rotta rispetto alla temperie stilnovistica e allo ‛ stilo della loda ' (e più in genere va sottoscritto in pieno quanto ebbe a osservare il Contini [Introduzione all'ediz. delle Rime, p. 19]: " il cantor rectitudinis esce dal cantore d'Amore "). Sicché una serie di punti fondamentali della teoria del De vulg. Eloq. si articolano precisamente come equivalenti dottrinali di tale scelta e giudizio della propria attività poetica che ha al suo centro la prassi delle canzoni " d'amore come di virtù materiate ".
Di qui anzitutto, sul versante dei contenuti, la gerarchia dei magnalia (v.) in cima alla quale si colloca precisamente la tematica della virtus, della directio voluntatis, il cui rappresentante precellente è D. stesso (e viene citata Doglia mi reca) in coppia con Giraut de Bornelh. Ma importa tener presenti specialmente i postulati formali connessi alla poetica in questione. Tale la scelta della canzone come forma unica della poesia più elevata, e inversamente la netta limitazione del sonetto (posposto anche alla ballata: VE II III 5), genere in sostanza estraneo ai modi della poesia dottrinale-morale e che anzi, dopo l'ampia utilizzazione nel momento stilnovistico, D. aveva quasi esclusivamente adibito (come avviene in generale nella corrente cosiddetta ‛ realistica ': Rustico Filippi, Cecco Angiolieri, ecc.) a metro specializzato nell'eterodosso registro ‛ comico ' (Fiore, tenzone con Forese). Tale la relativa svalutazione implicita dell'esperimento delle petrose, sia pure in certo senso riscattate - ma nello stesso tempo chiaramente limitate - dal riconoscimento dei loro pregi di audace tecnicismo (II XIII 12); e soprattutto la netta esclusione dall'ambito della sola poesia degna degl'individui-poeti optimi e capaci di optimae conceptiones - quella illustre, ‛ tragica ' -, di una dimensione della propria attività lirica così importante com'era stata appunto l'esperienza comica, sulla quale pertanto tace completamente la parte del trattato che D. ha scritto (e v. più innanzi). Queste esclusioni e limitazioni, ovvie sul piano contenutistico e ideologico, una volta che D. abbia fatto perno sopra una poesia eticamente e intellettualmente impegnata sui massimi temi umani nella loro universalità (i magnalia, dum nullo accidente vilescant), si spiegano bene anche dal rispetto formale: poiché la lirica morale e dottrinale, dove non continua irrobustendola la ‛ dolcezza ' stilnovistica, esperisce pure l'opposta qualità dell'energia e ‛ asprezza ' caratteristica delle fasi comica e petrosa, ma, diversamente dall'esclusivismo stilistico di queste ultime, utilizzandola nel senso di un equilibrio e contemperamento tonale o di una meditata varietas (è ciò che nel De vulg. Eloq. si dice, non senza andar oltre i dati effettivi della prassi passata, l'asperitas lenitati permixta: v. specialmente ASPERITAS; STILI, DOTTRINA degli; VOCABILI, TEORIA dei). Accanto all'esperienza dottrinale, quella stilnovistica: di cui il trattato (come più tardi la Commedia) continua a riconoscere pienamente il valore istituzionale, sia pure nell'implicita ma evidente subordinazione dell'amor alla virtus. Cosicché ad es. la lista dei vocaboli pexa, sostanza del volgare illustre, che compare in VE II VII 5 (v. PEXUS; VOCABOLI, TEORIA dei), è in pratica - com'è stato osservato (cfr. U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 40) - un elenco di parole-chiave tipiche della poesia stilnovistica dantesca; o, quando D. sceglie una sua lirica che esemplifichi concretamente la nozione di ciò che sia la cantio (II VIII 8), questa è per l'appunto Donne che avete intelletto d'amore, la canzone che aveva inaugurato le nove rime della loda e che ancora verrà citata a onore come prima espressione di una poesia nuova e rivoluzionaria in Pg XXIV 49-51 (si tenga inoltre conto che Donne che avete ricompare poi, a esemplificare un elemento di tecnica metrica particolarmente importante, in II XII 3, mentre in II XI 8 è ricordata Donna pietosa e di novella etade: nel De vulg. Eloq. sono dunque citate due delle tre canzoni della Vita Nuova).
D'altro canto il progetto del De vulg. Eloq. non è davvero concepibile senza l'impianto del Convivio, con cui mostra una quantità di loci paralleli (v. commento Marigo, passim), e delle cui riflessioni sul problema della lingua doveva rappresentare un corollario e uno sviluppo (v. sopra, num. 1): anche se di fatto le teorie del trattato latino finiscono per risultare, per la mobilità intellettuale e la capacità di contraddirsi e auto-superarsi proprie di D., in antitesi a quelle del commento volgare su almeno un punto, ma fondamentale, quello del rapporto tra latino e volgare (v. GRAMATICA; ma v. ad es. anche ORNATUS). E il Convivio (cfr. specialmente I I 10-15) è appunto l'opera che tenta di dare un'ampia e organica sistemazione concettuale ai contenuti d'impegno etico e concettuale, alla tensione pedagogica e razionalistica che avevano costituito la maggiore novità delle poesie morali e dottrinali nell'itinerario della lirica dantesca. Anche da questo lato appare l'importanza che tale esperienza poetica ha avuto per l'evoluzione di D. negli anni successivi all'esilio. È precisamente nell'atteggiamento del poeta ‛ dotto ' che sta il nucleo e il punto di partenza del nuovo ruolo intellettuale che D. assume con il Convivio e il De vulg. Eloq., e con cui si situa nel contesto politico e culturale, diverso e più ampio, di fronte al quale si trova dopo l'esilio: ruolo di poeta-filosofo e poeta-tecnico che fa scaturire dall'interno stesso dei propri dettami lirici una serie di universali teoretici di cui farsi espositore presso un pubblico non più limitato e municipale, rivendicando così nello stesso tempo la propria altezza d'ingegno al cospetto di quella Firenze che l'ha scacciato.
Ma naturalmente il processo con cui D. enuclea dal giudizio della propria esperienza lirica (e di quella romanza in genere) le linee di una poetica, non può essere rettilineo e privo di antinomie, e la varietà e difformità di quell'esperienza non può non riflettersi nella teoria. Estremamente caratteristiche in questo senso le oscillazioni concettuali che rivela la teoria del volgare illustre e anche, con perfetto parallelismo, quella degli stili (v. per un inquadramento globale ILLUSTRE; STILI, DOTTRINA degli). Fatta ogni riserva su quelle che potevano essere le intenzioni di D. circa la dottrina, non esposta, dei volgari e degli stili inferiori, resta che allo stato attuale emerge dal trattato una concezione del volgare illustre come la forma d'espressione più alta degl'Italiani, accanto alla quale esistono pure, subordinatamente, altre forme inferiori ma legittime, e nello stesso tempo come l'unica espressione autentica d'italianità linguistica, l'unica degna di Italiani e di uomini che siano tali in senso pieno (v. anche CONVENIENZA); e parallelamente una nozione dello stile tragico come grado superior di una scala legittima di stili, e insieme come stile connaturato necessariamente all'abito dell'uomo-poeta capace di concepire e sentire in modo elevato. C'è insieme la possibilità di una scelta e la negazione di questa possibilità. Ciò emerge con chiarezza soprattutto dai primi due capitoli del secondo libro: da un lato si sancisce un rapporto di reciprocità necessario e irreversibile tra optima loquela e individui dignissimi, capaci delle optimae conceptiones, che soli possono (e devono) usarla, mentre i meno degni ne sono esclusi e non possono certo utilizzarla come ornamento estrinseco di concezioni non adeguate a essa; dall'altro si asserisce tuttavia che neppure i poeti excellentissimi possono sempre esprimersi in volgare illustre, ma solo quando affrontino determinati argomenti sommi (che vengono oggettivamente stabiliti) e si situino a un determinato livello di stile (poi precisato in rapporto agli altri, e sempre secondo criteri assoluti e oggettivi, in II IV 5-6). Ne sembra derivare che il poeta capace d'innalzarsi allo stile sommo (che è anzi la sua naturale e necessaria forma di espressione) può tuttavia all'occasione, purché rispetti i canoni della convenientia tra contenuto, stile e lingua, poetare anche nel registro stilistico medio e basso, e scendere dall'uso del volgare illustre a quello dei volgari inferiori. Senonché così è difficile comprendere (secondo ha osservato giustamente il Vinay) come un individuo in cui l'altezza morale e intellettuale, la capacità - e necessità - di concepire i contenuti umani più nobili, sono una seconda natura (un habitus), possa e voglia spogliarsene temporaneamente per il gusto di sperimentare gli stili inferiori; e non è neppure chiaro come possa e riesca a rinunciare alla piena italianità che è naturalmente sua, e che comporta l'uso del volgare illustre, per scendere al livello regionale e municipale cui probabilmente appartengono per D. (v. ancora ILLUSTRE; STILI, DOTTRINA degli) i volgari inferiori. In pratica dunque, nell'utilizzare gli schemi retorici tradizionali della teoria degli stili, D. ne ha da un lato superato l'oggettività e il possibilismo interiorizzando al massimo il rapporto scrittore-stile e proponendo un ideale assoluto, quasi religioso dello stile sommo e del connesso volgare illustre, concepiti non tanto come i più alti quanto come gli unici strumenti espressivi di una poesia che sia veramente prodotto di scientia e ingenium; ma dall'altro ha pur ereditato da essi la nozione, conseguente a quell'oggettivismo, della piena legittimità dei vari stili inferiori nel loro ambito. Non si tratterà soltanto di una ben spiegabile aporia teorica (la cui soluzione, giova ricordarlo, avverrà solo nella prassi della mescolanza e compresenza degli stili propria della Commedia), ma anche e forse soprattutto di una conseguenza necessaria dei caratteri dell'esperienza lirica personale su cui D. si fa a riflettere. Cosicché il De vulg. Eloq. veniva impostandosi come su un doppio binario: per un aspetto quale esaltazione di un certo tipo di poesia, estrapolata dalla complessa vicenda della lirica propria e romanza in genere e assolutizzata come unico ideale di espressione valido per sé e per i pochi degni compagni di strada; per un altro quale dottrina enciclopedica degli stili, che doveva riflettere e giustificare appunto un itinerario lirico estremamente vario di aspetti e dominato da un accanito sperimentalismo stilistico (che ancora influisce su varie proposizioni del trattato), il cui prodotto non-illustre più consistente era stata proprio l'esperienza di poesia ‛ comica '. Se è vero che nella sua configurazione attuale il De vulg. Eloq. rispecchia soprattutto la prima di queste posizioni, è anche ben probabile che l'aporia di fondo che si è illustrata vada messa nel conto delle ragioni ipotetiche per cui non è stato condotto a termine.
In un altro senso ancora, più sotterraneo, la fondamentale esperienza comica di D. e il relativo abito mentale e stilistico permeano il tessuto del De vulg. Eloquentia. Si pensi alla rassegna negativa dei dialetti italiani di I XI-XV. Appare oggi sempre più chiaro che quella serie di exempla icasticamente critici appartengono anzitutto alla vivace tradizione letteraria, italiana e in genere romanza, della parodia linguistica (v. da ultimo C. Segre, Lingua stile e società, Milano 1963, 383 ss., e D'A. S. Avalle, in " Questo e altro ", n. 8, 1964, 9). L'improperium linguistico e in genere l'ironica mimesi di parlate sentite come abnormi o provinciali, pur risentendo ovviamente di esempi non italiani (basti il riferimento al contrasto di Raimbaut de Vaqueiras), trovano in Italia un terreno singolarmente favorevole sia per motivi extra-culturali (fortissima fragmentazione dialettale, vivacissimi contrasti municipali e rivalità politiche) che per ragioni specificamente culturali: tale l'affermarsi del prestigio linguistico toscano e fiorentino e la stessa permanente egemonia del latino; tali soprattutto il costituirsi di una consistente tradizione di poesia " comico-realistica " e la vitalità di tendenze stilistiche ‛ espressionistiche ' (sul versante della prosa la presenza di una novellistica a prevalente registro comico), in cui s'ambienta naturalmente il gusto per la caricatura vernacolare. Ecco quindi da una parte le tranches dialettali di Salimbene, del Decameron (e tutto l'esperimento della " Lettera napoletana " dello stesso Boccaccio), del Passavanti, del Sacchetti; dall'altra tutta una serie di esempi poetici di mimesi o parodia vernacolare, dalla canzone del Castra al sonetto Ocli del conte di U. Bucciola, a quello attribuito all'Angiolieri (Pelle chiabelle de Dio, no ci arvai), al contrasto della Zerbitana, ai sonetti veneziano, padovano e trevigiano contenuti nel cod. Barber. 3953 di N. de' Rossi (v. M. Corti, D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 129-142), alla frottola del Sacchetti, ecc.
I legami del De vulg. Eloq. con questa tradizione appaiono estremamente precisi: non solo perché se ne cita uno degli esemplari più tipici ora menzionati, la canzone del Castra (I XI 3), come appartenente a una serie di quamplures cantiones dello stesso tipo, e subito dopo (§ 4) si riporta un altro improperium (perduto), Enter l'ora del vesper, / ciò fu del mes d'ochiover; ma anche perché altrove appare una stretta concordanza tra exempla danteschi e analoghi frammenti parodici precedenti (si confronti il verso veneziano di I XIV 6 Per le piaghe de Dio tu no verras, col citato incipit dello pseudo-Angiolieri, o anche la frase romanesca di I XI 2, Messure, quinto dici?, con quanto attribuisce Salimbene [Cron., ediz. Scalia, I 172] a " illi de Apulia et Sicilia et Romani, qui imperatori et summo pontifici dicunt ‛ tu '. Et tamen appellant eum dominum dicentes: ‛ Tu messor ' "). Del resto l'intento parodico-letterario appare scopertamente da molti altri elementi, quali la continua sottolineatura (a volte esplicita) del rapporto tra deformità o municipalismo linguistico e difetti di mores, le frequenti ipercaratterizzazioni delle parlate colpite (tipicamente il messure - e non messore - romano e il ces - e non ce - friulano), e lo stesso gusto di racchiudere la definizione dei dialetti nella forma più compiuta e icastica della frase fortemente espressiva o del verso. Fatte le dovute proporzioni, siamo sulla strada dell'atteggiamento icastico che promuoverà, nell'ambito del grande realismo della Commedia, gli episodi di mimesi linguistica e stilistica di alcuni personaggi.
È pacifico che nella sua funzione e struttura specifica, l'elaborazione organica di una retorica e precettistica della poesia volgare, e di una ‛ storia ' critica della medesima, il De vulg. Eloq. è opera unica ed eccezionale nella carriera dantesca; e tuttavia in essa si esprime più compiutamente un'attitudine che è costante e basilare nella personalità di D., vale a dire, con le parole del Contini (Introduzione all'ediz. delle Rime, 10), " questo perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia, quest'associazione di concreto poetare e d'intelligenza stilistica ". A parte le manifestazioni successive più notevoli di quest'attitudine, quali le grandi pagine di critica e storia letteraria e di filosofia del linguaggio della Commedia (per lo più strettamente e magari polemicamente conseguenti alle impostazioni del De vulg. Eloq.) e l'Epistola a Cangrande, si pensi a tutti gli anticipi in questo senso disseminati nella produzione anteriore: alla Vita Nuova soprattutto, con l'excursus storico letterario del cap. XXV (cui non a caso si riallaccia un passo fondamentale del trattato latino, II IV 2), ma anche con le definizioni di poetica dei capp. XVIII e XIX, e altro ancora; ma, e forse anche più significativamente, ai vari passaggi delle liriche più costruite e mature che vertono precisamente su una definizione tecnica dei caratteri stilistici che le contrassegnano (Rime LXXXIII 67-69 da questo punto / con rima più sottile / tratterò il ver di lei...; CIII 1 Così nel mio parlar voglio esser aspro...; CVI 54-56 discenderò del tutto / in parte ed in costrutto / più lieve..., ecc.), e possono giungere a delineare con esattezza il passaggio dall'uno all'altro momento stilistico, e le relative implicazioni psicologiche (Cv IV Le dolci rime 1 ss. Le dolci rime d'amor ch'i' solia / cercar ne' miei pensieri, / convien ch'io lasci... / diporrò giù lo mio soave stile / ... e dirò del valore / ... con rima aspr'e sottile). Infine in epoca grosso modo contemporanea a quella del De vulg. Eloq. si colloca l'esplicazione (razo) sotto forma di epistola del sonetto a Cino Io sono stato con Amore insieme (Ep III), per non dire della parte che gl'interessi linguistici, letterari, e a volte anche più specificamente di tecnica poetica, hanno nel Convivio.
Tuttavia, se l'abito all'auto-riflessione stilistica e retorica è una costante di D., non s'insisterà mai abbastanza sulla necessità d'intenderne le singole manifestazioni concrete (e in primo luogo il De vulg. Eloq.) nel quadro di momenti dello sviluppo dantesco, e di esigenze di poetica, via via profondamente diversi e sostanzialmente irriducibili l'uno all'altro: anche in questo senso l'evoluzione di D., parallelamente a quella dell'artefice ' di poesia e dell'uomo di cultura, procede per rapide maturazioni e netti auto-superamenti. Si misuri ad es. la distanza tra la giustificazione ancora così acerba e limitata della poesia volgare che si dà in Vn XXV (§ 6 E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore) e la latitudine, praticamente illimitata, di temi e possibilità stilistiche che si perviene ad assegnarle nel De vulg. Eloq., dopo un decennio che aveva visto il prepotente allargarsi della lirica dantesca a nuovi e vari interessi tematici ed esperimenti linguistici. Ma soprattutto si consideri quale immediata e radicale contraddizione della poetica del trattato rappresent la prassi linguistica della Commedia, con la sua totale e tranquilla disponibilità ai toni bassi del registro comico e l'implicito annullamento di ogni gerarchia e separazione di stili: sicché ad es. nel lessico onnicomprensivo del poema hanno senz'altro cittadinanza, con sintomatica puntualità, i vocaboli puerilia e silvestria e lubrica e reburra espunti dalla poesia tragica in VE II VII 4, così come i brutti fiorentinismi " municipali " (manicare, introcque) satireggiati in I XIII 2 (v. Firenze; VOCABOLI, TEORIA dei). E dunque l'ipotesi tradizionale che mette in relazione la brusca interruzione del trattato con la nascita della Commedia, per indimostrabile che sia letteralmente, assume carattere, più che di alta probabilità, di sostanziale necessità. E l'altra più diffusa ‛ poetica ' dantesca, l'Epistola a Cangrande, in quanto controparte teorica del poema (di cui pure rifletterà solo sommariamente le implicazioni) mostra di conseguenza (v. in particolare i §§ 26-32) tutt'altra impostazione da quella del De vulg. Eloq., già nella terminologia e nelle categorie retoriche, e soprattutto nella giustificazione e nello statuto nuovi che assume la nozione di comedia.
Il De vulg. Eloq. si apre con una perentoria affermazione della novità assoluta dell'impresa che con esso D. si accinge a compiere: Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentiae doctrina quicquam inveniamus tractasse... Per quanto la dichiarazione appartenga al bagaglio normale dei precetti per gli esordi indicati dalla trattatistica retorica e si ritrovi quindi in forme consimili in molti testi dello stesso genere del nostro, non c'è dubbio che essa, da intendersi certamente come riferita all'eloquentia ‛ romanza ' in generale, e non solo italiana, risponde a una precisa consapevolezza dell'autore, di cui i posteri non possono che confermare l'effettiva consistenza. Certo l'opera si colloca in una tradizione già vivace di riflessioni e sistemazioni normative, retoriche e grammaticali, sui volgari assunti a dignità letteraria, ma tutti questi ‛ precedenti ' sono veramente cose diverse e minori del trattato dantesco. Così si dica soprattutto per il filone della trattatistica provenzale sorta in margine alla poesia trobadorica, dalle Razos de trobar di R. Vidal (parafrasate in Italia, sempre in lingua provenzale, da Terramagnino di Pisa) alla Doctrina de compondre dictatz, alle Regles de trobar di Jaufré de Foxa, al Donatz proensals, tutte operette (la cui conoscenza da parte di D. è del resto improbabile nel complesso, solo possibile per il testo del Vidal) che non valicano in linea di massima i limiti della pratica casistica grammaticale e delle sommarie definizioni metriche; mentre il trattato di D. " non è di grammatica volgare e neppure è un manuale pratico di versificazione, ma è concepito come una organica arte del dire in volgare, fondata su princìpi di filosofia, di poetica e di retorica universali " (Marigo), e, si può aggiungere, inquadrata in una robusta valutazione storico-critica delle letterature romanze. Ma la novità del De vulg. Eloq. non è in sostanza minore nei confronti dei capolavori della retorica volgare del Duecento in Italia (questi senz'altro ben noti a D., e non privi di precise influenze su di lui), la Rettorica italiana e la relativa sezione del Tresor di Brunetto Latini: l'una e l'altra chiusi in sostanza nell'ambito di una dottrina della prosa politica e dell'eloquenza orale, vista in funzione della creazione di una classe dirigente comunale colta e capace, per la quale vengono utilizzati fedelmente i dettami della più proverbiale retorica classica (soprattutto il De Inventione ciceroniano). Mentre col De vulg. Eloq. è la rivoluzionaria esperienza moderna della lirica volgare (italiana e provenzale) a balzare in primo piano, come fondamento di una dottrina dell'eloquentia poetica che, per quanto attinga largamente ai precetti di una tradizione retorica nata su testi e per scopi diversi, trae in sostanza la legittimità delle sue norme da quella viva prassi poetica (e dalla propria in primo luogo), affermandone con insistenza la piena portata istituzionale, il valore di concreta auctoritas (v. in particolare II X 5): e al limite la confezione astratta della ‛ regola ' cede alla semplice indicazione dei testi poetici che ne rappresentano l'eloquente attuazione effettuale (II VI 7 Nec mireris, lector, de tot reductis autoribus ad memoriam; non enim hanc quam supremam vocamus constructionem nisi per huiusmodi exempla possumus indicare). Né tale rivendicazione dell'istituzionalità di una recente tradizione sarebbe possibile se l'accento di D. non battesse con forza, prima che sull'eccellenza dei prodotti, sulla dignità morale e intellettuale degli uomini che li hanno elaborati, i doctores illustres che sanno elevarsi ai valori umani fondamentali dei magnalia, e che reges, marchiones, comites et magnates quoslibet fama vincunt (I XVII 5). Anche in ciò si riflette una delle peculiarità più notevoli del De vulg. Eloq. nei confronti della produzione retorica che lo precede, non solo quella mediolatina ma anche la più recente trattatistica provenzale, cioè il fatto che per la prima volta la dottrina scaturisce direttamente da un'attività poetica gestita in proprio, e da una tradizione ad essa omogenea.
Una delle ragioni del carattere eccezionale del De vulg. Eloq. nel panorama della trattatistica affine sta poi nell'ampiezza del quadro problematico in cui è inserita la tematica del volgare illustre italiano. Alla quale si arriva anzitutto dopo un'amplissima trattazione di filosofia e storia del linguaggio che occupa i primi nove-dieci capitoli dell'opera (v. sopra, CONTENUTO). Al di là della mentalità enciclopedica ed eziologica tipicamente medievale che condiziona simile impostazione, quei capitoli rivelano una solidità di strumentazione filosofica e una forza speculativa di prim'ordine (non per nulla sono contemporanei all'attività di filosofante del Convivio). Sicché, pur muovendosi in un ambito problematico complessivamente tradizionale (qual era stato fissato specialmente nel filone dell'esegesi del Libro del Genesi e nel lavoro di commento su testi aristotelici come il De Interpretatione, il De Anima, la Politica), e ricalcandone nel complesso le soluzioni, D. perviene ugualmente a enuclearne certi nodi concettuali con singolare pregnanza e anche originalità: si pensi soprattutto alla limpida individuazione del carattere insieme sensibile e razionale del linguaggio, alla spiegazione dei modi della diaspora babelica, alla teoria dell'intrinseca mutevolezza della lingua e del suo differenziarsi nel tempo e nello spazio, all'acuta analisi della genesi e funzione delle lingue convenzionali (per tutto questo v. in particolare EBRAICO; GRAMATICA; LINGUA: convenzionalità; mutevolezza, ecc.). Sulla base dell' ‛ autorità ', che è qui soprattutto la parola biblica (e la sua esegesi accreditata) si esplica liberamente l'attività della ragione speculante, per integrarne congetturalmente i dati (v. ad es. I II 5 ss., V 2, VII 6-8) e se del caso anche per correggerne il dettato letterale (cfr. l'importante passaggio di I IV 3: v. ADAMO). Tuttavia il senso della parte iniziale del trattato sfuggirebbe se la si ritenesse sostanzialmente un omaggio allo spirito di sistema e un appagamento di certe curiosità gnoseologiche: in realtà tra di essa e il nucleo centrale dell'opera, la teoria del volgare illustre, esiste una precisa rete d'implicazioni concettuali. Anzitutto, a differenza degli autori di artes latine che si muovevano sul terreno sicuro di una lingua di diritto incontestabile, D. ha bisogno di fondare e giustificare l'oggetto del suo discorso, quel volgare che appare intrinsecamente mutevole e privo di unità e ‛ regolarità ', e ciò come effetto di un processo che muove da un momento profondamente negativo della storia umana, il peccato babelico con cui l'umanità ha perduto il bene del linguaggio unitario e sacro elargitogli da Dio: e la creazione delle lingue convenzionali, le gramaticae (per i popoli ‛ europei ' il latino) risponde precisamente alla necessità di ovviare agli effetti disastrosi di quella colpa. Va vista su questo sfondo l'impostazione metafisica, religiosa che D. dà al tema del volgare illustre (paragonato addirittura a Dio come unum simplicissimum, I XVI 5) quale formazione unitaria e stabile che si costituisce al di sopra di quella negativa molteplicità e instabilità. In tale problematica s'inserisce necessariamente il confronto con la lingua stabile, unitaria e regolata per eccellenza, il latino, di cui il Convivio aveva appena proclamato la superiorità sul volgare appunto in quanto prodotto di ars e capace, in virtù della sua solida struttura e tradizione, di esprimere più compiutamente della lingua naturale contenuti culturali complessi. Nel De vulg. Eloq. D. legittima il ruolo culturale del volgare di fronte al latino in due modi. Da una parte, rovesciando l'impostazione del primo libro del Convivio, afferma (e sintomaticamente fin dal primo capitolo dell'opera) la maggior " nobiltà " del volgare, proprio per la sua naturalità di mezzo espressivo primario, immediato e universale degli uomini, di contro al'" artificialità " del latino. Ma dall'altra indica insistentemente la regolare gramatica e i suoi scrittori come modello per la regolamentazione retorica e la stabilizzazione del volgare. Tale è il senso che hanno, al di là del principio d'imitazione dei classici corrente nella cultura medievale, i continui richiami agli autores e alle poetriae latine che culminano nella " degnità " di II IV 3 (Idcirco accidit ut, quantum illos [i poetae regulares] proximius imitemur, tantum rectius poetemur. Unde nos doctrinae operi intendentes, doctrinatas eorum poetrias emulari oportet). E del resto già nel paragone tra i tre volgari ‛ romanzi ' di I X 1-4 D. aveva usato il latino come unità di misura, affermando la superiorità della lingua del sì proprio in quanto più vicina al latino per costituzione unitaria e per maggiore aderenza alla gramatica dei suoi poeti più grandi (in I X 4, r. 20, occorre appunto leggere, coi codd. G e T - B omette - videntur, in luogo del tradizionale emendamento videtur, e il verbo viene di conseguenza riferito non all'italiano, ma a qui dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt: cfr. C. Grayson, ‛ Nobilior est vulgaris ': Latin and Vernacular in D.'s Thought, in Centenary Essays on D., Oxford 1965, 61-64). Ne scaturisce infine quella sostanziale equiparazione della cultura letteraria romanza più alta alla latina classica che è una delle conquiste teoretiche maggiori del De vulg. Eloq.: e in virtù della quale, sempre nel cap. IV del secondo libro, gli schemi retorici che definiscono la tragoedia latina sono senz'altro applicati alle grandi canzoni dei doctores trifari, e questi ultimi divengono pienamente partecipi dell'alto elogio che, secondo l'interpretazione medievale, aveva tributato ai poeti il maggiore dei poeti, Virgilio (hii sunt quos poeta Aeneidorum sexto Dei dilectos et ab ardente virtute sublimatos ad aethera deorumque filios vocat). Non diversamente, nel IV dell'Inferno, D. si porrà, in virtù del bello stilo delle sue liriche, sesto di diritto nella schiera dei classici dall'altissimo canto.
Non è solo nell'introduzione generale di I I-IX che si manifesta la vigorosa attitudine di filosofante che, ancora una volta, distingue il De vulg. Eloq. dalla media della trattatistica affine. In realtà, nella tecnica espositiva quest'opera non si differenzia sostanzialmente dai trattati più propriamente filosofici come il Convivio e la Monarchia; coerentemente all'animus che la regge, che non è quello del sistematore di una materia dottrinale data ma di chi (con le parole di Mn I I 3) si fa ad intemptatas ab aliis ostendere veritates, il discorso del De vulg. Eloq. procede di preferenza, anche nelle parti più schiettamente precettistiche, non tanto attraverso piane esposizioni didattiche quanto attraverso serrati procedimenti dimostrativi e persuasivi che sottolineano la conquista e la perentoria comunicazione d'irrefutabili verità. Di qui la presenza di una terminologia e di schemi formali di pretta marca filosofico-scolastica. Tutta la tecnica del primo libro è stata accostata (dal Di Capua) alla tecnica universitaria della collatio; ma in genere abbondano i procedimenti tipici della dimostrazione scolastica: dal sillogismo alla presentazione di tesi false che poi vengono confutate, alle quaestiones (v. ad es. I IV 5), all'incatenamento delle prove in ordine gerarchico ascendente o discendente, alla deduzione di tesi particolari da postulati metafisici generali, e così via. Tale apparato è naturalmente sorretto da un'utilizzazione di testi filosofici canonici che appare (nei limiti di un ‛ dilettante ' di filosofia qual è in sostanza D., e del carattere dell'opera) considerevole benché tutt'altro che esplicita: poiché fra le opere dottrinali di D. il De vulg. Eloq. è anzi la più avara di allegazioni di auctoritates in genere e filosofiche in ispecie (solo una, di Aristotele, in II X 1), per vari motivi tra i quali avrà certo il primo posto la coscienza, effettivamente fondata, della sostanziale novità della materia. A titolo puramente indicativo, e con l'avvertenza che le tesi dei ‛ classici ' potranno spesso essere filtrate attraverso i canali meno specialistici di raccolte di excerpta, compilazioni e divulgazioni enciclopediche, ecc., si possono segnalare le presenze, sicure o fortemente probabili, almeno dei seguenti filosofi e testi: naturalmente Aristotele, soprattutto per l'Etica e la Metafisica (mentre il luogo citato è della Fisica), tuttavia verosimilmente mediate in buona parte dai rispettivi commenti tomistici; s. Tommaso, con le due Summae, i maggiori commenti aristotelici e probabilmente altro ancora; e poi s. Agostino (almeno per il De Genesi ad litteram, mentre il Marigo ha supposto in genere un sostrato prevalentemente agostiniano per tutta la trattazione della prima storia del linguaggio umano), il Liber de Causis, i Libri sententiarum di Pietro Lombardo, e meno tangibilmente altri testi, dalla Consolatio boeziana al De Regimine Principum di Egidio Colonna; in altro settore, va segnalata la dipendenza, forse non diretta, di buona parte delle nozioni geografiche del trattato da Orosio. Accanto a quest'influssi, sono frequenti le spie significative di un'informazione attinta alla letteratura enciclopedica di cui sopra: già parecchie nozioni, non solo lessicali e retoriche, saranno state ricavate da ‛ dizionari enciclopedici ' d'uso corrente, dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia alle Magnae Derivationes di Uguccione da Pisa soprattutto, di cui è certissima anche qui la massiccia presenza; ma molto largo sarà il debito verso il Tresor di Brunetto, e altamente probabile in almeno un caso la dipendenza dall'enciclopedia di Vincenzo di Beauvais, i cui suggerimenti vengono anzi caratteristicamente contaminati con quelli tomistici (v. ANGELO: Lingua).
Ma più centrale è ovviamente il problema dei rapporti del De vulg. Eloq., ferma restando la novità delle sue impostazioni e conquiste, con la precedente tradizione retorica, antica e recente. Non vi è dubbio che D. ha fatto a fondo i conti con essa, come rivela anzitutto la sua capacità di dominarne e svilupparne con sicurezza non solo le categorie concettuali, ma il più specifico apparato terminologico, che diviene anzi spesso stimolo a brillanti escursioni stilistiche e variazioni lessicali e semantiche, incentivo all'immaginazione che converte il tecnicismo in metafora e immagine viva (basti pensare alla concentrata suite di topoi retorici energicamente rivissuti della pagina proemiale dell'opera, I I 1). E non manca la possibilità d'individuare, con certezza o forte probabilità, un manipolo di letture precise di testi che influenzano dottrina e soprattutto linguaggio del trattato. Pur con tutte le cautele metodologiche del caso, rese ancor più necessarie dalla grande uniformità non solo concettuale ma verbale di tale tradizione, sembrano innegabili riflessi precisi dei manuali di ars dictandi di Bene da Firenze, e forse della Summa di G. Fava (oltre naturalmente all'influsso delle pagine di retorica di Brunetto), e d'altra parte delle poetriae di Matteo di Vendôme, Goffredo di Vinsauf, Giovanni di Garlandia. Una cultura che presupporrà, al di là di Firenze, contatti col fertile ambiente bolognese, e che in ogni caso attesta " la non provincialità dell'informazione di Dante " (G. Nencioni, D. e la retorica, in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 93). S'intende che come sfondo, e base, della dottrina valgono anche per D. i sacri testi della retorica antica, dalla Rhetorica ad Herennium, al De Inventione all'Ars poetica di Orazio (e quest'ultima, come poi in Ep XIII, è l'unica auctoritas in materia che venga citata: II IV 4), così come il fondamento delle nozioni grammaticali del trattato (v. in ispecie II VII), peraltro comuni, saranno sempre le Institutiones di Prisciano (di cui l'apertura del De vulg. Eloq. ricalca quasi certamente l'analogo attacco dell'epistola dedicatoria: " Cum omnis eloquentiae doctrinam et omne studiorum genus sapientiae luce praefulgens a Graecorum fontibus derivatum Latinos proprio sermone invenio celebrasse ", ecc.). Ma è necessario insistere sul fatto che, nel concreto della tematica e della terminologia (spesso costruita su elementi biblici e comunque della tradizione religiosa medievale), il De vulg. Eloq. si muove totalmente nell'ambito della cultura retorica recente, mettendone come s'è visto a frutto entrambe le correnti dominanti, quella dell'ars dictaminis e quella delle poetriae. Alla prima l'opera di D. è legata dalla sua stessa struttura formale, in una prosa latina elaborata secondo i canoni dettatori (v. ad es. CURSUS), nonché dal progetto di una trattazione pure del volgare prosastico (mentre, come si è accennato sopra, anche allo stato attuale il De vulg. Eloq. mostra chiari segni di una problematica retorica che abbraccia insieme poesia e prosa); alla seconda chiede soprattutto una legittimazione del suo programma fondamentale di regolamentazione retorica della poesia, e addirittura poesia volgare, di cui va esattamente valutata l'audacia culturale all'interno di una tradizione retorica come quella italiana che, in quanto strettamente legata al diritto e d'altra parte alla pratica politica comunale, era dominata dall'interesse per la prosa e l'eloquenza civili. Del resto proprio la questione dei rapporti prosa-poesia, e della relativa gerarchia di merito, già posta nella recente tradizione retorica (da Boncompagno a Bene e a Brunetto), con riflessi anche nella cultura letteraria volgare (si vedano le cautele verso la poesia espresse, nell'ambito di un'utilizzazione ‛ didattica ' della letteratura, nel Tesoretto di Brunetto, specialmente vv. 411 ss., o nel Reggimento di Francesco da Barberino, ediz. Sansone, 6), ha un posto cospicuo nella riflessione di D. in questi anni. Estremamente caratteristica l'ambivalenza in proposito del Convivio, che da un lato afferma la maggior capacità della prosa, non complicata dalle accidentali adornezze del verso, di portare in luce la gran bontade del volgare di sì; dall'altro riconosce pure che esso volgare più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime (I X 12 e XIII 6; e v. ORNATUS). Si capisce che tale ambivalenza è connessa necessariamente alla natura del Convivio, edificazione di una nuova e robusta prosa volgare; altrettanto coerentemente al suo proprio scopo, e senza dubbio tirando le somme della storia letteraria italiana del '200, dove la poesia era giunta a ben altra maturità espressiva e continuità di tradizione, il De vulg. Eloq. prende posizione in merito, con la dichiarazione (II I 1) della necessaria priorità della trattazione del volgare illustre poetico, quia ipsum [il volgare] prosaycantes ab avientibus [i poeti] magis accipiunt, et quia quod avietum est prosaycantibus permanere videtur exemplar, et non e converso (quae quendam videntur praebere primatum). E tutto il peso della costruzione del volgare illustre grava (almeno per quanto D. ha scritto nel trattato) sulle spalle dei doctores illustres italiani che hanno altamente poetato (v. ILLUSTRE).
Va però fortemente sottolineato che, benché l'attenzione di D. sia prevalentemente puntata, e col relativo corredo di tecnicismo dottrinale, sul tema del linguaggio poetico più alto, ciò non comporta affatto, a differenza che nelle poetiche mediolatine, chiusure specialistiche e aristocratiche nel recinto di un codice linguistico ‛ separato '. Come esso è inquadrato in una problematica, diciamo, di ‛ linguistica generale ', così, e a maggior ragione, le implicazioni che lo collegano al problema più ampio, civile e politico, della lingua d'uso degl'Italiani, sono strette e teoreticamente necessarie. Correlativamente, al di là dei lettori dotti e specializzati cui il trattato si rivolge più direttamente (da cui anche la decisione di scriverlo nella lingua dei clerici, il latino), è per un pubblico di utenti più vasto e democraticamente concepito che esso intende in ultima analisi servire. Sostanzialmente, la posizione di apertura verso i laici è la stessa vigorosamente espressa nelle pagine iniziali del Convivio, e le premesse culturali di tale concezione democratica e civile dell'insegnamento della retorica sono da cercare naturalmente non già nei teorici curiali delle artes e ancor meno nelle poetriae, ma nell'atteggiamento di chi aveva già saputo cogliere le naturali conseguenze laiche e democratiche della teorizzazione di una lingua letteraria e di una retorica volgari e non più latine: come il Ramon Vidal delle Razos (si pensi al passo dell'introduzione, così affine a certi danteschi, sulla disponibilità di " totas genz ", da " emperador, rei, princep " giù giù fino a " borgues " e " vilan ", ad apprendere le regole della poesia in volgare), e soprattutto Brunetto, benché in lui l'ambito dei fruitori del suo insegnamento retorico in funzione civile sia più ristretto di quello dantesco tanto in senso sociale che ‛ geografico ' (in sostanza la classe dirigente borghese del comune fiorentino). L'impostazione aperta e complessa del problema dell'eloquentia volgare è chiarissima fin dalla pagina proemiale dell'opera, in cui si asserisce che attraverso l'insegnamento delle sue norme lo scrittore tenterà di locutioni vulgarium gentium prodesse, dato che vede talem... eloquentiam omnibus necessariam... cum ad eam non tantum viri, sed etiam mulieres et parvuli nitantur, in quantum natura permictit. Sicché del volgare illustre viene poi sottolineata, da una parte, la natura di culmine gerarchico della scala dei volgari italiani, dall'altra però quella di unità di misura e di polo di orientamento di quegli stessi volgari dispersi e municipali, come appare soprattutto nei capp. I XVI e XVIII (v. CARDINALE; ILLUSTRE; PANTERA). Ancor più rilevante concettualmente è l'esplicita importanza politica che il De vulg. Eloq. attribuisce all'unificazione linguistica degl'Italiani che si compie (o può compiersi) nel e attraverso il volgare illustre, inaugurando un atteggiamento specifico dell'intellettualità italiana, che necessariamente ha identificato a lungo nella propria unità linguistico-culturale la sola manifestazione effettiva di unità nazionale e insieme il nocciolo e la premessa di un'autentica realizzazione, a livello politico e sociale, di quest'ultima. Parlano chiaro al proposito le nozioni di volgare aulico e curiale di VE I XVIII, con le quali l'unitario volgare illustre è visto come espressione dell'esistenza, potenziale ma in certo modo già tangibile, di strutture giuridico-politiche unitarie dell'Italia, sul modello di quelle nazioni in cui un'unità linguistica scaturiva già da aulae e curiae effettivamente funzionanti, da una reale compattezza politica; e il rapporto tra processo di unificazione politica, creazione di un'alta cultura e nascita del volgare illustre era del resto perfettamente a fuoco nel precedente cap. I XII in cui è lapidariamente enunciata l'acuta interpretazione storica del nesso necessario tra l'azione politica di Federico II e di Manfredi, la formazione della Magna Curia e quella del primo linguaggio unitario italiano. La pressione di questi interessi politico-nazionali, tipica del D. fatto ‛ italiano ' dall'esilio, e che si manifesta con maggiore evidenza nel quarto libro del Convivio, è dunque un elemento fondamentale e portante del pensiero linguistico del De vulg. Eloquentia. E fuori del quadro di questi interessi è difficile intendere uno dei più forti enigmi concettuali del trattato, cioè l'ambivalenza e oscillazione della nozione di volgare illustre, ora lingua eccezionale dello stile più alto della lirica (e prosa), ora volgare unitario degl'Italiani senza più (v. ILLUSTRE).
Ma il De vulgari Eloquentia è soprattutto l'opera di un letterato impegnato in una sua poetica e politica culturale. Di qui una delle maggiori novità dell'opera rispetto alla trattatistica medievale congenere, e una delle ragioni fondamentali del suo valore istituzionale nella storia della nostra cultura letteraria: cioè il fatto che il momento della normatività linguistica e stilistica scaturisce da un'impostazione di critica e storia letteraria, non solo italiana ma romanza, mordente e di ampio respiro. Il De vulg. Eloq. è il primo e forse il più grande esempio di critica militante di uno scrittore italiano (si sa pensare, per un pendant non inadeguato, alle sole Prose bembiane); nello stesso tempo, per la capacità di obiettivarsi e di risolvere in universali i dati della propria esperienza, che appartiene in sommo grado a D., l'opera sa fornire, come più tardi le pagine ‛ letterarie ' della Commedia, un quadro storiografico concreto della civiltà letteraria e soprattutto poetica che l'ha preceduta di straordinaria ricchezza e di sostanziale verità. Così da un lato l'enunciazione delle norme è sempre saldamente fondata su precisi giudizi di valore, stilistico ed etico-intellettuale, dei poeti che le esemplificano, dall'altro la polemica letteraria (tipicamente quella contro Guittone), che pur continua le querelles tra scuole poetiche vivacissime nello scorcio del '200 italiano (polemica Bonagiunta-Guinizzelli, critica di Cavalcanti a Guittone, rapporti tra Onesto bolognese e Cino), trae forza e si direbbe ineluttabilità dall'ampiezza e oggettività della ricostruzione storiografica in cui s'inserisce. E della civiltà letteraria D. ha una concezione vivamente dinamica e temporale, storicistica (che si esprime anzitutto nell'ordinamento cronologico dei canoni poetici), aliena dallo statico quadro di auctoritates in cui ovviamente si muovono le retoriche mediolatine, e dalla stessa forma mentale dei trattatisti provenzali, proclivi assai più a estrarre canoni immobili dall'esperienza trobadorica che a storicizzarla.
Già è istituzionale per la nostra visione della letteratura del '200 il modo della ricostruzione dantesca di quel panorama, imperniato certo da un lato sull'asse temporale, ma dall'altro su quello geografico, con l'individuazione di esperienze letterarie e scuole specifiche delle singole città e ‛ regioni '. Ciò è evidente non solo nella rassegna dialettale dei capp. I XI-XV, che va vista soprattutto come rassegna delle rispettive letterature, a rintuzzarne acremente l'intentio (I XIII 1), la presunzione di rappresentare un'esperienza culturale valida pur restando limitate all'ambito linguistico e intellettuale del municipio o della regione; ma nella stessa enucleazione di gruppi di poeti illustri che è pur sempre individuazione di scuole regionali (‛ siciliana ', bolognese, fiorentina, ecc.), benché certo convergenti per D. in risultati linguistici sovramunicipali e unitari (il volgare illustre): con le parole di C. Dionisotti (Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, 31), " la lezione del De Vulgari è in breve questa: un'esigenza unitaria, di un'ideale unità linguistica e letteraria, proposta e richiesta a una reale, frazionata varietà, un'unità insomma che supera, ma nello stesso tempo implica questa varietà ". Al di là di questa prospettiva ‛ geografica ', che si mostra metodologicamente sempre più valida, è la sostanza stessa della sistemazione storiografica dantesca, tra De vulg. Eloq. e Commedia, e spesso la sua cernita di valori, ad apparirci sempre più chiaramente la base istituzionale della moderna ricostruzione del nostro Duecento poetico. Basti un elenco essenziale di nozioni-chiave della storiografia letteraria di D. che stanno senz'altro alla base delle nostre: così quella di ‛ scuola siciliana ' come unità dei poeti, non solo siciliani, che fanno capo alla curia di Federico II e Manfredi e ne riflettono l'unità culturale; quella di un gruppo compatto di poeti ‛ illustri ' fiorentino-pistoiesi (lasciando stare quanto vi è di arbitrario nell'attribuzione a tale gruppo dell'etichetta di dolce stil novo presentata in Pg XXIV 57); e, tra queste due ‛ scuole ', la serie dei siculo-toscani (condannati da D. come municipali) e il gruppo dei bolognesi attorno al gran Guinizzelli, lodati invece come illustri (su cui, specie per la figura più notevole di Onesto, si è di recente incominciato a far maggiore luce). Oppure, sul piano del recupero recente di ‛ valori ' indicati da D., basterà pensare a come oggi facciano spicco ai nostri occhi, tra i siciliani, poeti sviliti dalla critica ottocentesca a favore di colleghi più facili, e invece proclamati eccellenti dall'esatto gusto stilistico dantesco, Iacopo da Lentini e Guido delle Colonne. L'acume storico e critico di D. non è minore, pur nei limiti ben più notevoli dell'informazione, per l'ambito letterario non italiano: ad attestarlo sta la felicissima scelta e caratterizzazione degli esponenti più validi della poesia trobadorica a lui nota, e sta anche quel panorama della letteratura francese di I X 2, che naturalmente è ben lungi dal restituircene l'oggettiva ricchezza e importanza, ma che, nella sua parzialità (non priva di polemica), coglie con grande precisione i canali fondamentali del massiccio influsso di quella cultura letteraria sulla cultura italiana (prosa romanzesca arturiana, compilazioni storiche e dottrinali). E vedi, per un esame più ampio di quanto da ultimo accennato, le trattazioni dedicate ai testi e poeti citati nel De vulgari Eloquentia. Infine, sul versante degli aspetti più tecnici della critica e retorica dantesca, va dato il necessario rilievo alla sezione (Ve II VIII ss.) relativa a una dettagliata (seppur mutila) dottrina metrica della canzone romanza: la prima cronologicamente, per la quale D. appresta, adattandola profondamente dal linguaggio tecnico delle artes metriche e ritmiche medio-latine, un'apposita terminologia che è pure divenuta in gran parte istituzionale, e nella quale tra l'altro si tiene strettamente conto, come non avverrà più nella successiva trattatistica di metrica volgare, del rapporto condizionante degli schemi metrici con quelli musicali. In tutti i suoi aspetti salienti, e soprattutto in virtù della loro organica interrelazione, il De vulg. Eloq. è dunque veramente, come è stato detto, la magna charta della nostra lingua e letteratura.
Bibl. - Edizioni: Il trattato " De vulgari eloquentia " di D.A., per c. di P. Rajna, Firenze 1896 (e ristampa stereotipa, Milano 1965); ID. (ediz. minore), ibid. 1897; Dantis Alagherii de vulgari Eloquentia Libri II, a c. di L. Bertalot, Friedrichsdorf (Francoforte) 1917, e Ginevra 1920; De vulgari eloquentia, a c. di P. Rajna, in Le opere di D., Firenze 1921 (e ristampa 1965), 317-352; ID., in Le opere di D.A., a c. di E. Moore... nuova ediz. riveduta a c. di P. Toynbee, Oxford 1924 (e ristampa 1963), 377-400; De vulg. Eloq., a c. di A. Marigo, Firenze 1938 (3ª ediz. con appendice di aggiornamento, a c. di P.G. Ricci, ibid. 1957) - fra le recensioni cfr. almeno quella di G. Contini, in " Giorn. stor. " CXIII (1939) 283-293; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, I. Introduzione e testo, Padova 1968; altre edizioni anteriori a questa, e successive all'ediz. Marigo, riproducono in genere quest'ultima (p. es. D.A., De vulg. Eloq. Testo latino con versione a fronte di E. Parlanti. Introduzione e note di U. Masetti, Bologna 1951); fra le edizioni parziali fa spicco: D. e il volgare illustre italiano (Testo del De vulg. eloq. 110-19), a c. di S. Pellegrini, Pisa 1946, poi (senza discussione testuale) in " Studi Mediolat. e Volg. " VIII (1960) 155-163, e in S. Pellegrini, Saggi di filologia italiana, Bari 1962, 78-88; e v. anche quella a c. di B. Nardi, in Grande Antologia Filosofica, IV, Milano 1954, 1191-1198. Per il commento e la traduzione è sempre fondamentale l'ediz. Marigo; cfr. inoltre: D.A., Über das Dichten in der Muttersprache, a c. di F. Dornseiff e J. Balogh, Darmstadt 1925, e D.A., Oeuvres complètes, a c. di A. Pézard, Parigi 1965, 551-630.
Interpretazione: ci si limita qui a indicare i principali lavori d'interpretazione complessiva dell'opera; altre indicazioni bibliografiche, pur se importanti, relative a problemi o sezioni particolari di essa, si troveranno, oltre che nel testo del presente articolo, sotto le voci principali che riguardano il De vulg. Eloq. (a molte delle quali si è rimandato esplicitamente). E. Boehmer, Über Dantes Schrift ‛ De vulg. Eloq. ' nebst einer Untersuchung des Baues des Danteschen Canzonen, Halle 1868; F. D'Ovidio, Sul trattato ‛ De vulg. Eloq. ', in " Archivio Glottologico Italiano " II (1873) (poi in Versificazione romanza. Poetica e poesia medievale. Seconda parte [Opere di F. D'Ovidio, IX Il], Napoli 1932, 217-332; P. Rajna, Introd. e note all'ediz. maggiore cit.; ID., Il trattato ‛ De vulg. Eloq. ', in Lectura Dantis. Le opere minori di D.A., Firenze 1906, 195-221; ID., in D. - La vita - le opere - le grandi città dantesche. D. e l'Europa, Milano 1921, 77-86; S. Santangelo, D. e i trovatori provenzali, Catania 1921 (2ª ediz. riveduta, ibid. 1959; Zingarelli, Dante I 565-590 (e già prima D., Milano s.d. [ma 1903] 405-420); A. Marigo, ediz. cit.; F. Di Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Napoli 1945 (poi in Scritti minori, Roma 1959, II 252-355); B. Terracini, Il ‛ De vulg. Eloq. ' e le origini della lingua italiana, Torino 1948 (dispense universitarie); G. Vinay, Ricerche sul De vulg. Eloq., in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959) 237-274, 367-388; ID., La teoria linguistica del ‛ De vulg. Eloq. ', in " Cultura e scuola " 5 (settembre-novembre 1962) 30-42; R. Dragonetti, Aux frontières du langage poétique (Études sur D., Mallarmé, Valéry), Gand 1961 (" Romanica Gandensia " IX) 9-77; A. Schiaffini, Interpretazione del ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Roma 1963 (dispense univ.); G. Favati, Osservazioni sul De vulg. Eloq., in " Annali Facoltà Lettere Filosofia e Magistero Università di Cagliari " XXIX (1961-65) 151-213; I. Baldelli, Sulla teoria linguistica di D., in " Cultura e scuola " 13-14 (gennaio-giugno 1965) 705-713; M. Pazzaglia, Il verso e l'arte della canzone nel De vulg. Eloq., Firenze 1967; P.V. Mengaldo, ediz. citata. Si aggiungano, per quanto riguarda il titolo: A. Marigo, Un nuovo titolo del ‛ De vulg. Eloq. ' e un'antica postilla critica, in " Nuovi Studi Medievali " II (1925-26) 125-130; P. Rajna, Approcci per una nuova edizione del ‛ De vulg. Eloq. ', in " Studi d. " XIV (1930) 5-9; per la fortuna dell'opera, oltre ai lavori generali sulla fortuna di D. nei vari secoli (Cavallari, Rossi, Barbi, Limentani, ecc.), che in genere non danno molto: S. Debenedetti, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, in " Zeit. für Romanische Philol. " XXVIII (1904) 50-93; ID., Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911; P. Rajna, in " Bull. " n.s., XIII (1906) 97 ss.; ID., ibid. n.s., XXV (1918) 146; ID., Quando fu composto il ‛ Cesano '?, in " La Rassegna " s. 3, II (1917) 107-137; C.S. Gutkind, Die handschriftliche Glossen des Iacópo Corbinelli zu seiner Ausgabe der ‛ De vulg. Eloq. ', in " Archivum romanicum " XVIII (1934) 19-120; S. Lattès, La conoscenza e l'interpretazione del ‛ De vulg. Eloq. ' nei primi anni del Cinquecento, in " Rendic. Accad. Archeol. Lettere e Belle Arti Napoli " n.s., XVII (1937) 157-168; A. Marigo, in " Studi d. " XXIII (1938) 126 ss.; G. Billanovich, Nella tradizione del De vulg. Eloq., in Prime ricerche dantesche, Roma 1947, 13-19; ID., La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla Lettera di Ilaro al Trattatello in laude di D., ibid. 21-86 (poi, ritoccato, in " Studi d. " XXVIII [1949] 45-144; M. Aurigemma, Il giudizio degli antesignani dell'Umanesimo e degli umanisti sul valore e sulle caratteristiche della " Latinitas " di D., in D. e Roma, Firenze 1965, 153- 187; ID., D. nella poetica linguistica del Trissino, in " Ateneo Veneto " (fasc. speciale per il VII centenario dantesco 1265-1965) 165-212; G. Piccitto, Il capitolo XII del I libro del De vulg. Eloq. nell'interpretazione di C.M. Arezzo (1543), in Atti del Convegno di Studi su D. e la Magna Curia, Palermo 1967, 381-412.