DE SCOLARI, Francesco Feliciano
Nacque, intorno all'anno 1470, a Lazise (prov. Verona) sul lago di Garda, da Domenico. Giovanissimo, forse già al decimo anno d'età, si trasferì nella città di Verona, che da allora divenne la sua fissa dimora. Qui stabilì la sua abitazione, prima in contrada S. Marco, poi in contrada S. Cecilia; formò, probabilmente, la sua famiglia - di sicuro ebbe una figlia che andrà in moglie ad un maestro Antonio veronese - e, per certo, vi iniziò e svolse la sua carriera, quella di "maestro d'abbaco". Spese dunque il suo tempo tra l'insegnare l'aritmetica ("insegnare a putti, et a huomini a contegiare"), l'eseguire lavori di agrimensura, che lo portarono a viaggiare "quasi per tutta l'Italia a misurare in compagnia, e senza compagnia de misuratori, terre, feni, biave, vini, muri, boschi, paludi, & livelar acque, e simil cose...", e l'operar da consulente su problemi concernenti le società commerciali o i cambi, attività tutte che costituivano il variegato insieme delle "competenze" che erano peculiari, e richieste, allora, a chi esercitava quell'unica medesima professione.
A Verona tenne pubblica scuola, probabilmente succedendo, già nei primissimi anni del '500, al maestro Battista, figlio di quel Baldassarre che, in quella cattedra, a partire dall'anno 1437, aveva iniziato la serie degli insegnanti veronesi, dopo la lunga teoria dei maestri toscani. Dunque, probabilmente, ciò avveniva per incarico del Consiglio comunale, ratificato dal podestà e accettato dai vicari e consoli della Domus mercatorum, cui spettava la remissione del salario: per certo, nell'anno 1533, tenne le sue lezioni nel palazzo della Ragione, su piazza dei Signori. Qui il D. "insegnava leggere, scrivere, sumare, sottrarre e far conti d'ogni sorte, et altro che apertiene alle mathematice" e, per altro, si era anche preso la briga di provvedere egli stesso, "a tutte sue proprie spese", alla preparazione dell'aula, circoscrivendo e allestendo lo spazio assegnatogli con "uno seraglio di asse, & travi".
Allora era ormai conosciuto con i soli suoi due nomi di Francesco Feliciano, accompagnati soltanto, talvolta, dalla qualifica "dall'abbaco" e se questa era, in effetti, una consuetudine ritenuta sufficiente ad individuare i maestri di quella professione, in ragione di una considerazione, e dunque di una notorietà, che venivano loro tributate, nel suo caso la fama era stata raggiunta da tempo anche per altre vie. Si era infatti già imposto all'attenzione degli specialisti pubblicando a Venezia, nel 1517, il Libro de abaco ("per Nicolo Zopino e Vincentio suo compagno") - dove, per l'unica volta, forniva per esteso il suo nome, facendovi seguire "q. dominici de scholaribus" - e, nel 1527, il Libro di arithmetica & geometria speculativa & praticale ... Intitulato Scala gramaldelli ("per Francesco di Alessandro Bindoni & Mapheo Pasini"), opere che si rivelarono di grande fortuna, testimoniata dalla serie cospicua delle edizioni successive a quegli anni ed anche postume.
D'altra parte ben chiare si definivano le ragioni di questo successo, anche se, proprio per enfatizzarle, il D. principiava la sua seconda e più esaustiva opera con l'allegoria di un sonetto, di ausilio alla comprensione del criptico titolo, di cui scioglieva ancora la metafora dichiarando che il "libretto per lo suo alto ascendere, et obscure cose chiarire, è intitulato Scala gramaldelli; perché con la scala si ascende in alto, e con lo Gramaldello se apre li lochi serrati, & chiusi". Al di là dell'espediente retorico, di fatto, invece, egli affrontava e spiegava sempre con chiarezza tematiche e procedure sulle quali un ambiente in crescendo, sempre più coinvolto negli affari legati alla "mercatura", chiedeva di essere informato, e sulle quali, quindi, nel percorso tracciato da Leonardo Fibonacci (Liber abaci, 1202) e straordinariamente ampliato e divulgato dalla enciclopedia matematica di Luca Pacioli (Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità, Venezia 1494) cominciava ad infittirsi una letteratura "specialistica" scritta da anonimi e da autori illustri.
Il D. era comunque il primo matematico del Veronese a stampare su tali questioni come lo sceverare le varie operazioni aritmetiche e algebriche, che si rivelavano preziose per padroneggiare i problemi inerenti al commercio, come anche ridefinire l'insieme delle pratiche necessarie alla misurazione della terra che, per altro, erano particolarmente consone alle esigenze dell'attività scientifica veronese, il cui carattere pareva sempre più configurarsi per le applicazioni rivolte, a scopi pratici che servivano all'agricoltura e alla bonifica. Ed in questo specifico ambito i suoi studi si rivelavano innovativi e propedeutici alla precisazione, quindi all'autonomia, dell'arte della misura, un'"arte" fin'allora considerata parte integrante della geometria e che andava invece riletta quale oggetto di studio all'interno di discipline precipue come, ad esempio, l'ingegneria o l'agrimensura. Di qui la lucida disamina del D. permetteva di individuare quali fossero i limiti che ne inficiavano il progresso: questi erano da lui ascritti al pertinace, quanto fallace, ricorso, da parte dei misuratori, all'"arte di misurare con la vista" e, soprattutto, al discontinuo, imprevedibile, non razionale uso di uno strumento, lo squadro, che egli, invece, riteneva sempre indispensabile per una corretta, cioè precisa, misurazione della terra ("alcuni ce n'è pur che con lo Squadro o altro istrumento lavorano assai bene in quelli lochi che lo Squadro possono adoperare, e via da quello valeno poco o nulla, alcuni sono ancora che portano lo squadro od altro istrumento e poco e niente lo sanno adoperare. Or che diremo di quelli che misurano senza alcun istrumento, ma solamente con l'occhio dicendo, va de qua e de za, e questi sono quasi un numero infinito de' uomini da villa..."). Quindi, se il D. aveva già visto, per l'Italia, un'utilizzazione dello squadro, egli era il primo a menzionarlo in un testo, con il proposito di indicarlo come indispensabile per la "perticatura delle terre", esponendo, a tal fine, una estesissima casistica che dimostrava ad ogni pratico agrimensore come problemi di misurazione ritenuti insolubili, derivati, ad esempio, dalla impraticabilità o asperità dei luoghi, potevano essere risolti e, peraltro, con margini di precisione straordinariamente avanzati.
È su questi ed altri interessi che dovette basarsi la frequentazione di Niccolò Tartaglia, il quale svolgeva in Verona la medesima professione del De Scolari. A Verona, infatti, il Tartaglia si era trasferito fra il 1516 e il 1519 - rimanendovi poi fino al 1534 - e, almeno per gli anni 1529, '31 e '33, rimane testimonianza della sua attività di "magister Abbachi", che egli andò a esercitare in forma privata ed anche pubblica, stipendiato dalla Casa dei mercanti, nel palazzo dei Mazzanti, in piazza delle Erbe (1533). Attività, quindi, che, contemporaneamente, dovette trovarsi a svolgere, anche il D.: ipotesi certo non contraddittoria, in considerazione del fatto che, nella città, operavano due scuole pubbliche, l'una, in piazza delle Erbe, nella Casa dei mercanti, e l'altra nella limitrofa piazza dei Signori, nel palazzo della Ragione o in altro dei palazzi comunali. In ogni caso, negli anni a venire, il Tartaglia stesso forniva una prova di questa loro conoscenza, quando ricordava il D. nel novero dei suoi interlocutori, in uno dei periodi più cruciali delle sue controverse ricerche. E, nello specifico, egli ricordava i quesiti che gli aveva proposto il D., uno nel 1521 e due nel 1526, comunque tutti riconducibili ad equazioni di secondo grado, che erano poi tutte questioni che il Tartaglia trattava nel libro nono dei suoi Quesiti et inventioni diverse (Venezia 1546), lungo la storia di quella polemica sulla priorità della risoluzione dell'equazione di terzo grado che aveva costituito uno dei più accesi dibattiti matematici dell'epoca e che pareva avesse preso le mosse da un problema del maestro Giovanni de Tonini da Collio, che il Tartaglia era stato invitato a risolvere, proprio quand'era a Verona, nell'anno 1530.
D'altra parte anche nell'ambito delle scienze matematiche applicate, nello specifico della geometria pratica, dovevano ritrovarsi punti di confluenza degli interessi del D. con il Tartaglia. Ed infatti, se dopo la pubblicazione della Scala Gramaldelli del D., molti altri autori non facevano ancora menzione dello squadro, il Tartaglia, nel suo General trattato di numeri et misure (Venezia 1556-1560), al capitolo primo del terzo libro (Dell'istromento materiale, necessario a' misuratori di terreni, chiamato squadro, come se fabbrichi e si conosce se sia giusto), ne offriva un completo trattato. E se il Tartaglia sanciva l'importanza dello strumento attraverso un'ampia esposizione della casistica delle applicazioni, come già compiutamente era stato valutato e dimostrato dal D., rispetto a questi non ometteva il corredo di una analitica descrizione che ne permettesse anche la costruzione.
La morte colse il D. dopo il 1540. Di certo nel 1541: all'epoca di quel poderoso incendio che infiammò la piazza delle Erbe con le sue botteghe e buona parte del palazzo della Ragione, e dunque "tutta la scola, con li scabelli, & banche di sorte", l'onere economico e morale della ricostruzione della medesima fu assunto dal nipote Giacobbe, che gli era già successo, come dichiarava, nel ruolo di maestro d'abbaco. Si può, inoltre, dar fede a un documento che dice che "maestro Francisco de abacho in casa di Groppi morì adì 10 ottobre 1542" (Verona, Arch. di S. Anastasia, registro vivi e morti di S. Cecilia), ritenendo che tramandi giorno, mese ed anno del suo decesso.
Fonti e Bibl.: Il reperimento delle informazioni sulla vicenda biografica e sull'attività scientifica del D. è purtroppo ancora pesantemente penalizzato dalla frammentaria, discontinua e ripetitiva modalità delle citazioni a lui relative nei repertori di storia delle matematiche che, per altro, nella maggior parte dei casi, sono omissivi del suo stesso nome. Date le premesse, sarà utile la consultazione delle Storie della città di Verona - sicuro centro della sua attività professionale - che aiuterà a ricostruire il formarsi dell'insieme bibliografico, motivandone i limiti e illuminando i contorni di una ricerca che, pertanto, in merito al D., si profila squisitamente archivistica. A tale proposito, ad esempio, si cfr.: L. Moscardo, Historia di Verona, Verona 1668; S. Maffei, Verona illustrata, Verona 1731; fin'anche la recente Cultura e vita civile a Verona, a cura di G. P. Marchi, Verona 1979, di cui, in particolare, G. P. Marchi, Per una storia delle istituzioni scolastiche e pubbliche dall'epoca comunale all'unificazione del Veneto all'Italia, pp. 3-98 e, per il minuzioso censimento dei depositi librari e archivistici veronesi, G. F. Viviani, Per una "Bibliotheca bibliographica", ibid., pp. 701-739. Per una, seppur scarna, testimonianza diretta sul D., cfr. N. Tartaglia, Quesiti et inventioni diverse, facsimile dell'edizione del 1554, a cura di A. Masotti, Brescia 1959, ff. 98r, 99v-100r, 101r. I contributi fondamentali in merito allo studio dei documenti di archivio dai quali, per altro, emergono le informazioni necessarie alle ulteriori ricerche da compiersi presso l'Archivio di Stato di Verona e l'Archivio comunale di Lazise, sono forniti da V. Cavazzocca Mazzanti, Un matematico di Lazise (F.F.D.), Verona 1909, estratto dall'Adige, anno XLIII, nn. 356, 357, 359; anno XLIV, n. 1, - articolo di non facile reperibilità al di fuori delle biblioteche veronesi - e da E. Garibotto, Le scuole d'abbaco a Verona, in Atti e mem. dell'Accademia di agricoltura, scienze e lettere di Verona, s. 4, XXIV (1923), pp. 315-328. Per alcuni aspetti specifici cfr.: J.-C. Brunet, Manuel du libraire et de l'amateur des livres, Paris 1861, II, coll. 1203 s.; B. Boncompagni, Intorno ad un trattato d'aritmetica del 1478, in Atti dell'Accademia pontif. dei Nuovi Lincei, XVI (1863), p. 412; P. Riccardi, Biblioteca matematica italiana, Milano 1952, I, coll. 19-23; II, col. 88; Elenco delle opere di computisteria e ragioneria venute alla luce in Italia dal 1202sino al presente, a cura del Ministero del Tesoro, Ragioneria generale dello Stato, Roma 1886, pp. 19 s.; G. Rossi, Groma e squadro ovvero storia dell'agrimensura italiana dai tempi antichi al secolo XVII, Roma-Torino-Firenze 1877, pp. 115-129 e nota X, 211 s.; M. B. Cantor, Vorlesungen über Geschichte der Mathemathik, Leipzig 1913, II, pp. 481, 525.