De pecunia. Chiesa, cattolici e finanza nello Stato unitario
De pecunia. Detto così potrebbe apparire il titolo di una delle numerose prediche di Bernardino da Siena tenute nella piazza del Campo. Fortunatamente non è così. Ma, per ironia della sorte, il tema è molto simile: il rapporto tra la religione e il denaro, cioè la ricchezza tanto cercata quanto vituperata. Quasi sempre si utilizza il termine denaro come sinonimo di moneta. L’uso sinonimico corrente distrae dalla differenza insita nei due termini e per evitare disquisizioni sottili1 preferiamo utilizzare il termine finanza, forse non meno ambiguo, ma di più facile e diffusa comprensione. Infatti, per comodità espositive assumeremo che il termine finanza significhi tutte le diverse attività che per mezzo, ma non esclusivamente, dell’intermediazione bancaria consentono di acquisire e/o distribuire risorse monetarie e creditizie2. Un mix di moneta, denaro, capitale e banca.
Terminologia a parte, la finanza non ha mai goduto, nel passato, di grande stima, legata a pratiche monetarie e creditizie sottoposte invariabilmente ai vincoli della religione, ma indispensabile per le attività economiche. Per molti secoli finanza e religione hanno costituito le due facce di una stessa medaglia e, ancor oggi, a fronte di performance finanziarie che lasciano perplessi, le riflessioni sulle regole che devono muovere i mercati finanziari ritornano a interrogarsi sul possibile ruolo della religione e, in modo particolare, del cristianesimo3. Riflessioni legittime e convenienti, a patto di non soffermarsi soltanto sull’esegesi dei testi paolini e della patristica4. È necessario riconsiderare, sul filo della storia, i rapporti tra cristianesimo e capitalismo senza dimenticare che la Chiesa fu ed è, ancor più dopo il 1870, uno Stato capitalistico per eccellenza, come tenteremo di mostrare sia pure per brevi cenni. La sua continuità e le sue plurisecolari metamorfosi nel settore finanziario hanno avuto un peso storico non indifferente in tutti i continenti.
Un’analisi di questo tipo esula dagli obiettivi di questo saggio che, al contrario, si concentrerà sul rapporto tra l’impegno finanziario dei cattolici nello Stato unitario e la presenza della Chiesa intesa come organizzazione gerarchica e come soggetto finanziario.
Vi sono alcuni interrogativi che costituiscono altrettanti nodi di analisi. Il primo interrogativo costituisce il filo rosso di tutto il saggio: quanto pesò sul cattolicesimo del nostro paese, in campo bancario e finanziario, l’influenza della Chiesa come attore di non secondaria importanza dopo il 1870? Da questo discendono, per ovvi motivi di spazio, solo alcune tematiche particolari: quale fu il ruolo della Santa Sede nelle attività del movimento cattolico e del Partito popolare italiano, nella nascita e nello sviluppo del Banco di Roma, nel salvataggio delle banche dei cattolici durante la crisi degli anni Trenta? questa tutela si dissolse nel secondo dopoguerra?
L’impegno e le attività dei cattolici nel settore finanziario durante il periodo unitario non possono prescindere dalla presenza e dagli insegnamenti della Chiesa, come gerarchia e come guida spirituale e sociale. Per un motivo molto semplice: nell’arco di due millenni le attività economiche sono state costantemente sotto la lente del cristianesimo, un controllo sicuramente non sempre benevolo, attento ai risvolti morali delle pratiche commerciali, bancarie e finanziarie. Con un paradosso costituito dalla natura stessa della Chiesa. Da un lato istituzione proiettata alla salvezza dell’umanità, dall’altro organizzazione finanziaria, oltre che politica, di notevole peso.
Gabriel Le Bras affermava che
«dalla predicazione di Gesù, il cristianesimo si sforza di conquistare la terra di cui guadagna a poco a poco i minimi recessi. Ovunque trova possibilità di vita, la Chiesa si installa, moltiplicando le fondazioni che garantiscono la sua missione spirituale e la sua potenza. Presto, la sua forza di espansione e di attrazione le procura un vero e proprio impero»5.
Impero, dunque. Un termine continuamente ripreso. A proposito di Leone XIII, Roger Aubert scriveva:
«Uomo legato alla tradizione, Leone XIII, provava nostalgia per la Res publica christiana, compresa una certa concezione imperialistica dell’azione della Chiesa verso la società. La sua teologia politica era pronta ad ammorbidirsi […] ma la prospettiva finale del suo ideale pastorale restava una prospettiva di cristianità: la supremazia della Chiesa sul mondo nel campo religioso, ma anche in quello politico e sociale»6.
Intendiamoci: non un impero politico-militare, mai realizzatosi, ma un impero religioso-finanziario di non scarsa rilevanza. Alle tutte e tre rivoluzioni acutamente indagate da Carlo M. Cipolla7 – comunale, scientifica, industriale – la Chiesa ha partecipato a vario titolo. Ai contenuti finanziari della prima e della terza la Chiesa si è opposta nella teoria, ma non nella prassi. Contro quelli scientifici della seconda ha schierato l’Inquisizione. Chiesa universale in tutti i sensi. Temporale e universale, strettamente coincidenti nella figura del pontefice, sono prerogative non scomparse neppure dopo il Concordato del 1929. Lo Stato della Città del Vaticano, ancorché minuscolo per estensione, rappresenta pur sempre l’elemento temporale mentre la Santa Sede la vocazione religiosa universale. In altri termini, l’organizzazione finanziaria della Chiesa costituisce un Sacred Trust8, compiutamente realizzatosi dopo il 1870.
Gli studi hanno ampiamente sottolineato il rapporto della Chiesa con le varie forme di capitalismo, anche se non sempre tutto si è svolto per il meglio. Le necessità finanziarie determinarono esigenze e urgenze, spesso drammatiche, riassumibili nelle parole che sul letto di morte papa Bonifacio IX sembra abbia pronunciato: «Se avessi denaro mi sentirei meglio»9. Con le perdite territoriali, la Chiesa si è trovata proiettata nell’unica dimensione possibile di capitalismo: quella finanziaria. Priva di un’adeguata base fiscale ed economica, la Chiesa può contare quasi esclusivamente su entrate provenienti da investimenti mobiliari, da rendite immobiliari e dalle offerte dei fedeli. I costi dei servizi religiosi rappresentano una porzione poco significativa. La Chiesa, però, si avvale di un immenso ‘mercato’ religioso godendo di una posizione pressoché monopolistica10.
La solidità e la continuità della presenza della Chiesa nella storia sono supportate dalla sua linea politica. In due millenni di storia, la teologia politica11 della Chiesa si presenta articolata in tre forme. La prima – denominata costantiniana-eusebiana – prevede che lo Stato cristiano si avvalga della forza del potere dell’imperatore, in qualità di vicario di Cristo incaricato di un obiettivo ben delineato: l’universalizzazione dell’impero cristiano. Per Eusebio di Cesarea, Augusto è il naturale compimento delle profezie messianiche dell’Antico Testamento. La seconda si rifà a Gelasio I e diverrà il fondamento della teocrazia medievale. La teoria delle due spade sarà la base di una lunga serie di scontri tra potere politico e potere religioso. La plenitudo potestatis possiede anche un valore giurisdizionale totalizzante e rappresenta il fondamento dell’ordine giuridico e sociale del mondo intero, finanza compresa. La terza forma è la conseguenza delle due città di Agostino. La Chiesa e lo Stato sono le loro incarnazioni storiche e i loro scontri sono la norma della storia dal momento che non vi è una separazione materiale, ma solo formale e simbolica. Queste tre forme di teologia politica possono racchiudersi in tre formule: un impero senza Chiesa, una Chiesa con impero e una Chiesa senza impero12.
Con opportuni adattamenti, i tre schemi saranno utilizzati dalla Chiesa ben oltre l’Ottocento, come si vedrà in seguito. Ciò che conta rimarcare, nell’ottica del nostro lavoro, è la presenza della rete del cristianesimo nelle storia della finanza europea e non solo.
La nostra stessa storia unitaria, da Pio IX a Benedetto XVI, è segnata da pontefici di grande forza che hanno inciso, e incidono, con maggior o minore vigore, anche nelle vicende finanziarie. Di contro, l’apporto dei cattolici alla costruzione politica dello Stato unitario ha subìto vincoli religiosi che hanno impedito una loro presenza organica nelle aule parlamentari per circa mezzo secolo. Più libero, ma più tormentato, fu il loro impegno nelle realtà politiche e socio-economiche locali, sulle quali bisognerà tornare.
Nella formazione del sistema bancario e finanziario italiano non si distingue l’apporto di cattolici organizzati deliberatamente per queste finalità13. Solo l’ala intransigente dell’Opera dei congressi si occuperà specificatamente di casse rurali, banche popolari e altri istituti di minor peso con esiti sicuramente positivi. Ma siamo ai piani bassi. Ai piani alti riesce difficile cogliere la presenza organizzata dei cattolici. Persone o gruppi, operanti in molte realtà finanziarie di grande rilevanza, avranno avuto convinzioni religiose, non in grado, però, di caratterizzare significativamente le loro attività. Ciò non toglie che il problema sia d’indubbia importanza, ma di difficile soluzione a partire da due definizioni: l’Italia è un paese di cattolici? esistono le banche cattoliche?
Sull’Italia paese di cattolici, Vincenzo Gioberti era stato chiaro quando scriveva: «che se altri può essere cattolico senza essere italiano […], non si può essere perfetto italiano da ogni parte, senza essere cattolico»14. Circa un secolo dopo Alcide De Gasperi non aveva le medesime certezze. Anzi. Nel 1929 si interrogava amaramente sul cattolicesimo degli italiani annotando che «al fondo di tutto questo vi è la premessa storicamente non certa che l’Italia sia un paese cattolico»15.
Sicuramente, la stragrande maggioranza della casse rurali e un buon numero di popolari erano banche di cattolici. Se si abbandona la cooperazione creditizia e si entra nella forma di società anonima, si può parlare di banche dei cattolici. Il motivo per il quale mi sono soffermato sulla distinzione tra banche ‘di’ cattolici e banche ‘dei’ cattolici è dovuto all’uso improprio dell’espressione ‘banche cattoliche’.
Per rendersene conto è sufficiente rileggere alcune righe famose di don Luigi Sturzo, che, argomentando sull’«uso» e sull’«abuso della parola cattolico», scriveva:
«Era anche il tempo che sorgevano banche promosse dai cattolici, sia per combattere l’usura delle campagne (Casse Rurali) sia per consolidare posizioni locali dei clericali moderati. Da principio, per buona tradizione medioevale, la banca si intitolava col nome di qualche santo: così la Banca San Marco a Venezia, S. Paolo a Brescia, S. Gimignano a Modena e simili. Ma poi si volle addirittura usare anche per quegli istituti la qualifica impropria e inopportuna di cattoliche, le Casse Rurali cattoliche, le Banche cattoliche, le Cooperative cattoliche dal 1890 in poi si moltiplicarono in Italia. Quell’aggettivo fu una differenziazione morale, un segno di battaglia, un mezzo di conquista, un’utile insegna. Da parecchi quell’uso e abuso fu combattuto, ma non ebbero fortuna […] oggi si vede quanto fosse opportuno il divieto di Pio X a costituire alla Camera un gruppo cattolico e come fosse fondata la nota distinzione di cattolici deputati sì e di deputati cattolici no»16.
Riferendosi nello specifico alle banche, Sturzo era ancora più categorico:
«Purtroppo ormai le banche che si chiamano cattoliche sono diverse, hanno una ditta accreditata ed una tradizione; è difficile cambiar nome di punto in bianco. Ma sarebbe desiderabile che da oggi in poi chiunque voglia istituire banche, casse cooperative, aziende commerciali si astenga da tale uso. Non c’è più la ragione di difesa morale ed anche politica, che li fece chiamare così da cinquant’anni a ieri. Per giunta alcune dolorose esperienze hanno provato che non tutte le istituzioni economiche tra cattolici hanno mantenuto quell’assenza di affarismo e quella sicurezza morale, che deve caratterizzare il cattolico anche quando fa la eticamente difficile professione di banchiere; per cui la parola cattolica, che si legge in testa alla banca e che suole essere un mezzo di accreditamento finanziario, si è risolta in grave iattura non solo economica per i creditori, ma anche morale per la Chiesa. Perciò non si può approvare la rivendicazione delle sue tradizioni cattoliche e cristiane fatta in un recente comunicato del Banco di Roma; infatti il Banco di Roma è stato salvato due volte dalle sue non liete speculazioni, le quali non sono state fatte certo in nome della religione e dello spirito cristiano»17.
Il fondatore del Partito popolare italiano aveva colto nel segno. La spinosa questione si riproporrà in modo continuativo e costringerà l’Azione cattolica, attraverso l’Istituto cattolico di attività sociali, a intervenire, nel 1928, per definire cosa si potesse intendere per banche cattoliche e quali fossero i vincoli morali degli amministratori18.
Nella storia europea e italiana il 1848 delineò il punto di svolta decisivo. Per il cattolicesimo italiano, con la Rivoluzione francese, Napoleone, la geografia politica uscita dalla Restaurazione e il Quarantotto, gli spazi di manovra si erano ristretti ma non erano scomparsi. Il decennio 1820-1830 è di fondamentale importanza per comprendere le origini di molti atteggiamenti e scontri che per oltre un secolo caratterizzarono le vicende storiche del cattolicesimo europeo19. La Francia rappresentò la nazione centrale per il cattolicesimo europeo, in modo particolare per la presenza e la forza ‘irradiativa’ dell’ultramontanesimo. All’indomani della Restaurazione, la Chiesa decise di riprendere i rapporti diplomatici con i governi usciti dal Congresso di Vienna attraverso lo strumento dei concordati, abilmente gestito dal cardinale Ercole Consalvi. Le rivoluzioni del 1848 accelerarono, e in parte modificarono, il quadro politico complessivo. La Chiesa, dunque, doveva trovarsi pronta a misurarsi con nuove forme politiche e nuove ideologie. Per questo era necessaria una strategia diversa, pronta a cogliere le opportunità senza rinunciare ai princìpi.
L’esperienza rivoluzionaria aveva cancellato un ordine sociale nel quale la presenza della Chiesa consentiva un approdo sociale condiviso. L’equilibrio tra Stato e Chiesa nell’Ancien régime veniva meno e l’opposizione alla rivoluzione finì col determinare due forme di controrivoluzione: politica e cattolica20. Due controrivoluzioni, però, non allineate. Anzi, la Chiesa lottò tanto contro le conseguenze della rivoluzione che aveva generato diversi regimi politici, quanto contro quelle della controrivoluzione politica. Il Concordato francese siglato da Pio VII con Napoleone portò al ralliement della Chiesa al nuovo ordine con l’esclusione delle forze integraliste che non si rassegnarono alla loro progressiva marginalizzazione.
In Italia la controrivoluzione ha giocato un ruolo fondamentale nel consolidare il neoguelfismo, con spunti che tentavano d’immaginare il ritorno della Chiesa sulla scena politica europea21. L’«etnarchia» prospettata da Luigi Taparelli D’Azeglio rimandava a visioni politiche medievali, nelle quali la forza del cristianesimo costituiva il collante necessario. Si trattava, secondo il gesuita torinese, di sostituire nuovamente il liberalismo con il cristianesimo, di creare un diritto fondato sull’unità della fede e di ridare al papa un ruolo politico internazionale, di guida morale22.
In questo contesto e diversamente dai suoi predecessori, papa Mastai Ferretti si rese conto di queste esigenze, pena la marginalità definitiva del cattolicesimo. Questa era la sua preoccupazione maggiore: i cattolici dovevano tornare a essere protagonisti nella società, a ogni livello. Lo strumento più adatto previsto era individuato nel dinamismo, nel «movimento dei cattolici»23. A patto che fosse la gerarchia a guidarlo. Ai laici toccava un compito molto simile a quello ricoperto dagli ordini regolari: dipendenti solo dal papa. Con una missione che ancora nel 1921 Giovanni Battista Montini esprimeva all’amico Andrea Trebeschi fresco di laurea:
«Ecco la prima funzione che la società domanda alle sue classi colte: l’aristocrazia del pensiero. Un’aristocrazia umile e severa e soprattutto benefica, come ogni vera aristocrazia. Vi devono essere nelle file sociali, a cui voi siete preposti, dei clienti del vostro pensiero, gente umile, gente lavoratrice e illetterata, ma che pensa colla vostra testa, è convinta delle vostre convinzioni, si fida a buon diritto di ciò che le dite perché vi vede coscienziosamente pensare e studiare. In una parola: voi professionisti dovete rappresentare la prova ragionata dei principi di cui il popolo deve vivere. Dovete possedere voi ciò che dà valore filosofico agli assiomi con cui le masse vogliamo che ragionino; come l’oro che resta latente, fa garanzia a una moneta di carta»24.
Del resto, con il tramonto dello Stato temporale si aprivano per i cattolici prospettive nuove e decisamente più ampie. Essi potevano, in definitiva, misurarsi con il mondo intero senza l’inutile peso dello Stato della Chiesa. Il cristianesimo diventava, in quest’ottica, una «dottrina completa dell’umanità» e «un organismo sociale che abbraccia e coordina non solamente gli individui e le famiglie, ma eziandio le leggi e gli istituti curanti gli interessi esteriori»25. Le parole diPio IX aprivano la strada a un rinnovato impegno nella società pur con i vincoli ai quali si faceva cenno e che, alla fine, determineranno sbandamenti, ripensamenti e delusioni nei cattolici. Leone XIII, nel 1887, si era spinto ancora più in là:
«La salvezza dell’umana società sta indubbiamente ed unicamente nel ritorno degli individui, delle famiglie, dei popoli al principio cristiano. Immenso dunque è il campo sul quale possono agire i cattolici; né possono essi dubitare dei risultati che conseguirà la loro azione e della vittoria che riporteranno sui nemici di Dio e dell’umanità»26.
L’intransigentismo non attendeva altro che un programma senza sbavature. Quell’«unicamente» dava il senso all’intero messaggio e significava che solo il cristianesimo aveva la forza di opporsi alle tentazioni del liberalismo e del socialismo, ideologie pericolose e insinuanti prodotto del progresso economico. L’«azione» dei cattolici doveva trovare i mezzi per condurre a termine il «ritorno» alla vera religione e alla morale. Solo il loro movimento, gestito dal papa e dalla gerarchia ecclesiastica, avrebbe potuto contribuire a fondare la dottrina sociale della Chiesa. Temi che saranno poi ripresi con maggior determinazione nell’enciclica Divini Redemptoris di Pio XI.
A differenza di Pio IX, però, Leone XIII considerava dannoso lo scontro frontale con il potere politico. La sua strategia era più sottile. Si rendeva conto che il dialogo politico in Italia, e soprattutto altrove, presentava ampi margini di manovra, in modo particolare sul terreno finanziario. I flussi dell’obolo di s. Pietro, per esempio, non potevano essere messi in discussione da una politica antinazionale. Se l’obolo interessava unicamente le finanze della Santa Sede, pur essendo espressione della religiosità dei cattolici, le attività economiche del cattolicesimo organizzato avrebbero potuto articolarsi in molti settori.
Il movimento cattolico, sulla spinta della controrivoluzione cattolica, doveva rappresentare, in tutta Europa, la risposta ai guasti dellaRivoluzione francese e dell’impero napoleonico. In termini religiosi questa frattura interessò il cristianesimo nel suo complesso proiettato in un ordinamento sociale completamente nuovo. Se Pio VII aveva sollecitato all’azione l’intransigentismo cattolico europeo, la Rerum novarum si sarebbe incaricata di stabilire regole universali in ordine a tre grandi problemi: lo scontro con il liberalismo, la lotta contro il socialismo, il ritorno a una società veramente cristiana. Un nuovo disciplinamento sostenuto dalla ripresa del tomismo, della scolastica e della teologia politica ispirata a una rinnovata forma di teocrazia.
Una difesa e nel contempo un’offensiva guidate dalla Santa Sede. L’obiettivo dell’instaurazione di una rinnovata società cristiana, contenuto nell’enciclica, presentava un paradosso: la volontà di contrastare le ideologie e le conseguenze della rivoluzione industriale – socialismo, liberalismo e liberismo – dimenticava che l’Europa era ancora un paese prevalentemente agricolo, o meglio: considerava la condizione delle masse rurali adeguatamente protette dalla gerarchia ecclesiastica.
Pio IX giocò un ruolo fondamentale nel riposizionamento della Chiesa attraverso diversi adattamenti della sua teologia politica che implicavano complessi rapporti con i poteri politici e con le organizzazioni dei cattolici sull’intero scacchiere europeo. Il Sillabo determinò la condanna di tutti i politici che non ritenevano di sottomettersi alla «giurisdizione generale della Chiesa». L’enciclica Quanta cura, che introduceva il documento papale, non esitava a riaffermare che «la potestà legale non è solamente conferita per il governo del mondo, ma per il bene della Chiesa»27. Era evidente la volontà di opporsi alle conseguenze della Rivoluzione francese che aveva travolto concezioni consolidate e di rimarcare con forza la libertà della Chiesa nei confronti dei governi laici. Un’oscillazione della teologia politica fra Gelasio e Agostino, iniziata da Pio VII e continuata da Leone XIII. Quest’ultimo, infatti, nell’abbandonare l’idea di giurisdizione, si accontentò di scendere a patti con il potere laico. La sostituzione del coordinamento tra i due poteri si chiamò concordato. Nell’Immortale Dei, Leone XIII, nel riprendere la formula dell’anima e del corpo, preferì attestarsi alla necessità di una loro regolamentazione, al fatto che «i reggitori civili e il romano pontefice si mettano d’accordo su qualche punto particolare».
Queste concessioni ebbero ricadute significative. La Chiesa rimaneva un corpus sovranazionale svincolato da poteri politici nazionali. Inoltre, la sua presenza finanziaria, almeno nelle intenzioni, usciva indenne, una vittoria sul giurisdizionalismo settecentesco, insomma. Con inevitabili compromessi, lo schema gelasiano sarà quello più a lungo utilizzato confermato dal guelfismo ottocentesco. Pio IX e Leone XIII incarnarono questo schema: la forza della Chiesa doveva essere sostenuta da forze o movimenti cattolici interni ai singoli Stati28. Era incoraggiata e sostenuta la partecipazione delle organizzazioni dei cattolici alla vita politica di tutti i Paesi cattolici con l’eccezione di quello italiano.
Bisogna riconoscere che il caso italiano era un po’ particolare. Per i cattolici le prese di posizione di Pio IX e la questione romana erano ostacoli ingombranti. Com’è noto, gli effetti del non expedit di Pio IX, confermato da Leone XIII e da Pio X sino al 1904, non consentirono l’apporto dei cattolici organizzati a livello parlamentare. L’Opera dei congressi, sorta nel 1874, rappresentava il ‘movimento’ dei cattolici al quale Pio IX impose il guinzaglio pontificio. La scelta non fu felice perché troppe tensioni e conflitti agiteranno il composito movimento cattolico sempre meno propenso, per le questioni non di natura teologica ma di contenuto economico-sociale, ad accettare la guida e le imposizioni della gerarchia. Alla fine sarà Pio X a decretare la fine del movimento nel 1904, a esclusione dell’Unione economico-sociale affidata alle cure dell’Azione cattolica. Anche la forma-partito, dalla Democrazia cristiana di Murri al Partito popolare italiano di Sturzo, non ebbe sorte migliore. La scelta papale in favore dell’Azione cattolica, operata da Pio X e proseguita da Benedetto XV e Pio XI, sbarrerà la strada dell’autonomia dal papa e dai vescovi.
Dal 1848 in poi, la lotta politica in Italia tra reazionari, moderati, cavouriani e mazziniani portò alla fine i cattolici a ritrovarsi o liberali o intransigenti. Intransigentismo e modernismo consacreranno le lacerazioni tra i cattolici. Sul piano dell’economia il movimento cattolico sconterà l’appartenenza alla dottrina sociale della Chiesa della corrente intransigente dell’Opera dei congressi, chiaramente espressa al congresso di Lucca del 1887 dal relatore avvocato Mazzetti: «L’Italia ha bisogno di una economia sociale cristiana più di ogni altra nazione, perché Iddio le impose in modo particolare questo bisogno quando costituì in Roma la sede di Pietro»29.
Fu merito degli esponenti dell’intransigentismo sollevare la questione economica, sia pure, in questa fase, in chiave paternalistica. Accanto ai giornali – «L’Osservatore romano», l’«Unità cattolica» e «L’Osservatore cattolico» – prese forma l’associazionismo. Anticipando di qualche anno l’Opera dei congressi, la Società della gioventù cattolica italiana, sorta nel 1867 per volontà di Giovanni Acquaderni, aveva scopi eminentemente religiosi, ma l’associazionismo intransigente si interessava anche dell’obolo di s. Pietro, considerato, a ragione, una delle risorse fondamentali per la Santa Sede e, quindi, per i cattolici.
Occorre osservare che l’Opera dei congressi, con presidenza a Venezia, dava forma a un movimento cattolico attivo soprattutto nell’Italia centro-settentrionale. La diversa presenza regionale era la conseguenza del dualismo religioso italiano. La nascita di casse di risparmio, banche popolari, casse rurali e banche ordinarie gestite dai cattolici ricalcava le aree di maggiore tradizione cooperativa e solidaristica30. Il Centro-Nord era stata la sede del cattolicesimo tridentino e la ‘prigionia’ del papa aveva sollecitato una diffusa protesta parrocchiale31 e attività di solidarietà tra le popolazioni attraverso opere pie e società di mutuo soccorso saldamente ancorate alle strutture diocesane. Questa geografia religiosa è caratterizzata anche dal luogo di provenienza dei pontefici. Nel corso dell’Ottocento, tutti i papi erano nati nei territori dello Stato pontificio; nel Novecento, cinque papi su nove provenivano dai territori dell’ex Lombardo-Veneto. Un dato molto significativo che può confermare un’inversione di tendenza con ricadute sulle attività dei cattolici.
All’interno delle diverse sezioni dell’Opera si fece strada l’idea del credito cooperativo e il tema bancario-finanziario, legato ai problemi della nascente industrializzazione italiana, assumeva una forte centralità. È noto che l’enciclica Rerum novarum (1891) apriva la strada all’azione sociale dei cattolici in una società ormai avviata allo sviluppo economico. L’enciclica non fu un frutto estemporaneo; al contrario, essa codificò un ventennio di studio e di attività pratica dei cattolici europei, ripreso e ordinato in efficace sintesi dal supremo magistero della Chiesa cattolica32.
Il tema del risparmio era legato alle condizioni dei ceti svantaggiati e alla voracità bancaria e privata che cospargeva le campagne di forme usurarie. La visione apocalittica va di molto smussata, ma produsse, appunto, il movimento cooperativo delle casse rurali e popolari nonché banche di maggior peso controllate dai cattolici.
Ciò non significò necessariamente un rifiuto alla politica e all’economia del paese. A livello locale, anzi, l’impegno fu consistente e articolato, sollecitato dalle molteplici attività dell’Opera dei congressi, delle diverse Unioni e dal radicamento delle diverse forme di associazionismo33. Il movimento cattolico, pertanto, costituì una preziosa testimonianza della volontà dei cattolici di partecipare come soggetti attivi alla vita complessiva del nuovo Stato unitario. Ma il movimento cattolico non coincideva con il mondo cattolico, molto più variegato e attraversato da posizioni anche assai diverse.
La complessa organizzazione politica dei cattolici si ampliò tra fine Ottocento e il primo conflitto mondiale. La Democrazia cristiana di Romolo Murri e il Partito popolare furono gli sbocchi di questa attività. La Santa Sede non facilitò certamente queste iniziative. Impegnato nella lotta contro il modernismo, Pio X impose lo scioglimento dell’Opera dei congressi, a eccezione, come detto, dell’Unione economico-sociale guidata da Medolago Albani. Proprio la necessità di affrontare organicamente l’impegno dei cattolici nelle banche, nel sindacato, nella stampa, impose al pontefice il realismo che si tradusse in due iniziative: il ritiro del non expedit nella maggior parte del paese e il patto Gentiloni. L’enciclica Il fermo proposito (1905) ripropose, su nuove basi, la riorganizzazione del movimento cattolico soprattutto in continuità con le esperienze precedenti e l’impegno nel settore bancario e sindacale. L’identità cattolica di queste organizzazioni era ribadita senza lasciare spazio a furberie tattiche e a cedimenti morali.
Quest’attivismo, però, presentava anche risvolti negativi: l’intervento dirigistico del pontefice, che si concretizza in modo stringente nel biennio 1903-1904, un periodo decisamente ‘caldo’ per l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici. Il tema più dibattuto, sotto la presidenza di Giovanni Grosoli fu il rapporto con banche, casse rurali e casse operaie «che prendono il nome di cattoliche»34. Il 23 agosto 1903 il conte Grosoli riteneva opportuno chiedere al Segretario della Sacra congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, monsignor Pietro Gasparri, indicazioni su quali posizioni prendere in ordine alla presenza gestionale dei sacerdoti negli istituti di credito, sulla base di un articolato promemoria inviatogli il 17 agosto dello stesso anno da monsignor Luigi Cerutti, il fondatore di numerose casse rurali. In questo scritto Cerutti non mancava di sottolineare che «in questo primo semestre del 1903 si è verificato più di un caso in cui qualche sacerdote factotum d’alcuna cassa rurale ha dovuto scappare lasciando dei sbilanci, che più d’una volta assommarono a qualche decina di milioni di lire»35. Tali pratiche si rivelavano dannose per il clero, che perdeva «prestigio e onore» e creava un clima di diffidenza nei confronti del popolo, il quale, «vedendosi turlupinato da coloro i quali dall’altare e dal confessionale condannano la frode, i sotterfugi, le menzogne, le spese pazze, presto finisce col confondere le cose e gli errori degli individui [e] attribuirli alla dottrina e sentendosi scosso nella sua fede e nelle sue credenze s’abbandonerà a quella incredulità pratica oggi di tanto perniciosa e diffusa»36. In questa situazione, lo stesso movimento cattolico «patrocinato dall’azione cattolica»37 finirà per subire gravi conseguenze. Per porre rimedio all’andazzo, Cerutti proponeva che il clero fosse istruito negli affari economici già a partire dalla frequentazione dei seminari sotto lo stretto controllo dei vescovi e che prendesse forma, in tutto il paese, «un ufficio di ispezione e di controllo»38 per evitare ulteriori situazioni imbarazzanti.
La risposta di Gasparri non si fece attendere. In previsione dell’imminente congresso di Bologna, avvertiva Grosoli di fare chiarezza su due punti fondamentali: la completa estraneità della Chiesa alla spinosa questione della gestione bancaria; la presa di distanza dell’Opera dei congressi «con atto pubblico e legale» da qualsiasi «responsabilità economica nell’andamento delle casse rurali o banche cattoliche»39.
Appena terminato il congresso di Bologna, lo stessoPio X, con il Motu proprio del 18 dicembre 1903, ritornava sull’argomento. La prosa diplomatica non deve trarre in inganno. Il documento poneva i cattolici con le spalle al muro. Riallacciandosi ai lavori del XIX congresso di Bologna – «da Noi promosso e incoraggiato» e che «ha sufficientemente mostrato a tutti la vigoria delle forze cattoliche, e quello che possa ottenersi di utile e salutare in mezzo alle popolazioni credenti, ove questa azione sia ben retta e disciplinata, e regni unanime di pensieri, di affetti e di opere in quanti vi concorrono» – il pontefice lanciava un ammonimento forte:
«Ci reca però non lieve rammarico che qualche disparere, sorto in mezzo ad essi, abbia suscitato delle polemiche pur troppo vive, le quali, se non represse opportunamente, potrebbero scindere le medesime forze e renderle meno efficaci. Noi, che raccomandammo sopra tutto l’unione e la concordia degli animi prima del Congresso, perché si potesse stabilire di comune accordo quanto si attiene alle norme pratiche dell’azione cattolica, non possiamo ora tacere. E perché le divergenze di vedute nel campo pratico, mettono capo assai facilmente in quello teoretico, ed anzi in questo necessariamente devono tenere il loro fulcro, è d’uopo rassodare i principî, onde tutta dev’essere informata l’azione cattolica»40.
Per evitare equivoci, Pio X faceva seguire l’«Ordinamento fondamentale dell’azione popolare cristiana», che ribadiva, sulla base di diverse encicliche precedenti, un concetto molto chiaro, riassumibile nella formula instaurare omnia in Christo. La linea tracciata da Leone XIII con le encicliche Quod Apostolici muneris (28 dicembre 1878), Rerum novarum (15 maggio 1891) e Graves de communi (18 gennaio 1901) andava rigorosamente rispettata:
«vediamo il grande bisogno che sia rettamente moderata e condotta l’azione popolare cristiana, vogliamo che quelle prudentissime norme siano esattamente e pienamente osservate; e che nessuno quindi ardisca allontanarsene menomamente. E però, a tenerle più facilmente vive e presenti, abbiamo devisato di raccoglierle come in compendio nei seguenti articoli, quale Ordinamento fondamentale dell’azione popolare cristiana, riportandole da quegli stessi Atti. Queste dovranno essere per tutti i cattolici la regola costante di loro condotta»41.
I ventinove articoli successivi non lasciavano spazio ai dubbi che, al contrario, permarranno tra i cattolici. In una società ordinata direttamente da Dio, immobile nella gerarchia sociale42 finalizzata al premio celeste, sono necessarie la proprietà privata, la carità, la giustizia. La carità e la giustizia sono gli strumenti per affrontare e risolvere la questione operaia, unitamente agli operai e ai capitalisti attraverso «istituzioni, ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi, e ad avvicinare ed unire le due classi fra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private; i patronati per i fanciulli e sopra tutto le corporazioni di arti e mestieri» (n. 11).
Ai cattolici è concesso di partecipare all’«Azione Popolare Cristiana o Democrazia Cristiana colle sue molte e svariate opere» (n. 12) purché sia ben chiaro il significato delle parole: «Questa Democrazia Cristiana poi dev’essere intesa nel senso già autorevolmente dichiarato, il quale lontanissimo da quello della Democrazia sociale, ha per base i principi della fede e della morale cattolica, quello sopra tutto di non ledere in veruna guisa il diritto inviolabile della privata proprietà» (n. 12). La Democrazia cristiana deve essere un movimento, ma non un partito43 e «i Democratici cristiani in Italia dovranno del tutto astenersi dal partecipare a qualsivoglia azione politica che nelle presenti circostanze, per ragioni di ordine altissimo, è interdetta ad ogni cattolico» (n. 13)44. I restanti articoli del documento pontificio proseguivano in una minuta regolamentazione dell’azione dei cattolici e degli «scrittori democratico-cristiani»: l’obbligo «strettissimo» di dipendere dall’autorità ecclesiastica e di sottoporre qualsiasi scritto, «anche di carattere meramente tecnico», all’approvazione del vescovo45.
Nel mirino erano finiti tanto l’Opera dei congressi quanto la Democrazia cristiana di Romolo Murri. L’opera di Murri era costantemente monitorata dalla Curia a tal punto che il Segretario di Stato Rafael Merry del Val, in occasione dell’imminente congresso di Bologna, telegrafò a monsignor Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina e fratello di Luigi, consigliando che la «nota persona di cui parla nella lettera si astenga dal prendere parte al Congresso; in quanto al resto si rimette prudenza di Vostra Signoria d’accordo con l’Ordinario»46.
L’intervento di Pio X rimaneva nel solco della politica di Leone XIII, scomparso nel 1903. La presidenza Grosoli aveva avuto il significato di sostituire Giovan Battista Paganuzzi, bersaglio degli scritti di Murri, e di trasformare l’Opera in movimento sociale cristiano. Per raggiungere l’obiettivo era necessario rivitalizzare la seconda sezione, quella economico-sociale sostenuta da Medolago Albani e Giuseppe Toniolo. Bisognava, però, porre fine ai dissensi interni animati da Murri, che puntava in modo deciso alla costituzione di un partito democratico-cristiano ma non nel senso voluto dal papa.
Giovanni Grosoli, ricevendo il Motu proprio, fece buon viso a cattiva sorte. Le due anime dell’Opera dei congressi e dei comitati cattolici, quella intransigente e quella transigente, interpretarono diversamente le ammonizioni pontificie. La preparazione di un nuovo congresso, previsto nel 1905, fu discussa nella riunione del comitato permanente tenutasi sempre a Bologna il 2 luglio 1904. Ancora una volta lo scontro fu molto vivace e si concluse con una lunga circolare di Grosoli, del 15 luglio 1904, a tutti i comitati regionali, diocesani e parrocchiali, nella quale, mentre si riaffermavano i principi di assoluta obbedienza alla Santa Sede, si indicava che
«lo spirito infine di tutta l’azione nostra è e deve essere cristiano. Come in passato così per l’avvenire, lungi dal trascurare gl’interessi supremi della fede, pur distinguendo le opere ed attuando, secondo i casi, criteri o prevalentemente religiosi o prevalentemente economici, altro non abbiamo voluto e non vogliamo se non che se ne osservi la legittima coordinazione, ed il bene come l’azione economica, siano secondo la natura delle cose e dell’uomo, subordinati al bene morale e supremo dei singoli e del popolo»47.
Tutto ciò non fu sufficiente. Dopo un articolo apparso su «L’Osservatore romano» del 19 luglio 1904, che denunciava la non conformità della circolare «alle istruzioni pontificie più volte emanate», il cardinale Merry del Val con una lettera circolare del 28 luglio 190448 decretava la fine dell’Opera dei congressi e dei comitati cattolici. La permanenza delle divisioni interne, pur abilmente mascherate, non era piaciuta. Si preferiva puntare sull’Azione cattolica. Rimaneva in vita il secondo gruppo, presieduto da Stanislao Medolago Albani, al quale Pio X concedeva una rinnovata capacità operativa, che, come si vedrà, esplicherà in modo particolare nel settore finanziario.
Pio IX fu una figura fondamentale in uno dei nodi cruciali della millenaria storia della Chiesa49, l’Ottocento, alla stregua del suo successore, Leone XIII, sul finire del secolo. Ugualmente importante, ma non ancora sufficientemente valorizzato dalla storiografia, fu il suo segretario di Stato, il cardinale Giacomo Antonelli50: il vero, primo riorganizzatore delle finanze pontificie.
Giacomo Antonelli ereditava una situazione finanziaria complicata. Gregorio XVI si era avvalso della casa Rothschild per far fronte ai cronici deficit di bilancio. Charles a Napoli e James a Parigi erano i principali sostenitori delle finanze pontificie51, unitamente a banchieri romani come Alessandro Torlonia52 e altre case bancarie europee53. Già nell’esilio di Gaeta Pio IX fu accompagnato dal suo consigliere giuridico Marcantonio Pacelli e dal futuro segretario di Stato Giacomo Antonelli. Antonelli non era privo di conoscenze e capacità finanziarie, grazie all’aiuto del fratello Filippo, governatore della Banca dello Stato pontificio dal 185254. Già con Gregorio XVI, che aveva affidato a Giacomo la carica di tesoriere, si era messo in luce per l’abilità nel gestire a favore dello Stato la spinosa questione dei beni ecclesiastici accordati al figliastro di Napoleone, il principe Eugenio di Beauharnais55.
Durante i mesi dell’esilio, Antonelli non aveva mancato di ricorrere nuovamente ai Rothschild. Tra il 3 aprile 1849 e il 16 maggio 1850 il nunzio apostolico a Parigi, monsignorRaffaele Fornari, depositò presso la casa Rothschild di Parigi numerose cambiali, nella disponibilità del cardinale, per un valore complessivo di 1.043.889,71 franchi56. Le somme, provenienti dall’obolo di s. Pietro e da un importante contributo delle diocesi americane (25.978 dollari), andavano a sommarsi ad altre provenienti dalla filiale di Napoli, depositate dal nunzio apostolico. Non tutte le somme, però, erano gestite dai Rothschild; una parte finiva a Londra tramite la Banca d’Irlanda. L’abilità di Antonelli si rivelò nell’operazione successiva: i franchi furono trasformati nella quasi totalità in lingotti d’oro.
Il ritorno e la presa di Roma segnarono la fine del potere temporale del papato e l’inizio della sua fortuna finanziaria. Fu una ‘sconfitta vantaggiosa’. Senza più uno Stato territoriale, dove le entrate rincorrevano costantemente le uscite, l’obolo di s. Pietro trasformò la Santa Sede da ‘Stato assistenziale a Stato assistito’57 proprio dalle entrate provenienti da ogni parte del mondo. Il classico esempio di privatizzazione degli utili e di socializzazione delle perdite. Pio IX e Antonelli furono consapevoli che la perdita del potere temporale presentava risvolti non negativi. Anzi. Dal punto di vista finanziario l’occasione era irripetibile. Ancora nel 1865 il segretario di Stato, discorrendo con il ministro dell’ambasciata belga presso la Santa Sede, Henri Ferdinand Carolus, aveva affermato: «Il fatto che, ridotti come sono, gli Stati romani non sono un organismo vitale; è un miracolo che la crisi [finanziaria] non si sia rivelata prima»58. Ciò che rimaneva del più antico fra gli Stati italiani, e ultimo a scomparire, era considerato ormai un peso insopportabile. Erano necessarie soluzioni finanziarie innovative e in un certo qual modo inedite. La Chiesa non si fece trovare impreparata.
Nel riorganizzare le finanze pontificie durante il pontificato di Pio IX, il cardinale Giacomo Antonelli, che parlava di ‘augusta miseria’ del papato, fu assistito da un gruppo di laici tra i quali emergeva Giuseppe Spada, con una notevole esperienza amministrativa e finanziaria nel comune di Roma, comproprietario, dal 1863, del Banco Torlonia e, successivamente, membro del collegio dei sindaci e dei riformatori della Banca dello Stato pontificio.
La prima incombenza da affrontare dopo la formazione dello Stato unitario fu la posizione del debito pubblico. Pio IX giocò la carta diplomatica. Da un lato si dichiarava prigioniero dello Stato italiano e dall’altro trattava per la conversione del debito pontificio in quello del «Governo usurpatore dopo l’invasione di Roma»59. La trattativa non fu facile perché l’obolo di s. Pietro era una garanzia del pagamento del debito. Quindi, lo Stato italiano doveva diventare il titolare di questa entrata per gestire il debito pubblico che si prestava a incamerare. Ma le cose andarono diversamente. In un primo momento, il governo ritenne che la somma depositata nell’erario dello Stato pontificio, circa 5 milioni e mezzo di scudi, fossero di spettanza propria, e li incamerò. Salvo poi restituirli sul finire del 1870, considerando l’obolo un’entrata nella disponibilità del santo padre e di natura esclusivamente ecclesiastica60. A impresa ottenuta, il cardinaleAntonelli dedicò energie maggiori alla riorganizzazione delle entrate della Santa Sede e, in modo particolare, a quelle dell’obolo, avendo ben presente che la Banca dello Stato pontificio, benché trasformata in istituto di emissione con la ripresa del titolo di Banca romana, non consentiva un’attività di grande respiro.
La successiva liquidazione della Banca romana da parte della neonata Banca d’Italia, priverà la Santa Sede dell’istituto di emissione. Senza poter creare moneta, la possibilità più evidente rimaneva quella dell’impegno finanziario finalizzato alla rendita. Per questi motivi le entrate dell’obolo esigevano oculati investimenti internazionali in quanto eccedevano le necessità della Santa Sede. Di qui l’intensificarsi dei legami tra la finanza vaticana e la grande finanza internazionale. In questo contesto, le nunziature apostoliche oltre a funzionare come rappresentanze diplomatiche ampliarono anche, e notevolmente, il ruolo di supporto finanziario del piccolissimo Stato.
La Santa Sede adottò la logica del capitalismo finanziario e ne seguì le stesse vicende nel bene e nel male. Il canone 1539 del Codice di diritto canonico del 1917, voluto da Eugenio Pacelli, certificava l’accettazione di questa logica: «Administratores possunt titulos ad latorem, quos vocant, commutare in alios titulos magis aut saltem aeque tutos ac frugiferos»61. Gli investimenti dovevano rispettare la regola del reddito ‘più elevato e sicuro’ e ciò riguardava non solo le disponibilità pontificie, ma anche quelle della variegata moltitudine di enti religiosi e di laici interessati dalle leggi eversive riguardanti i beni ecclesiastici.
Le occasioni d’investimento non si limitavano al Regno d’Italia ma spaziavano su molti altri Stati, con qualche rischio. Infatti, seguendo la logica del canone, molti titoli italiani, ricevuti in contropartita alle liquidazioni dell’asse ecclesiastico, furono convertiti in titoli, più vantaggiosi, dell’Impero austro-ungarico, della Germania e del Belgio, considerati a base fortemente cattolica. Il primo conflitto mondiale, però, bloccò molti investimenti effettuati proprio nell’Impero austro-ungarico e in quello tedesco e, a questo proposito, i nunzi apostolici, soprattutto di Vienna e Colonia, ebbero un faticoso supplemento di iniziative per il recupero di investimenti mobiliari effettuati da moltissimi enti ecclesiastici e laici.
Nella futura capitale del Regno, i cattolici si convinsero, al pari di Antonelli, della necessità di inserirsi a pieno titolo nel sistema economico e finanziario italiano e successivamente in quello europeo. Durante il primo decennio postunitario Roma fu oggetto di particolari attenzioni da parte della banca e della finanza internazionali. L’espansione urbanistica e la creazione delle necessarie infrastrutture e di imprese di servizi pubblici – acqua, luce e trasporti – ponevano in risalto futuri affari di dimensioni colossali.
Appariva evidente che il controllo politico del comune era prioritario per gestire l’insieme degli affari. I cattolici romani compresero rapidamente, al pari di tutti gli altri presenti nelle diverse regioni, le direzioni da intraprendere: comune, società immobiliari, banche e, tramite queste, industrie. L’Unione romana fu lo strumento adatto62. Sorta nel 1871 per opera di cattolici che non concordavano con l’intransigentismo incapace di interpretare la realtà in movimento, l’Unione controllò in questo decennio le elezioni amministrative dimostrando di radicarsi sempre più in profondità tra i cattolici con il benestare, sia pure in forma non palese, della Santa Sede. L’Unione romana in sostanza gestì la politica e gli affari, rappresentando un intricato insieme di interessi che via via si identificavano con quelli della banca e della finanza. Il successo elettorale del 1879 convinse molta parte della vecchia aristocrazia terriera e papalina a collaborare con i cattolici, collaborazione che durerà sino all’amministrazione guidata da Ernesto Nathan (1907).
In questi decenni si attuò una poderosa trasformazione della mentalità economica. Si abbandonavano le tradizionali rendite fondiarie per investimenti mobiliari e speculazioni edilizie. Le stesse leggi eversive sui patrimoni ecclesiastici liberarono enormi liquidità che presero la strada non tanto degli sperati titoli del debito pubblico italiano, quanto di altre tipologie di investimenti in Italia e all’estero, gestite da molta parte del mondo cattolico romano e italiano.
In altri termini, a Roma avvenne la saldatura tra gli esponenti del grande capitalismo italiano e straniero, del cattolicesimo finanziario e della finanza vaticana. A proposito di quest’ultima è curioso ciò che accadde alla Casa Rothschild: da creditori della Santa Sede a gestori dei capitali finanziari della Santa Sede. In pochi anni, dunque, si passa dalla manomorta alla grande finanza.
Il fenomeno, che a Roma appariva più evidente per le particolari caratteristiche politiche e religiose della città, era presente in molte altre parti del Regno. Le trasformazioni economiche e sociali in atto, e con ritmi ben più accelerati nei decenni successivi, provocarono un profondo mutamento nei ceti sociali. Il peso del papa e della Santa Sede favorì la rapida trasformazione della più avvertita aristocrazia papale in agguerrita borghesia finanziaria, capace di contendere o di collaborare con quella centro-settentrionale. Le forme di intransigenza si erano stemperate dinnanzi ai corsi azionari, ai dividendi, alle rendite obbligazionarie, alle speculazioni, alle attività bancarie e industriali. Tutto ciò fece rapidamente svanire l’idea della restaurazione del potere temporale della Chiesa. Sarebbe stato un ritorno in contrasto con la storia. Questioni che sono sempre più lasciate alla nostalgia di una realtà che non tornerà più.
Paradossalmente l’esperienza dell’Unione non sfociò in un partito cattolico. Ma i cattolici avevano pronta un’altra carta: il Banco di Roma. Crediamo che, in assoluto, sia stata la banca con maggiori salvataggi ottenuti, proprio in virtù di quello che rappresentava: l’asse portante dell’intero sistema bancario cattolico.
Il Banco sorse nel 1880 all’indomani della crisi del 1873-1878. Il progetto di legge relativo al concorso dello Stato nell’ampliamento edilizio della capitale, presentato dal governo di Agostino Depretis il 12 maggio 1879, non si concretizzò per la caduta del governo. Fu ripreso daBenedetto Cairoli, nuovo presidente del Consiglio, il 15 novembre 1879. L’impegno del governo, la ripresa dell’attività edilizia, commerciale e industriale, sostenuta principalmente dal Banco di Napoli, dalla Banca Romana e dalla disponibilità di capitali provenienti da altre regioni – Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto –, ampliarono notevolmente l’attività bancaria di Roma, nella quale la Banca Romana produceva un modesto volume di attività legato alla circolazione, ai depositi e agli sconti. Il suo peso, nel 1880, era divenuto marginale, collocata al quinto posto tra tutte le sedici banche operanti in città63.
La fondazione del Banco di Roma obbediva al nuovo dinamismo economico e finanziario dell’aristocrazia fondiaria romana la cui liquidità era incanalata, come si è detto, in nuove forme di investimento. Il carattere cattolico e la vocazione a non limitarsi, in un immediato futuro, alla sola capitale, emergevano dal rapporto con il capitale francese, dati i rapporti politici tra l’Italia e la Francia. La Società generale di credito immobiliare, che si richiamava alla creatura dei fratelli Pereira, era presente in Italia dal 1863, così come il Crédit Lyonnais aveva sostenuto molte iniziative industriali e nelle società dei trasporti.
Nel 1878 era sorta a Roma una filiale dell’Union générale voluta da un comitato di aristocratici romani. Il direttore della succursale era il marchese Giulio Mereghi64, già amministratore dello Stato pontificio nella provincia romana, mentre nel consiglio direttivo trovavano posto altre personalità di spicco: Sigismondo Giustiniani Bandini e Francesco Borghese, legato alla Cassa di risparmio di Roma65. All’iniziativa non era estranea la Santa Sede attraverso il suo responsabile finanziario, monsignor Enrico Folchi, successore di Antonelli, che facilitò i rapporti diplomatici fra il gruppo romano e quello francese66.
Il loro rapporto con l’Union durò assai poco, ma fu un periodo di vantaggioso apprendistato bancario e finanziario. Prima del crollo della banca francese, avvenuto nel 188567, i tre decisero di mettersi in proprio dando vita, il 9 marzo 1880, a una nuova banca, il Banco di Roma. Anche in questo caso non fu ininfluente l’atteggiamento di monsignor Folchi, ma in senso contrario rispetto al suo operato per favorire l’Union générale. Con tutta probabilità fu proprio Folchi che, giudicata con sospetto la straordinaria rapidità del successo dell’Union, incoraggiò i dissapori tra il gruppo romano e quello francese favorendo la costituzione del Banco di Roma e sostenendolo con il fondamentale aiuto della Santa Sede. Aiuto che si concretizzò in un cospicuo deposito del papa nel Banco appena sorto.
Dallo statuto della nuova banca si evidenziava anche la caratteristica operativa: più una banca d’affari, sul modello inglese, che non una banca di credito ordinario68. In effetti, non tardò a partecipare a iniziative industriali e ben presto divenne il finanziatore di una moltitudine di società69 nelle quali era presente un’ampia partecipazione della Santa Sede. Questa strategia operativa si poneva un obiettivo fondamentale: uscire da una dimensione locale, sia pure privilegiata, e assumere connotati nazionali e internazionali per partecipare come protagonista allo sviluppo degli affari. L’attuazione presumeva un forte rafforzamento di disponibilità finanziarie. Se nella fase di avvio il sostegno locale, compreso quello del papa, si era rivelato necessario, ora l’ampliamento di nuove possibili attività imponeva una scelta quasi obbligata: il ricorso al capitale straniero. Le ferrovie furono il primo banco di prova, poi si passò ai molini e agli investimenti edilizi.
L’abolizione del corso forzoso nel 1883 portò a un ripiegamento delle attività del Banco a fronte di un sensibile deprezzamento dei valori mobiliari in portafoglio. La ripresa economica tra il 1884 e il 1887 ripropose la speculazione edilizia, in modo particolare a Roma. Nel 1888 il Banco, però, si trovò in crisi di liquidità. A intervenire fu monsignor Folchi che rinnovò il deposito di tre milioni di lire dell’Amministrazione dei beni della Santa Sede, in scadenza al 31 dicembre, per un altro anno, poi rinnovato anche per i successivi due anni. Espedienti che non valsero, nel 1891, a prendere in seria considerazione l’ipotesi di creare un più ampio organismo bancario. La proposta incontrò il rifiuto di uno dei maggiori azionisti del Banco, mai identificato, ma riconducibile all’Amministrazione dei beni della Santa Sede.
La situazione pericolante portò alle dimissioni del presidente Luigi Boncompagni, respinte, e del vice Carini, accettate, sostituito da Ernesto Pacelli. La sistemazione di questa prima, tra le tante, crisi del Banco fu assai laboriosa, e a essa parteciparono personaggi che in seguito ricoprirono cariche importanti nello stesso Banco. Un ruolo decisivo fu svolto dalla sede romana della francese Crédit société financière, rappresentata da Ugo Boncompagni e Carlo Santucci, sulla base di condizioni davvero pesanti e accettate per non avere altre scelte70.
Questa svolta ripropose il rimescolamento dei vertici avvenuto il 6 settembre 1891 (una data che ritornerà in seguito, come vedremo, nella tormentata storia del Banco di Roma). Rimasero, con Boncompagni, l’avvocato Frascari e Ernesto Pacelli; in rappresentanza del Crédit entrarono Edoardo Soderini (uomo di fiducia di Leone XIII), Romolo Tittoni, Luigi Palestrini e Augusto Torrielli.
Quanto all’economia italiana, gli anni successivi portarono l’intero paese a prendere parte al decollo industriale. Anche per il Banco iniziò un periodo di espansione che pose gli amministratori dinnanzi a un bivio. Da un lato la nascita della Banca commerciale italiana e del Credito italiano avevano posto in evidenza che l’industrializzazione del paese passava attraverso l’utilizzo di ampia liquidità. Dall’altro il Banco mancava di questa disponibilità, che avrebbe consentito ai cattolici di misurarsi con le nuove banche, sostenute da capitali stranieri.
A questo punto entrò in giocoErnesto Pacelli. La sua attività nel Banco era apprezzata ma non adeguatamente valorizzata. La liquidazione della Banca Romana gli fornì una ghiotta occasione per emergere. Difensore degli azionisti della Banca Romana, ottenne dai tribunali la sconfitta della neonata Banca d’Italia, costretta a risarcire gli azionisti nonostante la corruzione e gli scandali che avevano accompagnato gli ultimi periodi della banca di emissione del disciolto Stato pontificio. La stampa lo definì il «vincitore della Banca Romana» e, inevitabilmente, la Curia e Leone XIII furono positivamente colpiti dalle capacità di questo avvocato, in grado di sconfiggere il governo italiano. La decisione presa fu estremamente rapida: nel 1896 Ernesto Pacelli divenne il consigliere economico del papa con l’incarico di investire i proventi dell’obolo con modalità ritenute più redditizie. Il delicato incarico lo portò in contatto con monsignor Nazareno Manzolini, addetto alle finanze private del papa, e con il cardinale Mario Mocenni, amministratore del patrimonio della Santa Sede dopo l’allontanamento improvviso di monsignor Folchi71.
La strategia della Santa Sede si basava su di una realtà di fatto. Con le sue 5.150 azioni, possedeva il 50% del capitale azionario del Banco di Roma, più ingenti crediti risalenti ai precedenti interventi. Attraverso Pacelli, la Santa Sede avrebbe influenzato l’intera operatività del Banco ma, allo stesso modo, Pacelli si sarebbe convinto che la rete finanziaria internazionale della Santa Sede poteva agevolare il salto di qualità del Banco.
Nel 1897, il «signor Ernesto», come lo avrebbe in seguito chiamato familiarmente Leone XIII72, propose al papa lo spinoso problema di un sostanzioso aumento del capitale del Banco. L’ipotesi discussa prevedeva l’intervento di capitale tedesco con modalità molto simili a quanto avvenuto per le altre due banche miste, con, però, un vincolo che farà fallire questo primo tentativo: l’aumento del capitale sociale non doveva prevedere l’ingresso di elementi estranei della direzione della banca.
I viaggi di Pacelli in Austria e in Germania, sorretti dagli interventi diplomatici dei nunzi che si spinsero sino a premere sull’imperatore Francesco Giuseppe perché sottoscrivesse le azioni del Banco, non diedero i risultati sperati. Lo stesso Credit Anstalt, che pure apparteneva al ramo tedesco dei Rothschild, si dichiarò fuori se fosse stato mantenuto il divieto di accesso alle cariche.
Fallito questo primo tentativo, a Pacelli non rimase che l’unica soluzione possibile: far sottoscrivere l’aumento alla Santa Sede. Con un complicato giro di operazioni di scambi azionari il papa divenne proprietario dei quattro quinti dell’intero pacchetto azionario, con la possibilità, per il Banco, di riacquistare, con diritti di opzione, 20.000 azioni sulle 20.150 in possesso della Santa Sede. Questa operazione consentì al Banco di chiudere un difficile capitolo della sua esistenza e di aprire nuovi scenari.
La migliorata operatività del Banco, del quale la Santa Sede rimaneva comunque un azionista occulto di riferimento, condusse Ernesto Pacelli ad assumere la carica più importante e delicata. Se il presidente era il conte Eduardo Soderini, il vero artefice delle fortune future del Banco sarà Ernesto Pacelli, avviato a ricoprire incarichi sempre più prestigiosi.
Senza dubbio il Banco di Roma ebbe un ruolo fondamentale, in positivo e in negativo, nello sviluppo delle attività bancarie e finanziarie dei cattolici. L’attivismo del movimento cattolico, però, andava oltre, e contro, l’ingombrante presenza del Banco. La fine dell’Opera dei congressi e il rafforzamento dell’Unione economico-sociale permisero ai cattolici maggiore operatività nel settore finanziario. Le iniziative parlamentari, però, rendevano necessaria una ristrutturazione complessiva della rete bancaria a tutti i livelli.
Il progetto di riforma voluto da Francesco Saverio Nitti con il decreto legge del 19 febbraio 1913 – che affrontava il riordino dei servizi del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio – prevedeva periodiche ispezioni agli istituti di credito sottoposti alla sua vigilanza e, nel contempo, obbligava le banche a destinare a riserva i due terzi degli utili annuali, qualora il rapporto fra patrimonio sociale e depositi fosse inferiore a un decimo. Se il disegno di legge non si concretizzò in testo normativo, era assai evidente che le restrizioni introdotte miravano a colpire soprattutto le banche cooperative e popolari, a maggioranza cattolica, giustificate dai numerosi fallimenti avutisi in quegli anni in piccoli istituti che avevano creato una situazione di forte incertezza verso le banche. Alla fine del 1912, tra le venticinque principali banche cooperative cattoliche, solo il Piccolo credito novarese rispondeva ai criteri del disegno di legge73. In sostanza, il progetto tentava di far passare il principio di un controllo pubblico sulle banche di deposito74 e l’accoppiata Francesco Saverio Nitti-Alberto Beneduce75 era considerata dai cattolici assai pericolosa per l’autonomia delle banche cattoliche76.
L’iniziativa di Francesco Saverio Nitti, dunque, spinse le banche dei cattolici a riprendere con maggior vigore il progetto di costituzione di una federazione più solida e maggiormente rappresentativa. Nel marzo del 1913 fu nominata una commissione, presieduta da Medolago Albani, con l’obiettivo di dar vita a un organismo federativo e a un istituto di credito con compiti di coordinamento tra le banche cattoliche. Lo sforzo dei cattolici si concretizzò nella nascita della Federazione bancaria italiana (8 gennaio 1914) e nella costituzione del Credito nazionale (30 maggio 1914)77, organo bancario di riferimento della Federazione con il compito di facilitare gli scambi di fondi tra le banche federate.
Nel tormentato percorso formativo della Federazione bancaria ebbe un ruolo propulsivo, pur senza una diretta partecipazione, l’Unione economico-sociale, emanazione dell’Azione cattolica78, che rivestì un ruolo fondamentale in quanto doveva «promuovere, dirigere e coordinare tutta l’azione sociale ed economica dei cattolici italiani, sempre in conformità alle dottrine cattoliche, alle istruzioni della Santa Sede, alle direttive programmatiche e alle deliberazioni della giunta direttiva dell’Azione Cattolica Italiana»79.
L’Unione intravide come manovratore occulto dell’intera operazione il Banco di Roma, desideroso di utilizzare il Credito nazionale e le risorse delle banche collegate per fini assai diversi. Il suo presidente, il conte Medolago Albani, si rimise al consiglio della Santa Sede80, come sottolineato dalla lettera dello stesso presidente inviata al cardinale Merry Del Val, segretario di Stato, il 24 marzo 1914:
«Eminenza Reverendissima, Il Conte Alessandro Zileri, presidente del Comitato provvisorio della federazione delle Banche Cattoliche, mi annunzia, con Sua lettera 22 corrente da Roma, che mi verranno impartite istruzioni, per le quali l’Unione economico-sociale sarebbe autorizzata a prendere parte attiva ai lavori del Comitato eletto dalle Banche federate. Io sto in attesa di tali istruzioni alle quali fedelmente mi atterrò. Se fin qui ho tenuto verso quel comitato un contegno piuttosto riservato, ciò fu per conformarmi ad altre istruzioni orali e scritte, le quali ammonivano me di andare molto guardingo sull’affare della federazione bancaria, affinché non accadesse che l’Unione economico-sociale andasse incontro a responsabilità morali e finanziarie, di cui era difficile prevedere la gravità e le conseguenze. Ad ogni modo come già ebbi l’onore di scrivere direttamente a Sua Santità la federazione delle banche è ormai diventata una necessità, anche per salvare le casse rurali e con esse gran parte dell’azione cattolica. Sarò quindi felicissimo se potrò contribuire alla sua definitiva costituzione ad onta delle difficoltà che incontrerò, specialmente per le persone che entrarono a costituire il comitato esecutivo […]»81.
La prudenza e le perplessità del presidente dell’Unione non erano condivise da Alessandro Zileri, presidente della Banca cattolica vicentina, che si rivolse al nuovo segretario di Stato, il cardinale Pietro Gasparri, il 12 novembre del 1914:
«Mi rivolgo una volta ancora all’Eminenza Vostra per chiedere se fosse possibile ottenere da Sua Santità una lettera del tenore di quella che Vostra Eminenza ebbe la bontà di mandare a me ed al Conte Medolago il 24 marzo 1914. Acciò il Conte Medolago procuri di favorire l’unione di tutte le Banche Cattoliche nella Federazione facendo così opera di pacificazione tanto necessaria specie nel campo economico. Dopo che il Conte Medolago si ritirò dal prender parte attiva all’esplicamento del programma concretato dall’Unione Economico Sociale sulla Federazione delle Banche Cattoliche, non rimase che un gruppo di Banche Federate, delle altre, alcune si ritrassero altre non si federarono, credendo che la Santa Sede non vedesse di buon occhio la Federazione ed il Credito Nazionale. Avvenne così, come già dissi a voce a Vostra Eminenza, ciò che si doveva evitare. Chieggo venia d’importunare ancora Vostra Eminenza ma oso sperare di poter avere una risposta favorevole che m’incoraggi a non abbandonare un’opera il cui insuccesso sarebbe dannosissimo a tutte le opere economiche cattoliche […]»82.
Il motivo del contendere era duplice: da un lato la necessità di federarsi per meglio reggere la concorrenza delle altre banche, anche in termini di capacità gestionali; dall’altro la volontà di mantenere una forte autonomia delle singole banche pur senza rinunciare alla loro confessionalità. Su quest’ultima questione il cardinaleGasparri si muoveva in modo assai diverso rispetto al predecessore, auspicando un’interpretazione più ‘politica’ del carattere di confessionalità applicato agli istituti di credito,
«non imposto però con esplicito articolo dello Statuto, ma guidato da criteri di prudente notevole larghezza, per modo che siano accettate a far parte dei nostri sodalizi economico-sociali quelle persone che a giudizio delle autorità ecclesiastiche siano commendevoli per sentimento religioso e per condotta morale»83.
Il riferimento del segretario di Stato riguardava una più incisiva azione dei cattolici nel settore bancario. L’Azione cattolica poteva promuovere l’impegno di persone adatte alle finalità delle stesse banche, così come era accaduto con la politica. Il Patto Gentiloni e la disponibilità di Pio X, infatti, avevano tracciato un nuovo percorso politico: l’approdo di cattolici al Parlamento era sicuramente agevolato dalla capillare diffusione delle organizzazioni cattoliche e, tra queste, quelle creditizie rivestivano un’importanza non trascurabile. Tuttavia, con la fine del primo conflitto mondiale, all’Azione cattolica e all’Unione economico-sociale si aggiunse il Partito popolare che, se da un lato determinò la consacrazione dell’ingresso dei cattolici nella vita politica attiva, dall’altro entrò in aperto conflitto con la Santa Sede.
Appena succeduto a Pio X, Benedetto XV, anch’egli ancorato alle strategie dei suoi predecessori, seguì con particolare attenzione l’evolversi della creatura politica di don Luigi Sturzo, memore di quanto era accaduto con Romolo Murri. Se le condizioni politiche erano mutate, la teologia politica della Chiesa lo era molto meno.
Molte parti del mondo cattolico premevano sul pontefice per ottenere l’auspicata concessione a operare nella politica attraverso un partito politico cattolico. Nel 1918, a conflitto appena terminato, l’Unione popolare fra i cattolici d’Italia rivolse al cardinale Gasparri un lungo promemoria nel quale si avvertiva la necessità, per i cattolici, di fronteggiare «avversari meno numerosi, ma padroni del campo politico e parlamentare»84 nelle prossime competizioni politiche. Per affrontare «il blocco massonico, il socialismo ufficiale, il blocco democratico»85 era necessaria una decisa «azione politica […] a compimento dell’azione morale e sociale perché non ne vada dispersa l’efficacia»86. Si chiedeva, insomma, di operare attraverso «una organizzazione politica con nome e responsabilità propria»87.
Contemporaneamente si erano mossi i vescovi veneti. Il 30 novembre 1918 Pietro Gasparri ricevette una lunga lettera88 del patriarca di Venezia, il cardinale Pietro La Fontaine, che, anche a nome dei vescovi del Veneto, chiedeva se non fosse il caso di utilizzare le stesse armi del nemico: intervenire sulle «idee dominanti» per piegarle ai valori cristiani.
La Segreteria di Stato valutò positivamente la proposta dell’episcopato veneto e chiese ulteriori ragguagli sulle «linee precipue del programma economico-sociale da proporsi e affidarsi ai cattolici»89. Contemporaneamente incaricò il professor Antoine Pottier, protonotaro apostolico soprannumerario, di condurre uno studio accurato utile a guidare gli interventi della Chiesa90.
Nel 1919 l’attivismo dei vescovi veneti si concretizzò in un’indagine conoscitiva condotta dal patriarca di Venezia sulla base di un questionario di due domande: «Quali dovrebbero essere le linee principali del programma economico-sociale da proporsi ed affidarsi ai cattolici col salutare intento d’informare agli eterni princìpi del Vangelo i criteri e gli indirizzi democratici, ovunque prevalenti nella società moderna? Dipendenza e rapporti tra i cattolici e la Gerarchia ecclesiastica nel campo delle azioni politiche»91. Le risposte, pur nelle diverse articolazioni, confermavano la necessità di un impegno dei cattolici nel settore economico e sociale, nel mondo del lavoro e del sindacato a sostegno dei lavoratori e dei contadini. Impegno, però, strettamente dipendente dalla «Filosofia cristiana e Rivelazione», dall’autorità ecclesiastica alla quale non si può negare «il diritto di pronunziarsi sull’idoneità d’un Candidato a rappresentare e sostenere i diritti dei cattolici»92.
L’idea dei vescovi e della Santa Sede nascondeva un equivoco: il rapporto con l’Azione cattolica. Si voleva riprendere l’esperienza dell’Opera dei congressi depurata dalle divisioni e dalle esperienze della Democrazia cristiana murriana. Ma i motivi che avevano portato alla chiusura del movimento cattolico rimanevano nei confronti del partito in gestazione. Nell’adunanza dell’Unione popolare del 17 dicembre 1918, don Sturzo, alla vigilia della formazione del partito, in un breve discorso nel quale invocava, essendone certo, l’approvazione del santo padre, inseriva una frase che lo metteva in rotta di collisione: «Ma io credo che il consenso verrà. Se formiamo un partito politico al di fuori delle organizzazioni cattoliche, e senza alcuna specificazione religiosa, non per questo noi ripiegheremo la nostra bandiera; noi vogliamo solo che la religione non venga compromessa nelle agitazioni politiche e ire di parte»93. La presa di distanza dall’Azione cattolica non poteva essere più netta. Affermazione ripresa nei suoi scritti successivi nei quali ricostruiva la genesi del partito94.
La reazione di Benedetto XV non fu immediata. Si limitò, in un primo momento, a osservare gli eventi. Si mossero, però, la stampa e i vescovi. L’arcivescovo di Genova, cardinale Tommaso Pio Boggiani, utilizzò lo strumento dell’opuscolo95 per scrivere una lunga lettera con un titolo che non lasciava dubbi: L’Azione Cattolica e il Partito Popolare Italiano. Ci limitiamo a riportare un capoverso della prima pagina, perché illuminante:
«Ora è un fatto che, fin da quando apparve il “Partito Popolare Italiano” si ingenerò una grande confusione nelle idee e quindi nell’azione di moltissimi cattolici, i quali lo ritennero come partito cattolico e quindi come parte, o almeno come esplicazione, di quella Azione Cattolica militante, che i buoni e zelanti cattolici, ubbidienti all’invito dell’Autorità ecclesiastica, hanno intrapreso per cooperare al ritorno della Società ai principii cristiani e a Gesù Cristo»96.
I giornali non furono da meno. «La parola del popolo» paragonò don Sturzo aRomolo Murri97 e provocò l’intervento di monsignor Mario Sturzo, che si rivolse al pontefice con una breve ma accorata lettera nella quale stigmatizzava questa campagna denigratoria. Ciò che il fratello di Luigi non seppe, fu l’appunto in margine di Benedetto XV là dove egli affermava: «Io non chiedo nulla, perché voglio quello che V.B. vorrà. Certo però che V.B. non vorrà la rovina del PPI». L’autografo papale «e perché no?»98 andava, purtroppo, in direzione opposta.
La liquidazione del Partito popolare, conclusa con Pio XI, rispondeva a precise motivazioni di teologia politica. Per riprendere le brevi definizioni iniziali, papa Ratti si trasferì da… Gelasio a Eusebio, puntando sul Partito nazionale fascista come difensore della cristianità. L’Azione cattolica rimase la sola organizzazione dei cattolici a operare nel tessuto socio-economico del paese sotto lo stretto controllo della gerarchia. L’importanza dell’Azione cattolica diverrà sempre più determinante durante e dopo il regime perché da questa uscirà il nuovo partito politico dei cattolici.
La presa di posizione della Santa Sede non impedì il rafforzamento dei legami tra il mondo cooperativo e il Partito popolare. La presa del potere da parte del fascismo, però, determinò scelte politiche diverse, che ebbero forti ripercussioni anche nel settore del credito. In sostanza, la creazione, nel 1924, del Centro nazionale99, lasciò nelle mani dei conservatori del Partito popolare il controllo ‘politico’ delle banche dei cattolici e le vicende che portarono alla istituzione dell’Istituto centrale di credito ne furono la riprova100.
Dal 1922 al 1929, infatti, il governo fascista dovette affrontare due problemi di non poco conto: il riordino definitivo del sistema bancario nazionale a seguito della crisi della Banca italiana di sconto e del Banco di Roma e il Concordato con la Santa Sede. La strategia utilizzata si basava sull’apporto al governo che gli uomini del Centro nazionale avrebbero potuto concedere, sul contemporaneo isolamento dei popolari, assimilati ai socialisti, dalle masse cattoliche ai cui occhi venivano indicati come i maggiori responsabili dei molti fallimenti di istituti di credito confessionali, e sulla posizione tenuta dal Vaticano in ordine a entrambi i problemi.
Durante questo periodo l’intera questione bancaria cattolica assunse una forte centralità politica ed economica, determinata dal radicamento territoriale di banche, confessionali o meno, espressione delle diverse anime dei cattolici. Ancora una volta il Banco di Roma si dimostrava un soggetto ingombrante sia per la sua forza sia per gli interessi vaticani connessi. In definitiva, l’intera questione ruotava attorno al Banco oggetto di due appunti101 anonimi inviati al padre gesuitaEnrico Rosa nei primi anni Venti. Nel primo i problemi sollevati erano ricondotti al blocco di potere politico-bancario formatosi attorno al Banco di Roma, alla Federazione bancaria italiana e al Credito nazionale con l’intervento del Partito popolare. L’anonimo estensore sottolineava con forza i risvolti affaristico-finanziari gestiti attraverso un pericoloso connubio tra i popolari e i loro uomini presenti nelle banche affiliate al Credito nazionale che poco avevano di cattolico; anzi, quelle banche erano «organizzate per scopi politici molte volte affini a quelli liberali semitici e massoni». Occorreva porre rimedio a questa deriva affaristica e «contrapporre una forza organizzata fra tutte le banche che sono indipendenti da compromessi politici e di finanza affaristica di cui si danno tristi esempi in attuali polemiche deplorabili; alle quali si dice non restino estranei il Banco di Roma e la Federazione Bancaria Italiana».
Il secondo appunto102, infatti, denominato «Questione bancaria», ritornava sull’invadenza del Banco di Roma che, attraverso la Federazione e il Credito nazionale, si proponeva di drenare le forti liquidità delle banche:
«incanalando le esuberanze finanziarie verso i luoghi ove difettano e dove possono dare migliore rendimento sotto il punto di vista economico e politico, noi troveremmo perfettamente logica la sua azione anzi riterremmo indispensabile la solidarietà disciplinata di tutti gli organismi minori verso il maggiore. Ma il Banco di Roma nella sua consueta attività non è che una grossa banca di credito mobiliare senza finalità politiche o religiose spinta da un solo ed unico scopo: il maggiore benefizio per i propri azionisti. La sua azione giornaliera, se può prestarsi a critiche anche fondate nelle direttive seguite per gli investimenti, non è certo rispondente ad un programma che abbia per fine immediato o prossimo lo sviluppo del movimento finanziario cristiano sociale in Italia».
In definitiva, tutte le strade portavano al Banco di Roma passando per il Credito nazionale. La sostituzione dei vertici attuata il 9 febbraio 1923 – fuori Carlo Santucci, presidente, e Giuseppe Vicentini, amministratore delegato, sostituiti da Francesco Boncompagni Ludovisi e Carlo Vitali103 – era la condizione irrinunciabile per un intervento governativo, messo a punto dopo l’incontro tra Mussolini e il cardinale Gasparri all’indomani della conquista del potere da parte del fascismo. Il nodo da sciogliere era l’intreccio azionario tra i due istituti senza dimenticare il quadro generale delle sofferenze bancarie appesantite dal crollo della Banca italiana di sconto104 e dalle situazioni compromesse di molte banche dei cattolici. Lo stesso Niccolò Introna, ispettore generale della Banca d’Italia, in sintonia con il governo, riteneva doveroso un deciso e decisivo intervento per ripulire l’ambiente bancario dalle persone maggiormente «popolarizzate», riproponendo la vulgata del presunto rapporto del Partito popolare con le banche. Nella sua lunga relazione del 3 maggio 1923105, Introna descriveva con grande chiarezza gli intrecci dei cattolici nelle banche, già espressi in estrema sintesi dai due appunti citati in precedenza. In modo particolare si soffermava sul problema di fondo: il salvataggio del Banco era necessario al pari
«del consolidamento degli istituti locali che abbiano una situazione sostanzialmente buona; ma che – specie dal punto di vista politico – il consolidamento degl’istituti locali deve ottenersi in maniera tale da assicurarne il più completo controllo in maniera da evitare il pericolo che essi, superata la crisi, si trasformino in potenti mezzi di offesa contro chi con larghezza e nobiltà di vedute abbia efficacemente concorso alla loro ricostituzione»106.
Nel ricostruire i rapporti azionari tra Banco e Credito nazionale, Introna si spingeva a preferire il mantenimento di quest’ultimo, sia pure con ruoli assai diversi e, in definitiva, complementari a quelli del Banco. Il Credito nazionale doveva riconquistare la fiducia di tutto il credito cattolico, consentendo l’autonomia delle singole banche, grandi e piccole, ed assumendo compiti di coordinamento; doveva convincere la Santa Sede a intervenire nel «salvataggio degli altri istituti di credito locale e dello stesso Banco di Roma». In questo modo, attraverso il controllo del Banco di Roma e del Credito nazionale, il potere politico poteva risolvere, in modo definitivo, l’intera questione.
L’aiuto della Santa Sede faceva parte di un piano molto articolato e di difficile equilibrio. La soluzione non riguardava esclusivamente le somme da stanziare per i salvataggi, pur ingenti. A preoccupare era la ricerca delle persone adatte a gestire l’intera operazione. Il che significava un intervento deciso nel reticolo delle cariche. I cattolici si erano dimostrati instancabili nel perseguire i propri obiettivi nel settore del credito che produceva ampie ricadute. Infatti, l’articolata rete, che dalle casse rurali risaliva sino al Banco di Roma passando per le specifiche federazioni e il Credito nazionale, trovava nella Federazione bancaria italiana la centrale di coordinamento ‘politico’ che si estendeva all’intero sistema del movimento cooperativo. Attività non di poco conto e politicamente pericolose per il regime, impegnato a restringere i finanziamenti alla cooperazione dei cattolici. Pur senza un legame diretto, tra l’Unione e la Federazione vi era sempre stata una forte identità nelle persone. Il conte Alessandro Zileri era presidente della Federazione, appartenente all’Unione e presidente del futuro Credito nazionale; Giuseppe Vicentini ricopriva la carica di amministratore delegato della Federazione e del Credito nazionale e anche nel Banco di Roma ricoprirà la medesima carica. Inoltre, la stessa istituzione del Credito nazionale come centrale di coordinamento tra le banche federate, soprattutto per il servizio del reciproco trasferimento di fondi tramite assegni circolari, aveva imposto, nei fatti, un rapporto strettissimo tra la Federazione e il Banco di Roma.
La presenza di un groviglio quasi inestricabile di cariche tra queste istituzioni convinse il governo a una generale potatura che lo impegnò negli anni successivi, pesantemente condizionati dalle avvisaglie della grande crisi in arrivo. Per il potere fascista il controllo delle banche dei cattolici assumeva una forte valenza politica oltre che economica. Non era solo la spregiudicatezza del Credito nazionale a preoccupare. All’orizzonte rimaneva pur sempre la definitiva soluzione della questione romana. Finanza e religione tornavano a incrociarsi. Il salvataggio del Banco di Roma, a marcia su Roma appena conclusa, era stato il primo tassello di una complessa strategia che porterà al Concordato. Dal 1923 al 1932 l’intera operazione vedrà impegnati tre ministri delle Finanze – Alberto de’ Stefani, Giuseppe Volpi e Antonio Mosconi – nel difficile compito di conciliare la politica economica del governo con la gracilità complessiva del sistema bancario italiano e di raggiungere la sospirata intesa con la Santa Sede. Il che significava accontentare, in parte, le pressanti richieste dei cattolici per la sorte delle loro banche senza rinunciare a imporne il controllo da parte del potere politico. Si optò per due soluzioni: liquidare il Credito nazionale, unitamente alla Federazione bancaria italiana, sostituendolo con un altro istituto di riferimento non invischiato nella rete delle cariche e incaricato di portare a termine il risanamento complessivo delle banche cattoliche, da un lato, e chiedere un intervento di sostegno a tutta questa operazione alla Santa Sede, dall’altro. In sostanza una questione di uomini e di volontà politica.
Per operare, però, era necessario conoscere. Di suo la rete bancaria cattolica era complicata a tal punto che l’esigenza prioritaria era costituita dalla conoscenza della reale situazione di questi istituti di credito per determinare l’eventuale dimensione delle risorse occorrenti. I depositi andavano salvaguardati ma la volontà perseguita riguardava gli uomini in grado di gestire questa fase e di offrire garanzie ‘politiche’. Chi avrebbe guidato il sostituto del Credito nazionale e quale sarebbe stato il contributo, in termini monetari, della Santa Sede? Due interrogativi di non poco conto.
La patata bollente toccò a de’ Stefani che gestì l’ennesimo salvataggio del Banco di Roma nel 1923 e affrontò, come ministro delle Finanze e del Tesoro, la prima fase conoscitiva sulla salute della galassia bancaria cattolica. La sua politica economica gli valse le ire industriali che portaronoMussolini a sostituirlo con Giuseppe Volpi, che si rimise in movimento puntando le sue attenzioni su Giuseppe Vicentini, al vertice del Credito nazionale e con molte cariche bancarie.
In una lettera inviata a Mussolini il 30 giugno 1928107, Volpi ricostruiva il percorso della questione delle banche cattoliche, riconducibili a un sistema denominato «di Vicentini», a partire dalla caduta della Banca italiana di sconto e dal salvataggio del Banco di Roma. «Il Fascismo [annotava Volpi] si è trovato sulle braccia il problema del Banco di Roma nell’istante stesso in cui assunse il potere. Il Ministro del tempo, Tangorra, chiese subito il salvataggio di quel sistema bancario, ed il suo successore, on. De’ Stefani, lo ha eseguito»108. Il ministro delle Finanze si rammaricava della mancanza di coraggio nell’affrontare la situazione in maniera più drastica:
«Quando si è creduto di salvare il Banco di Roma, per la maniera troppo semplicistica che si è adottata e senza neanche raggiungere lo scopo, perché abbiamo dovuto intervenire ultimamente di nuovo per sistemare situazioni che erano già insite e patenti sin d’allora, si ebbe il torto, non solo di non levare dalla circolazione il Vicentini, ma di lasciarlo padrone della situazione delle Banche cattoliche, con a capo il Credito Nazionale rafforzato dal salvataggio del Banco di Roma»109.
Scartata la possibilità di un intervento diretto da parte della finanza pubblica, rimaneva, come provvisoria necessità, un’azione di adeguata sorveglianza. Nel 1926, risultò evidente che la situazione delle banche aderenti alla Federazione bancaria italiana si era progressivamente deteriorata in una scia di dissesti che punteggiavano quasi la totalità del paese. Situazione delicata che impose un’ulteriore verifica della situazione delle banche cattoliche che lo stesso Volpi suggerì alla Federazione bancaria italiana.
I cattolici si resero perfettamente conto di non avere troppe vie di fuga. Nell’ottobre del 1926 si decise la liquidazione del Credito nazionale e la riorganizzazione delle cariche in seno alla Federazione, anch’essa oggetto di una nuova ricostituzione. La Giunta federale presentava nomi nuovi, meno implicati nella gestione precedente e più graditi al governo, tra i quali Filippo Crispolti110 alla presidenza, e Angelo Pancino, non sgraditi neppure alla Santa Sede.
La nuova Giunta si mise al lavoro per arginare la crisi prevedendo un prossimo incontro per definire la strategia. Il 31 agosto 1927 Pesaro fu la città prescelta per la riunione delle banche federate e ne uscì una commissione incaricata di definire le modalità operative: Nicola Bevilacqua, amministratore della Banca cattolica vicentina, Angelo Pancino e Emilio Punturieri, ex funzionario del Ministero delle Finanze e uomo di fiducia del governo e della Banca d’Italia. I tre, unitamente ad altri cattolici ed ex popolari confluiti nel Centro nazionale – Paolo Mattei Gentili, Giovanni Grosoli, Stefano Cavazzoni e Francesco Mauro – delinearono un piano poi definito dallo stesso Gentili di «popolarizzazione» delle banche «cattoliche». Operazione concordata e supportata da ampi settori del mondo cattolico e applicata in anni precedenti nei confronti dell’Azione cattolica verso le persone che avevano aderito al Partito popolare italiano, assumendone cariche111.
Il piano prevedeva l’intervento dello Stato attraverso la costituzione dell’Istituto centrale di credito, il sostituto del Credito nazionale, con il compito di evitare «un fragoroso e simultaneo crollo di parecchie banche associate e di eliminare o ridurre le conseguenze dannose che deriverebbero ai depositanti da tale crollo, tenuto conto della speciale categoria (rurale) alla quale i depositari stessi per lo più appartengono». Compito politicamente ed economicamente delicato, con oneri da quantificare, che presupponeva inevitabilmente l’utilizzo di risorse pubbliche, integrate da un apporto delle stesse banche federate, anch’esso non quantificato. In altri termini, si sosteneva una soluzione di «darvinismo bancario» per usare la felice espressione di Gabriele De Rosa112.
La ricognizione sullo stato di salute delle banche fu affidata a Emilio Punturieri che la presentò il 25 aprile 1928 al senatore Filippo Crispolti, fresco presidente della Federazione bancaria italiana. In sintesi, Punturieri riaffermava, nel suo articolato «Rapporto»113, le condizioni presenti nel piano elaborato dalla commissione proposta dalla Federazione bancaria italiana: l’intervento dello Stato con il contributo della banche federate meno compromesse, la liquidazione o l’assorbimento di quelle decisamente pericolanti e l’istituzione dell’Istituto centrale di credito, gestito da Nicola Bevilacqua. L’impegno finanziario previsto era stimato in cinquanta milioni, suddiviso in parti uguali tra Banca d’Italia e Istituto centrale di credito. La prosa tecnica dello scritto tentava di nascondere ciò che nelle ovattate stanze della Segreteria di Stato era già conosciuto: le condizioni allarmanti della maggior parte delle banche aderenti alla Federazione bancaria italiana114. Ormai compromesse definitivamente le aree meridionali e centrali, rimanevano salvabili il «Gruppo» lombardo, quello veneto e quello romagnolo.
L’incarico a Punturieri, per il suo legame con la Federazione bancaria italiana, non si rivelò la soluzione migliore. La proposta che alla guida del futuro Istituto centrale di credito fosse destinato, comunque, un uomo cattolico faceva comprendere che i cattolici avevano in parte ceduto sugli uomini, ma non sulla sostanza. Giuseppe Volpi, al contrario, aveva pensato a Donato Menichella, allora incaricato di dirigere la liquidazione della Banca italiana di sconto attraverso la Banca nazionale di credito e futuro governatore della Banca d’Italia nel secondo dopoguerra. AMenichella115, Volpi chiese di analizzare il rapporto Punturieri e di stilare osservazioni utili a risolvere l’intricata questione con l’apporto personale in qualità di «persona di fiducia in grado di prendere la direzione effettiva per un’opera di risanamento delle banche stesse» e la disponibilità ad assumere l’incarico di dirigere il futuro Istituto centrale di credito.
I pareri diMenichella sul Rapporto Punturieri, estremamente negativi, furono condensati in un rapporto, consegnato a Volpi il 15 giugno 1928 e successivamente presentato dal ministro come proprio Promemoria, accompagnato dalla lettera con la quale rinunciava all’incarico, preferendo rimanere nell’ombra. Le insistenze del ministro a ritirarle non ebbero seguito, maVolpi si impegnò a scegliere il presidente e una parte dei consiglieri tra «autorevoli persone aventi col R. Governo comunicanza di intenti».
Le vicende successive ruotavano attorno a due questioni fondamentali: chi avrebbe assunto la presidenza del nuovo istituto; quale sarebbe stato l’atteggiamento della Santa Sede. Per questi scopi entrarono in scena altre ‘ombre’.
Negli ultimi mesi del 1928 le trattative per il Concordato con la Santa Sede erano in fase avanzata. Il 19 novembre l’avv. Francesco Pacelli, incaricato da Pio XI delle trattative con lo Stato italiano, annotava che il santo padre nutriva forte preoccupazione per le banche cattoliche «minacciate dalla Banca d’Italia»116. Il 23 novembre Pacelli consegnò a Domenico Barone, fiduciario diMussolini, un promemoria sulle banche cattoliche117 nel quale si faceva cenno all’improvviso irrigidirsi, «in questi ultimi mesi», della Banca d’Italia, inizialmente favorevole, e all’esistenza di «una lista prestabilita di banche cattoliche, la caduta delle quali sarebbe stata decisa» anche presso il Ministero degli Interni. Né si mancava di sottolineare la «vastità degli interessi», religiosi e non, la sopravvivenza di circa due miliardi di depositi, la posizione di vescovi e parroci che ebbero a interessarsi della vita delle banche stesse, proprio quello che l’Azione cattolica escludeva nel modo più assoluto.
A questo punto entrò in scena la seconda ombra, padre Pietro Tacchi Venturi, al quale la Santa Sede aveva affidato il delicato compito di mantenere aperti i rapporti conMussolini. Al padre gesuita si rivolse Paolo Mattei Gentili, sottosegretario alla Difesa ed agli Affari di culto. Secondo il parlamentare cattolico era «necessario insistere nel denunziare la manovra politico-affaristica per far sparire le banche cattoliche. Il passo è da farsi con tutta urgenza»118.
Difficile stabilire i contorni precisi della «manovra politico-affaristica» se non ricorrendo al carteggio di padre Tacchi Venturi, sottile tramite diplomatico tra le due sponde del Tevere. Il primo intervento consistette nel chiedere i necessari chiarimenti a Bonaldo Stringher, il quale rispose119 affermando che non vi era alcuna intenzione da parte della Banca d’Italia di preferire il crollo della banche cattoliche: «tanto meglio se queste, come pare credano, hanno trovato un rimedio sicuro; più lieta la Banca d’Italia, che non subirà ulteriormente l’incubo di una situazione bancaria che minaccia gravemente, per altrui colpa, la tranquillità presente e futura dell’economia nazionale»120. Una risposta che, se non nella forma, nella sostanza, conteneva le perplessità del governatore in ordine all’intervento finanziario diretto dello Stato sia pure tramite il costituendo Istituto centrale di credito, considerato «un rimedio sicuro».
Tacchi Venturi si dichiarò soddisfatto della risposta e, nell’informare il cardinale Gasparri della lettera di Stringher, puntualizzò due cose che
«si fanno chiare: la prima è che alla Banca hanno sentito al vivo l’essere chiamati in causa della rovina cui si avviano le banche cattoliche; la seconda che il Capo del Governo (come mi lasciò intendere avrebbe fatto nel colloquio avuto meco) dovette significare al Governatore la sua decisa volontà di conservare i pericolanti Istituti, quelli, s’intende, come chiaramente si espresse, che non agonizzano e si reggono con l’ossigeno, ma posseggono ancora tanto di spiriti vitali da recuperare le forze e rimettersi in buona salute»121.
Piena fiducia in Mussolini e nella sua capacità di vincere le resistenze all’interno del governo e della Banca d’Italia, che sembravano definitivamente superate quando il 19 dicembre 1928 venne diffuso l’annuncio della costituzione dell’Istituto centrale di credito alla cui presidenza fu chiamato Nicola Bevilacqua122.
Per essere completamente operativo, l’Istituto doveva raccogliere l’adesione delle banche interessate, aderenti o meno alla Federazione bancaria italiana, e costituire il capitale da impiegare nelle situazioni più urgenti. In tal senso, agli inizi del gennaio 1929, venne richiesta alla Banca d’Italia l’autorizzazione a operare con i primi 15 milioni versati e la concessione di un risconto di 40-50 milioni su portafoglio ordinario. A questo punto rientrarono in campo le resistenze che bloccarono, di fatto, il funzionamento dell’Istituto centrale di credito. Infatti non fu concesso il risconto e tanto meno una partecipazione al capitale da parte del Tesoro, sotto forma di prestito, mentre la situazione di molte banche cattoliche sembrò precipitare e si intensificarono gli interventi diTacchi Venturi123.
Ancora una volta il Concordato aiutò la ricerca della soluzione. La Convenzione finanziaria – 750 miloni in contanti e 1 miliardo in titoli – permise il cambiamento di passo delle finanze vaticane. Pio XI con il Motu proprio del 7 giugno 1929124 diede vita all’Amministrazione speciale della Santa Sede chiamando a dirigerla, in qualità di delegato, l’ing. Bernardino Nogara, fratello di monsignor Giuseppe, arcivescovo di Udine e di Bartolomeo, direttore dei Musei vaticani. In campo finanziario Nogara125 non era uno sconosciuto ma dotato di una tale riservatezza da diventare quasi invisibile, un’ombra appunto. Poche le sue orme anche in archivi importanti. La sua posizione di delegato non risultava al di fuori del perimetro vaticano se la nunziatura apostolica in Italia, nel chiedere i passaporti in favore di alcune personalità vaticane, fra le molte elencate, accanto ad Angelo Giuseppe Roncalli, delegato apostolico in Turchia, poneva Bernardino Nogara con la qualifica di Comandante126 delle Guardie nobili del papa, un titolo assai richiesto ma poco concesso. In quegli anni, dunque, Nogara era cittadino vaticano per le funzioni ricoperte e metterà la sua indiscussa abilità al servizio delle finanze vaticane imponendone una completa riorganizzazione, trasformando l’Amministrazione speciale in una merchant-bank internazionale127. Tra le incombenze Nogara si addossò quella del salvataggio delle banche cattoliche e del ruolo dell’Istituto centrale di credito, mentre la gestione delle somme concordatarie passò attraverso la Banca commerciale italiana. La sua abilità fu decisiva per risolvere l’intricata questione.
Il 12 aprile 1929 Mussolini comunicava a Bevilacqua e Tacchi Venturi la svolta: dinanzi «alla verità dei fatti» e alla «sodezza delle ragioni esposte» proponeva di costituire un capitale di 100 milioni con una contribuzione paritaria tra Stato e Santa Sede128. Le vicende successive, nonostante la disponibilità di Pio XI a concedere la somma a titolo di prestito allo Stato, sono racchiuse in una breve affermazione di Mario Pettoello, legale dell’Istituto centrale di credito, al padre gesuita: «È ormai lampante che il Capo vuole, e che gli organi esecutivi frappongono mille ostacoli»129.
Tutto il 1929 fu speso nelle schermaglie per assicurare il capitale di funzionamento del nuovo organo federale delle banche cattoliche. L’effettivo funzionamento ebbe inizio quando alla presidenza venne nominato Stefano Cavazzoni. Da quel 15 maggio 1930 i cordoni della borsa della Banca d’Italia improvvisamente si aprirono. Anzi, a giochi fatti ma non ancora definitivamente compiuti, Bevilacqua, come suo ultimo atto, ottenne i sospirati primi 50 milioni. Il suo successore, tra novembre 1930 e gennaio 1931, chiese, e ricevette dalla Banca d’Italia tramite l’Istituto di liquidazioni, altri 40 milioni per fronteggiare l’ingarbugliata questione del risanamento bancario. Rimanevano i 50 milioni che secondo gli accordi dovevano essere versati all’Istituto centrale di credito dalla Santa Sede. Nella realtà Nogara concesse i 50 milioni allo Stato a titolo di prestito per sei anni con un modico tasso di interesse: l’1%130. Alla fine, dunque, la questione si risolse con un esborso di 140 milioni. Con buona pace di Stringher e Introna.
In questo contesto, la figura di Bernardino Nogara merita qualche spiegazione in più, a causa delle molteplici confusioni che esistono sulla struttura finanziaria vaticana. La segretezza che circonda le finanze vaticane sollecita, e solletica, ricostruzioni che sconfinano in imprecisioni ed errori. Per capire, o per tentare di capire, quanto accadrà nei decenni successivi, è opportuno chiarire, nei limiti imposti dalle fonti, alcuni aspetti di queste finanze.
Sino al 1929, la centrale finanziaria della Santa Sede era l’Amministrazione dei Beni della Santa Sede (ABSS) e faceva capo al segretario di Stato, il cardinaleGasparri. La gestione degli investimenti – azioni, obbligazioni, titoli di Stato – era affidata a diversi banchieri europei – svizzeri, tedeschi, francesi, olandesi e inglesi – che si appoggiavano alle nunziature presenti in questi paesi. Un sistema farraginoso e un po’ dilettantesco in quanto mancava nel segretario di Stato la capacità, ad esempio, di Giacomo Antonelli. Non era quindi infrequente che Gasparri chiedesse a monsignor Pietro Di Maria, nunzio in Svizzera, «quale interesse darebbe la somma di 2 milioni di franchi francesi depositati presso la “Société de Banque Svizzera” [sic], Basilea»131. Allo stesso nunzio si era rivolto anche il segretario dell’altra istituzione che, sia pure in tono minore, gestiva flussi finanziari. Si trattava di monsignor Carlo Cremonesi, segretario dell’Amministrazione pontificia per le opere di religione, che in una lettera a Di Maria chiedeva su quale banca aprire un conto corrente «di una certa entità»132. A queste due amministrazioni si affiancavano le Congregazioni che pure potevano autonomamente investire capitali attivando i medesimi canali, come nel caso della Sacra Congregazione del Sant’Offizio che nel 1936-1937 preferisce agire da sola negli Stati Uniti tramite il delegato apostolico monsignor Amleto Cicognani per investimenti in azioni AT&T, con il risultato di perdite sensibili133. Né, infine, mancava il caso che fosse lo stesso pontefice ad affidare al nunzio di turno a colloquio somme liquide da investire134.
L’arrivo di Nogara mise un po’ di ordine. All’Amministrazione speciale della Santa Sede fu conferita la gestione delle somme derivanti dalla convenzione finanziaria stabilita daiPatti Lateranensi, oltre i proventi dell’obolo135. Le modalità degli investimenti operate da Nogara si appoggiavano, oltre che alla Banca commerciale italiana, ad altre case bancarie europee e statunitensi. L’Amministrazione speciale si ramificò quindi in Europa e in America muovendosi con molta accortezza per proteggere gli investimenti. La «questione Sudameris»136 ci consente di far luce, almeno in parte, sulle strategie utilizzate. L’impegno della Santa Sede, tramite l’Amministrazione speciale, risulta sia da investimenti diretti nella Sudameris137 che dal deposito di somme provenienti dalla riscossione di interessi relativi all’acquisizione di azioni della Banque d’État du Maroc138. Il pagamento delle azioni in godimento proveniva, in parte, da conti vaticani nelle case bancarie J.P. Morgan & Co. di New York (350.000 dollari), Morgan Grenfell & Co. Ltd di Londra (100.000 sterline) e, in parte, da contanti dalla Morgan & Cie di Parigi.
Tutto sommato si trattava di normali operazioni finanziarie. Le difficoltà sorsero durante il secondo conflitto mondiale quando la filiale argentina di Buenos Aires della Sudameris (il fiduciario era Giovanni Malagodi) prospettò serie difficoltà operative alle reti sudamericane della banca finite nella lista nera delle forze alleate per i loro rapporti con la Germania139, anche se l’Argentina si manteneva neutrale. Per risolvere la questione intervenne Bernardino Nogara che, attraverso la Profima S.A. e la SAMO140, dichiarò la proprietà azionaria della Sudameris appartenente in misura prevalente alla Santa Sede141. Un aiuto di non poco conto.
Il 2 marzo 1939 saliva al soglio pontificio Eugenio Pacelli. La lunga esperienza diplomatica e politica di Pio XII contribuì a imprimere un nuovo corso alla teologia politica della Chiesa. La base di partenza rimaneva quella dei suoi predecessori. Le encicliche di Pio XI Non abbiamo bisogno (1931) e Divini Redemptoris (1937) avevano riproposto l’attualità degli insegnamenti della Chiesa e i fondamenti della sua dottrina sociale. In modo particolare, la seconda enciclica conteneva una esplicita e articolata condanna del «comunismo bolscevico e ateo che mira a capovolgere l’ordinamento sociale e a scalzare i fondamenti della civiltà cristiana»142. Per fronteggiare il pericolo era necessario il ritorno al «Salvatore del mondo» che «inaugurò una nuova civiltà universale, la civiltà cristiana, immensamente superiore a quella che l’uomo aveva fino ad allora laboriosamente raggiunto in alcune nazioni più privilegiate».
Nei due radiomessaggi natalizi del 1942 e del 1944, Pio XII si mosse con più realismo. Alle forme dottrinali preferì quelle che la realtà dei tempi imponeva. La dimensione storica entrava di forza nei due documenti papali: nel primo era l’ordinamento dello Stato a essere analizzato con un richiamo diretto a S. Agostino, nel secondo le condizioni spirituali e morali alla base della democrazia purché temperata dalla presenza vigile della Chiesa:
«È appena necessario di ricordare che, secondo gl’insegnamenti della Chiesa, “non è vietato di preferire governi temperati di forma popolare, salva però la dottrina cattolica circa l’origine e l’uso del potere pubblico”, e che “la Chiesa non riprova nessuna delle varie forme di governo, purché adatte per sé a procurare il bene dei cittadini”»143.
In entrambi i documenti la centralità dell’azione dell’uomo è condizione irrinunciabile perché la libertà sia, di fatto, il motore dell’impegno sociale. La condanna del comunismo e lo spettro politico dell’Unione Sovietica imponevano alleanze diverse in grado di preservare i valori del cattolicesimo. La futura collocazione politica dell’Italia portava con sé il pieno riconoscimento dei princìpi della democrazia rappresentativa, del liberalismo e del capitalismo. In previsione delle profonde trasformazioni che la fine del conflitto avrebbe generato, il Vaticano si mosse con grande accortezza e velocità.
Sul piano politico, il rinnovato impegno del cattolicesimo passò attraverso l’Azione cattolica144 che, prima ancora della formazione della Democrazia cristiana, fu il grande organizzatore del consenso popolare guidato daAlcide De Gasperi e dell’impegno politico dei cattolici a partire dalla collaborazione con il breve governoBadoglio, che porrà le basi della futura azione politica.
La forma-partito, da intralcio, diveniva una grande opportunità. Alcuni dei più autorevoli rappresentanti del popolarismo oltre De Gasperi – Gronchi, Scelba, Piccioni – furono affiancati da uomini provenienti direttamente dall’Azione cattolica – Bernardo Mattarella145 –, dall’Università cattolica – Dossetti – e quasi direttamente dal Vaticano –Andreotti e Gonella. Il collante culturale del futuro partito sarà il cattolicesimo sia come espressione della cultura politica sia come modello di organizzazione sociale. L’Azione cattolica, e con essa la Chiesa, indicherà al partito i valori operativi anche nel contesto socio-economico, in linea con la concezione eusebiana della teologia politica della Chiesa.
Sul piano finanziario, Pio XII, pur prendendo progressivamente le distanze dal regime fascista, non mancò di restituire alcuni favori. Nel 1935 il governo aveva imposto al Vaticano una cedolare del 20% sui dividendi azionari puntualmente pagati. Sembrarono però troppi, anche se in linea con il volume degli investimenti azionari. Sicché, nel 1942, l’allora sostituto alla Segreteria di Stato monsignor Giovanni Battista Montini rinegoziò gli accordi finanziari ottenendo la completa esenzione dal pagamento della cedolare secca sui dividendi di tutte le organizzazioni che facevano capo alla Santa Sede, Istituto per le opere di religione compreso146.
La benevolenza fiscale fu immediatamente restituita in due modi. La sottoscrizione di un ingente quantitativo di buoni del Tesoro in scadenza nel 1944 e il parcheggio, su un conto Ior e trasferiti negli Stati Uniti, di tre milioni di dollari, grazie alla mediazione di Tacchi Venturi, restituiti nel 1945 all’ambasciatore del governo Bonomi a Washington147.
Anche l’Azione cattolica non si dimenticò delle banche e mise in campo il presidente, l’avvocato vicentino Vittorino Veronese, particolarmente attivo in due operazioni bancarie degli anni 1944-1946, destinate a future ripercussioni, condotte con l’appoggio dello Ior, per conto del quale agiva Massimo Spada, nipote di Giovanni, amministratore e, in seguito, proprietario del Banco Torlonia ai tempi del cardinale GiacomoAntonelli.
Nel 1944 due erano gli obiettivi: riavere il controllo del Banco di Roma e delle banche controllate dall’Istituto centrale di credito.
Per quanto riguarda il primo, in via preliminare, era necessario depotenziare la completa fascistizzazione del Banco di Roma, il «grande pupillo del regime», come ebbe a definirlo lo stesso presidente Aristide Guarneri148. Il 25 maggio 1944, per «ragioni personali», Guarneri si dimise sostituito da Augusto De Marsanich, designato dall’Iri. Il fascismo desiderava una persona più «sicura» per la direzione nel Nord Italia, mentre al Sud fu mantenuto il comitato già nominato con Giuseppe Veroi, Romolo Vaselli e Filippo Cavanna149. La nuova amministrazione durò molto poco. Il 14 novembre 1944 vi furono ulteriori mutamenti nel Consiglio di amministrazione del Banco di Roma: si dimise il conte Ignazio Thaon di Revel rilevato da Ugo Foscolo, una lunga esperienza nel Banco e futuro amministratore nell’immediato dopoguerra. Il nuovo consiglio restò in carica sino al 19 maggio 1945 quando fu sciolto e si diede vita al regime commissariale di Ugo Foscolo. Gli organismi della Resistenza mostrarono molta diffidenza verso il Banco, tanto da indurre il ministro del Tesoro Marcello Soleri a sostituire i due vice commissari con Alberto Theodoli e Giorgio Bruno Zambruno.
Il regime commissariale terminò con l’assemblea del 6 settembre 1945, che segnava il ritorno del Banco nell’ambito cattolico. Il nuovo presidente fu Costantino Bresciano Turroni (liberale e allievo diMaffeo Pantaleoni), il vice Giorgio Bruno Zambruno. Amministratore delegato Ugo Foscolo. Tra i nuovi consiglieri entrarono Ludovico Montini e Giulio Pacelli. Tra i sindaci Vittorino Veronese, in seguito presidente. La restaurazione del Banco si era conclusa. Fu perfezionata negli anni successivi con l’introduzione tra i consiglieri di Massimo Spada, segretario dello Ior, in seguito il suo rappresentante in una sterminata rete di investimenti azionari.
Il secondo obiettivo ebbe inizio con il commissariamento e la successiva estinzione dell’Istituto centrale di credito voluto dal governoBadoglio. Durante i 45 giorni di governo, Ivanoe Bonomi affidò a Vittorino Veronese, presidente dell’Azione cattolica, la «questione» delle banche affidate all’Istituto centrale di credito, guidato da Stefano Cavazzoni e dall’on. Francesco Mauro. Agli inizi del 1945 l’Istituto aveva esaurito il suo obiettivo e risultava un vincolo politico non più sopportabile per le finalità che si delineavano. Occorreva sgombrare il campo da residuati fascisti. La via seguita, concordata tra Vittorino Veronese, Massimo Spada e Donato Menichella fu, appunto, il commissariamento dell’Istituto con l’allontanamento di Cavazzoni e di Francesco Mauro. Il commissario fu Vittorino Veronese e lo «strumento» per ottenere i risultati sperati l’Istituto per le opere di religione. L’obiettivo principale era la Banca cattolica del Veneto. Terminata la lunga presidenza di Luigi Montresor, l’assemblea della Banca cattolica del Veneto del 5 agosto 1945 elesse nuovo presidente Umberto Merlin al quale spettò il compito delle trattative per la cessione della maggioranza del pacchetto azionario dall’Istituto centrale di credito allo Ior. L’annuncio del trasferimento fu dato nell’assemblea del 6 marzo 1946 durante la quale furono eletti consiglieri anche Vittorino Veronese, divenuto nel frattempo presidente dell’Istituto centrale di credito, Massimo Spada e Luciano Giacomuzzi. Con queste parole Merlin annunciò la conclusione delle trattative:
«Una così felice operazione finanziaria è stata conclusa per l’efficace interessamento dell’avv. Vittorino Veronese, già commissario straordinario e poi presidente dell’Icc, del comm. Massimo Spada, per la parte finanziaria, dell’Ior e sotto gli auspici della Direzione centrale della Banca d’Italia, in seguito al desiderio espresso dall’episcopato veneto»150.
La presidenza Merlin durò un anno. Nominato sottosegretario di Stato alla Giustizia, si dimise. Nuovo presidente fu eletto Massimo Spada, che rimarrà in carica sino al 1983. Il cerchio era chiuso con qualche strascico polemico dovuto alle reazioni di Francesco Mauro che accusava
«gli amici della Democrazia cristiana ai quali sarà tuttavia bene far presente, nei modi dovuti, che è conveniente lasciar svolgere con tutta tranquillità il compito dell’Istituto senza rimestare antiche questioni, ormai superate da un pezzo, ma che dissotterrate manderebbero assai cattivo odore per largo spazio d’intorno»151.
Le antiche questioni risalivano alle modalità con le quali si era proceduto alla costituzione della Banca cattolica del Veneto. Le forze della nascente Democrazia cristiana veneta – Mariano Rumor, Giustino Valmarana, Umberto Merlin e lo stesso Veronese, seppure più defilato politicamente – non desideravano la continuità dirigenziale della banca rimasta pressoché immutata dal 1930.
Finalmente, nel 1946, avvenne il passaggio azionario allo Ior, non proprio indolore. Nel timore che la banca passasse in mani laiche, i vescovi veneti decisero di riacquistare le azioni della banca di proprietà dell’Istituto centrale di credito e, poiché le disponibilità erano quelle che erano, si rivolsero allo Ior per ottenere la somma necessaria. Il pacchetto azionario valeva 86 milioni di lire mentre la quota azionaria in possesso del cessato Istituto centrale di credito e di proprietà delle diocesi del Veneto assommava a 60 milioni. Nel 1946, i vescovi veneti, tramite il cardinale Nicola Canali, proposero che lo Ior acquistasse in proprio 26 milioni e anticipasse ai vescovi del Veneto i restanti 60 milioni da restituire entro cinque anni, con la clausola del riacquisto anche dei 26 milioni di proprietà vaticana. La proposta non venne accettata e le trattative trovarono l’accordo sulla cifra di 40 milioni restituibili in 5 anni. Lo Ior manteneva i restanti 46 che, formalmente, potevano essere riacquistati. La lettera di monsignor Alberto Di Jorio, succeduto a monsignor Carlo Cremonesi alla presidenza dello Ior, con la quale informava l’arcivescovo di Udine Giuseppe Nogara dei patti da sottoscriversi, conteneva una piccola clausola di grande importanza per il futuro della banca. Lo Ior era disponibile a prendere in considerazione il rilievo di tutto il pacchetto azionario da parte dei vescovi. Si riservava, però, anche la possibilità di «disfarsi della sua partecipazione»152.
Il ricorso allo Ior ebbe due motivi. Il primo riguardava le restrizioni della legge bancaria del 1936 che impediva alle banche di acquisire partecipazioni azionarie di altri istituti. Il secondo ne era la diretta conseguenza. Lo Ior non era una banca ma una società finanziaria sia pure un po’ particolare e, inoltre, aspetto non trascurabile, era stato lo Ior a condurre il gioco per conto della Santa Sede. I vescovi confidavano nel riacquisto che non si realizzò e l’assetto della Banca cattolica del Veneto si mantenne inalterato sino al 1972.
Lo Ior non perse tempo a chiarire i rapporti di forza con la banca. Il 22 agosto 1946 al presidente Umberto Merlin era recapitata una lettera di monsignor Alberto Di Jorio153: in tre fitte pagine dattiloscritte erano ripercorsi i legami tra i due istituti e ribaditi i reciproci rapporti che, stando alla lettera, si erano trasformati in direttive, politiche e gestionali. Di Jorio parlava a nome dei vescovi veneti che si rivolgerebbero al presidente della banca tramite lo Ior. Veramente uno strano modo di comunicare. In realtà, il contenuto sembra appartenere più a Vittorino Veronese, in accordo con Massimo Spada, che ai vescovi o a Di Jorio per un particolare inciso al quale si farà cenno in seguito.
Anzitutto era necessario, e la premessa non è di poco conto:
«tenere estranea, e direi quasi al di sopra, la Banca da ogni competizione di carattere politico. È bensì vero che, nell’attuale situazione Italiana, è assai difficile poter essere estranei al movimento politico nel quale si vive, ma appunto per il nome di “Cattolica” che la Banca porta, e per la ormai nota conoscenza della proprietà della maggioranza del capitale azionario è necessario che tutti coloro che appartengono in qualunque modo alla Banca, nell’ambito della stessa, facciano opera di esclusiva amministrazione, ispirandosi soltanto a quegli immutabili principi di correttezza e di morale che sono alla base della nostra fede religiosa»154.
Il seguito della lettera poneva in evidenza l’opportunità «di limitare le erogazioni per beneficenza allo stretto necessario, almeno fino a che gli utili dell’esercizio non consentano una più efficace dotazione dei mezzi all’uopo occorrenti; ed è opportuno anche far sì che tale beneficenza sia fatta a ragion veduta, vagliando accuratamente le richieste»155. Allo stesso modo ci si doveva comportare per le «richieste locali», di contenuto più sociale, per le quali valeva il limite dei bilanci e lo stato di crisi, «che è facile profezia delineare prossimo», che impone «il massimo raccoglimento e la più ferrea e scrupolosa economia al fine di render sempre più saldo il patrimonio della Banca». In chiusura l’imposizione, che viene denominata proposta, di dar vita ad un organo di controllo ispettivo continuativo:
«Infine l’Episcopato Veneto ha convenuto in una mia proposta intesa a stringere maggiori legami fra questo Istituto e la Banca stessa. La Banca Cattolica del Veneto, durante il periodo nel quale l’Istituto Centrale di Credito ne possedeva la maggioranza, era in stretto contatto con questo ed inviava periodicamente tutti quei dati che erano necessari per seguire l’andamento della Banca, in ogni suo sviluppo. È mio intendimento di riprendere, come Istituto per le Opere di Religione, nella veste di principale azionista, in proprio e per conto degli Ecc.mi Vescovi del Veneto, la funzione ispettiva già dell’I.C.C., e di delegare, a tal uopo, lo stesso rag. Bausani, il quale ha, in passato, lodevolmente assolto tale compito. In tal modo potrà venire integrata l’opera che già il Dr. Spada svolge nell’ambito del Comitato Direttivo e del Consiglio di Amministrazione, e sono sicuro che Ella gradirà questo nuovo più stretto sviluppo dei rapporti fra la Banca Cattolica del Veneto e l’Istituto per le Opere di Religione»156.
A evitare equivoci, la chiusa della lettera ricorda a Umberto Merlin «che saranno apprezzate nella giusta luce queste direttive che, a nome dell’Episcopato Veneto, ho l’onore di impartirLe e tale certezza è confortata dal fatto che è a mia conoscenza l’affetto che Ella porta alla Banca e gli sforzi da Lei fatti per migliorarne e potenziarne la compagine»157. L’anno successivo Merlin abbandonava la presidenza per assumere incarichi governativi. Il nuovo presidente fu Massimo Spada. La Banca era avviata sulla strada dell’espansione, prevista da Piovesan, ma con modalità diverse.
Il 27 luglio 1971 la società Compendium – trasformata successivamente in Banco Ambrosiano holding158 – scriveva allo Ior una lettera nella quale erano stabilite le condizioni dell’offerta di acquisto del 50% delle azioni della Banca cattolica del Veneto. La somma era di 46,5 milioni di dollari con l’impegno di «mantenere invariata l’attività della banca dal punto di vista degli alti scopi sociali, morali e religiosi cattolici». Nella seduta consigliare del 20 aprile 1972, l’amministratore delegato Secondo Piovesan, la figura storica della Banca, abbandonava l’incarico. Le sue non furono parole di circostanza perché lasciavano intravedere i possibili scenari futuri e meritano di essere riprese:
«Con il trapasso quantitativo di azioni dall’Istituto per le Opere di Religione a “La Centrale finanziaria”, società controllata da una holding estera, la maggioranza relativa (37%) del capitale sociale della nostra Banca passa alla cennata società d’affari, per nulla legata alle origini, alle tradizioni dell’Istituto […]. È legittimo pertanto che chi, come me, ha trascorso la sua vita di lavoro al servizio dell’ideale cattolico […] esprima la propria profonda amarezza. Ciò che più tocca la mia persona è l’essermi trovato di punto in bianco di fronte al fatto compiuto, quando io stesso fui presente agli accordi del 1946 fra l’Istituto per le Opere di Religione e l’Episcopato Veneto, accordi in base ai quali la nostra Banca divenne strumento creditizio al servizio della Diocesi nell’ambito territoriale delle Venezie. Siamo giunti da una svolta, proprio quando il nostro Istituto vanta una solida situazione patrimoniale ed è soprattutto ricco di beni morali… Non mi è dato ora prevedere quale sarà l’avvenire del nostro complesso bancario, dovunque ammirato, lodato invidiato»159.
L’avvenire, alla fine e con molte giravolte, si chiamerà Banca Intesa.
Dal secondo dopoguerra, la questione bancaria, a livello nazionale e internazionale, fu presa in carico dalle forze politiche uscite dalla caduta del regime fascista. I lavori per la Costituente offrono alcuni spunti che fanno intravedere le linee di sviluppo della questione, ma venne mantenuta l’intelaiatura data dalla risoluzione della crisi bancaria degli Anni Trenta e dalle leggi del 1926 e 1936.
Il controllo centralistico, il dualismo bancario tra credito a breve e a medio e lungo termine e quindi la netta separazione tra banca e industria, l’erogazione del credito speciale e di quello agrario da parte di istituti controllati direttamente dallo Stato sono ritenuti ancora essenziali dal programma del Partito comunista negli anni 1944-1945. Nel rapporto pronunciato al V Congresso del Pci del 29 dicembre 1945, Palmiro Togliatti affermava che lo sviluppo economico e industriale del paese non «si potrà fare senza un intervento dello Stato, senza l’introduzione di elementi di organizzazione da parte dello Stato democratico in tutta la nostra vita industriale. Lo Stato dovrà quindi prendere nelle sue mani la grande industria monopolistica e rendere effettivo il suo controllo di tutto il sistema bancario»160. Togliatti aveva ragione: lo Stato mantenne l’intervento diretto nell’economia e nel sistema bancario; solo che non fu il Pci il protagonista, ma la Dc.
Lo scontro tra i due maggiori partiti di massa riguardava infatti anche l’economia e la finanza. Entrambi i partiti erano concordi, sia pure per motivi opposti, nel favorire il mantenimento del dualismo bancario ereditato dal fascismo che rifletteva il dualismo imprenditoriale. La centralità dello Stato era considerata una difesa del proletariato delle fabbriche dal Partito comunista, dei contadini, degli artigiani e dei piccoli imprenditori di estrazione cattolica dalla Democrazia cristiana a fronte delle grandi famiglie «laiche» del capitalismo italiano.
La politica bancaria e finanziaria seguiva questa forte connotazione ideologica almeno per il primo ventennio repubblicano. Sicché fu privilegiata l’azione delle banche Iri a sostegno della grande impresa, ma alle stesse fu impedito qualsiasi tentativo di ritorno alla banca mista, mentre fu consentita una maggiore espansione territoriale delle banche minori – casse di risparmio, casse rurali, banche popolari – a sostegno del mondo agrario e della piccola impresa161. Ciò comportò un sensibile dimagrimento delle quote di mercato detenute dalle banche di maggior peso con risvolti negativi abbastanza evidenti: scarsa disponibilità di risorse per le aree maggiormente dinamiche, ridotte economie di scala e poca propensione al rischio. A sostegno della grande impresa rimanevano gli istituti di credito speciale sempre più legati alle forze politiche162.
A fronte di un mercato mobiliare assai ristretto e scarsamente efficiente, il ruolo di Mediobanca, fondata nel 1946 da una felice idea di Raffaele Mattioli, si fondava su di un presupposto contradditorio: le tre banche Iri – Banca commerciale italiana, Credito italiano, Banco di Roma – erano coordinate da una loro controllata. L’idea di banca universale auspicata da Mattioli si trasformava in un ibrido bancario punto di riferimento per gli equilibri fra le grandi imprese e l’intervento dello Stato: un po’ banca di investimento, un po’ di finanziamento, un po’ merchant bank163.
La centralità dello Stato ripropone il ruolo del partito di riferimento dei cattolici nel controllo della quasi totalità del sistema del credito attraverso il ministero delle Partecipazioni statali, che gestiva l’Iri e le banche di interesse nazionale, e la filiera creditizia delle banche di credito ordinario, delle casse di risparmio, delle casse rurali e di molte popolari. Non a caso Guido Carli ebbe a sostenere che i cattolici guidavano le casse di risparmio, con Giordano dell’Amore incontrastato protagonista, ma non solo:
«Le armate bianche capitanate dal presidente della Cariplo propugnavano una visione amministrativa, dirigistica del credito che svuotava i singoli istituti di qualsiasi potere (o dovere) discrezionale nell’erogazione dei fidi sulla base della valutazione del merito di credito. Essi avanzavano una concezione “pubblicistica” del credito che si spingeva fino all’idea che la Banca d’Italia avrebbe dovuto imporre amministrativamente i tassi di interesse, attivi e passivi, venendo dunque a costituirsi non più come banca centrale, ma come capogruppo»164.
Uscita dal tumultuoso periodo della ricostruzione, l’Italia iniziava la lunga stagione degli interventi pubblici nell’economia operati dalla Dc, legati a una particolare concezione di capitalismo, etichettato come «capitalismo assistenziale», espressione di una classe dominante, più che dirigente, che ha fatto del legame politico la sua ragion d’essere165.
Svaniva definitivamente l’equivoco ‘finanza laica’ e ‘finanza cattolica’ e, per tornare a don Sturzo, gli aggettivi sono stati usati a sproposito. Nella sostanza, sono ancora valide le parole di Giovanni Spadolini, pronunciate nel 1987 a seguito del feroce scontro intorno a Mediobanca: «La distinzione laici-cattolici non c’entra nulla con le banche e gli istituti di credito, in cui debbono comunque prevalere la capacità gestionale e il rigore professionale dei vertici. C’entra semmai con una lotta talvolta spietata per l’occupazione della società civile da parte dei partiti, in cui la Dc non è la sola protagonista»166.
Tuttavia, se si vuole prendere in considerazione il peso dei cattolici nel delicato e fondamentale settore bancario-finanziario, si incontra un vuoto difficile da colmare: il peso delle finanze vaticane nelle proprietà delle banche e negli investimenti azionari. Capitali invisibili sino a quando non scoppia lo scandalo, e il caso Banco Ambrosiano è emblematico per la sua ampiezza. È impossibile quantificarne il peso. Lo si può dedurre, per difetto, da un episodio. Nel 1968, nelle more della formazione del governo Moro, lo Stato italiano invitò la Santa Sede a corrispondere la cedolare secca del 30% sui possessi azionari167. Alla fine delle lunghe trattative l’accordo fu trovato: sei miliardi e mezzo la somma dovuta dallo Ior.
È solo un episodio che però fa intravedere la continuità della presenza della Chiesa nell’economia italiana e internazionale e consente di meglio valutare le mosse successive in un contesto particolare. Tra il 1965 e il 1968 Paolo VI intervenne profondamente nel complicato sistema delle finanze vaticane168. Nelle stanze ovattate della Curia, Paolo VI si impegnò a fondo per un radicale cambiamento delle strutture del Vaticano, reparto finanziario compreso, affidando l’intera questione al cardinale Benelli. Le incrostazioni, però, erano di lunga data e Giovan Battista Montini aveva avuto una conoscenza diretta di questi aspetti sia come sostituto alla Segreteria di Stato sia come arcivescovo di Milano.
Durante il concilio Vaticano II la questione finanziaria della Santa Sede fu oggetto di molti interventi che si tradussero in indicazioni contenute in vari documenti. Paolo VI trasferì queste volontà nella costituzione apostolica Regimini Ecclesiae Universae, pubblicata il 15 agosto 1967169. Intanto la politica fiscale dei primi governi di centro-sinistra mirava a limitare le esenzioni fiscali sui proventi finanziari degli investimenti azionari, dunque anche quelli della Santa Sede già rinegoziati nel 1942 dall’allora sostituto alla Segreteria di Stato Giovan Battista Montini. Rudolf Lill sottolinea che la Populorum Progressio inaugurava «un nuovo orientamento nella politica degli investimenti vaticani: essa non avrebbe dovuto seguire il criterio del massimo profitto, come avveniva agli inizi sotto la guida di Nogara, ma avrebbe dovuto ispirarsi a princìpi etici»170. Tuttavia valorizzare i princìpi etici e affidarsi a Michele Sindona, Paul Marcinkus e Roberto Calvi anche dopo il 1974, anno del crack Sindona e delle voci che sempre più numerose circolavano sulle relazione pericolose del Vaticano, fu una scelta che si rivelò quantomeno discutibile171.
Comunque sia, l’urgenza della riforma finanziaria era dovuta alle pressioni dell’opinione pubblica e della politica, convinte della necessità che anche la Santa Sede si avviasse sulla strada della pubblicizzazione dei bilanci: il che non significava affatto trasparenza, non richiesta neppure per l’intero sistema bancario-finanziario italiano.
Nonostante agisse nel più completo anonimato ed al riparo dalle leggi italiane, la Santa Sede si era mossa con sorprendente rapidità, seguendo la strada tracciata proprio daBernardino Nogara per l’Amministrazione speciale della Santa Sede all’indomani della conclusione del Concordato.
Dal secondo dopoguerra in poi, con Nogara (almeno sino alla sua morte avvenuta nel 1958) con Massimo Spada172, Vittorino Veronese, il cardinale Nicola Canali, monsignor Alberto Di Jorio poi cardinale e con il suo successore monsignor Donato De Bonis, la finanza vaticana, rappresentata dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica173 e dallo Ior, aveva preso a scorrere in molteplici settori e in numerosi paesi.
Nel 1965, però, Massimo Spada, sessantaduenne, venne, per così dire, pensionato pur mantenendo numerosissimi incarichi. Vittorino Veronese inviò a Paolo VI, il 30 gennaio 1965, un articolato promemoria, frutto di un intenso lavorìo diplomatico, che riguardava due aspetti. Il primo prevedeva un nuovo organismo centrale per l’apostolato dei laici; il secondo trattava di «taluni aspetti dell’Amministrazione economico-finanziaria della Santa Sede»174. I tre temi trattati in questo secondo appunto erano di grande attualità e importanza.
Il primo si riferiva alla mancanza di un bilancio globale della Santa Sede, non tanto per renderlo pubblico come «taluni auspicano», soggiungeva Veronese, ma per un maggior coordinamento tra le varie amministrazioni che dovrebbero essere assimilate ai ministeri degli Stati laici.
Il secondo, dopo la scomparsa di Bernardino Nogara e la progressiva marginalizzazione di Spada, giudicava assai negativa la mancanza di finanzieri e banchieri laici «dotati di prestigio professionale e morale quali le funzioni comporterebbero». L’annotazione dell’avvocato vicentino prosegue con giudizi emblematici sulle figure ecclesiastiche.
«Di conseguenza l’attenzione viene portata sugli Ecclesiastici titolari di queste funzioni i quali però sono o poco conosciuti al di fuori del Vaticano (come monsignor Guerri) o conosciuti in modo deformato (come il cardinal Di Jorio): l’opinione generale è che i laici siano più adatti degli ecclesiastici per tali mansioni e che non si siano rivelate in questi ultimi competenze così spiccate da giustificare l’eccezione alla regola».
Il terzo punto suggeriva il pensionamento dei cardinali nominati a vita nella gestione finanziaria senza alcuna rotazione, con la conseguenza, talvolta, prosegue Veronese, di un «evidente declino delle facoltà intellettuali e di governo»175.
Se le proposte di Veronese rimasero lettera morta, il riordino delle finanze avverrà comunque, ma con nomi decisamente diversi, anche se, in parte, concordati con Spada, Di Jorio, il cardinale Giovanni Benelli e monsignor Sergio Guerri: Michele Sindona, Umberto Ortolani, Roberto Calvi, Luigi Mennini, Pellegrino de Stroebel, Paul Marcinkus ed altri. Da questo momento in poi la finanza vaticana subì una improvvisa accelerazione attraverso una complicata rete societaria in grado di consentire la più completa riservatezza.
Gli anni Settanta rappresentano sicuramente uno spartiacque fondamentale tanto per la finanza italiana quanto per quella vaticana. I dissesti finanziari delle Partecipazioni statali, i rivolgimenti del sistema politico del paese e la crescita esponenziale del debito pubblico per gli interventi dei crediti speciali, con il conseguente aumento dell’inflazione, spinsero le forze politiche a interrogarsi sulle necessità di maggiori controlli sui capitali e di un doveroso ripensamento della legge bancaria del 1936176. Le vicende Imi/Sir rappresentarono le avvisaglie di quanto sarebbe accaduto in seguito e gli intricati rapporti tra politica e finanza.
Nel panorama bancario italiano, il Banco Ambrosiano era sicuramente la banca a connotazione cattolica più dinamica con forti legami con il Vaticano che risalivano alla cessione da parte dello Ior della Banca cattolica del Veneto. Inoltre, l’internazionalizzazione degli investimenti vaticani, decisi alla fine degli anni ’60, offriva concrete opportunità operative e collaborative tra Banco e Ior. Infatti la decisione voluta da Paolo VI di cedere le numerose partecipazioni azionarie italiane177 attirò l’attenzione non solo di Roberto Calvi, ma anche di Michele Sindona.
È indubbio che la gestione Calvi del Banco, a partire dal 10 febbraio 1971 in qualità di direttore generale, assume contorni sempre più opachi che alla fine produrranno la scomparsa della banca. Le vicende hanno prodotto un abbondante numero di volumi assai diversi per qualità e credibilità178. Molte sono state le ipotesi avanzate, tutte legate al binomio Ambrosiano-Ior a sottolineare la convergenza di interessi che, però, non rappresentano una assoluta novità nella storia bancaria e politica del nostro paese, ma che hanno radici assai lontane, anche se meno eclatanti. Nel Banco Ambrosiano l’influenza della Democrazia cristiana non era particolarmente rilevante, sia nella governance che nella conduzione tecnica; al contrario era assai rilevante quella del Vaticano attraverso lo Ior non solo per la citata cessione della Banca cattolica del Veneto, ma anche per il pacchetto azionario posseduto179.
Gli interrogativi fondamentali riguardano il perché e il come. Riguardo ai motivi, le ipotesi possono ridursi a due: secondo molti, Roberto Calvi avrebbe organizzato un’incredibile ragnatela di società per acquisire il controllo personale del Banco, spinto da una volontà smisurata di potere. Ipotesi suggestiva, corroborata da una fitta rete di rapporti non sempre limpidi ma considerati funzionali al suo piano, che alla fine l’hanno travolto. In questa prospettiva il Banco si sarebbe trasformato nella maggiore banca privata di riferimento per l’intero paese e Calvi nel personaggio che aveva saputo portare i cattolici a essere i protagonisti del futuro economico, e non solo, del paese. Una seconda ipotesi rimanda al clima politico e finanziario del tempo: il Banco Ambrosiano fu liquidato per far nascere un Nuovo Banco Ambrosiano con un criterio di scelta, operato da Nino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi e Giovanni Bazoli, che «tendeva a bilanciare la presenza dei colossi pubblici (come Bnl e San Paolo Imi) con una altrettanto significativa del mondo degli istituti privati: cosa non facile perché […] in quel momento oltre il 70% del mercato era rappresentato da banche pubbliche»180. Le due ipotesi non si elidono sulla base di quanto è avvenuto nei decenni successivi. In altri termini: il Banco poteva essere salvato o doveva necessariamente chiudere? Vi è la convinzione che, se si fosse intervenuti alla fine dell’ispezione Padalino del 1978, una ricapitalizzazione di mille miliardi dell’epoca, unita all’azzeramento delle perdite, sarebbe bastata a far riprendere la vita della banca e, paradossalmente, «con un nuovo management e una conseguente pulizia delle partite nascoste, anche le azioni proprie detenute indirettamente attraverso i portage dello Ior (vicine al 10% allora e al 20% nell’82) si sarebbero in qualche modo valorizzate, diminuendo il “buco” estero a livelli meno esplosivi»181. Inoltre il Banco avrebbe potuto avere un ruolo di rilievo nelle politiche di privatizzazioni che proprio in quel decennio erano in via di definizione.
Il nodo sta, con tutta probabilità, proprio in questo. La ‘vivacità’ della banca di Calvi presentava lati oscuri, evidenziati dall’ispezione, ai quali non si volle porre rimedio. Anzi. Dal 1978 al 1982, pur in presenza delle traversie giudiziarie e personali di Calvi, il Banco mantenne intatta la sua operatività, sino alla quotazione in Borsa pochi mesi prima del collasso. Anche l’entrata/uscita di Carlo De Benedetti, tra la fine del 1981 e l’inizio del 1982, si presta a un altro interrogativo: per quali motivi un finanziere decisamente «laico» fu incoraggiato ad entrare nel diffuso azionariato del Banco, quasi completamente «cattolico»?
Sulle modalità con le quali si è giunti al crack, le strade si dividono, ma gli appunti vanno tutti in direzione dello Ior. Non mancano neppure forti riserve sui comportamenti della Banca d’Italia nella gestione delle risultanze dell’ispezione condotta nel 1978 sino al fatidico luglio del 1982. Tuttavia la luce dei riflettori fu puntata quasi esclusivamente sullo Ior e sulla figura di Marcinkus. Al momento dell’abbandono della presidenza nel 1990, il vescovo americano ribadì, ancora una volta, l’estraneità dello Ior all’intera vicenda e la sua ferma volontà nel contrastare il versamento dello Ior a favore dei creditori del Banco per circa 240 milioni di dollari. Anche in questo caso ci si può chiedere: lo Ior sapeva o non sapeva delle operazioni back-to-back? o lo sapeva soltanto Marcinkus?182.
Alla fine la doppia liquidazione voluta dal governatore chiuse una fase e diede vita al Nuovo Banco Ambrosiano, uno dei protagonisti delle privatizzazioni bancarie. Eugenio Scalfari aveva scritto: «nella sostanza il Nuovo Banco Ambrosiano è un fantasma pressoché inesistente e con assai modesta capacità di ripresa»183; ma in questo specifico settore non bisogna dimenticare altri fallimenti, forse meno vistosi, ma non secondari, che riguardavano la Banca nazionale del lavoro ad Atlanta184 (1990) e il Banco di Napoli (1995). Gli esiti furono diversi. Le privatizzazioni bancarie e le successive concentrazioni sembrano eseguite sotto dettatura e seguono prevalentemente due strade che, con un po’ di imprecisione, possono essere definite una laica e l’altra cattolica, perché da un lato troviamo il Credito italiano poi Unicredit e dall’altro il Nuovo Banco Ambrosiano, poi Banco Ambroveneto, Banco Ambrosiano-BCI, Banca Intesa e, alla fine Banca Intesa-San Paolo Imi185.
E lo Ior? Il risarcimento versato, considerato la prova provata del suo coinvolgimento, non ebbe effetti disastrosi per i suoi bilanci. Al suo interno, però, si iniziò una riflessione sulle modalità gestionali andate troppo oltre i vincoli statutari. I tempi del cambiamento non furono rapidissimi. Solo nel 1990, come si è detto, Marcinkus rientrò negli Stati Uniti. Gli successe Angelo Caloja, al quale spettò il compito di riorganizzare lo Statuto e di recuperare l’immagine pubblica dello Ior186. Compito non facile e neppure di breve periodo. Nonostante la particolare condizione giuridica187, l’Istituto per le opere di religione rimane la colonna portante delle finanze vaticane. Non contribuisce ai bilanci né del Vaticano, né della Santa Sede, ma rappresenta la «vocazione» al capitalismo della Chiesa. Il recente successore di Caloia, Ettore Gotti Tedeschi188, ci spiega che forse non si tratta di vocazione, ma di primogenitura. L’incipit di un suo volumetto non lascia spazio ai dubbi: «Poiché il capitalismo ha origini cristiane e su queste si fonda ancora oggi nonostante le eresie che l’hanno deformato, l’economia di mercato e la globalizzazione che stiamo vivendo sono ancora il sistema che meglio permette all’uomo di valorizzarsi, meglio di altri e nonostante tutto». Per poi proseguire: «La morale cattolica non è mai stata contro il capitalismo o le leggi del mercato né un ostacolo allo sviluppo, anzi»189. Opinioni certamente legittime, riprese in un recentissimo articolo apparso sull’«Osservatore romano»190, che hanno come presupposto altre riflessioni di monsignor Rino Fisichella, per il quale, discutendo di tolleranza,
«lo Stato non può assestarsi in una sorta di neutralità che tutto accoglie e nessuno predilige. Deve senz’altro adoperarsi per riconoscere e difendere le minoranze, anche quelle religiose, ma ciò non può andare a detrimento della maggioranza presente nel paese, che ne rappresenta la storia, la tradizione e l’identità. Infine, riteniamo che in questa sua ricerca e attuazione della verità, lo Stato democratico sia chiamato a tenere fede a questo suo fondamentale attributo. In virtù del suo essere democratico, lo Stato non solo deve accettare di confrontarsi con la Chiesa, ma deve anche saperne accogliere – solo in un secondo momento temperandole – le eventuali ingerenze. Non si tratta di una questione di laicità ma di democrazia, che dà prova di maturità accettando i rischi di tale condizione. La Chiesa invece, richiamandosi a principi che hanno un’origine superiore a quella umana, non potrebbe mai accettare una qualsiasi ingerenza dello Stato riguardo ai propri contenuti. Ciò non rende una superiore all’altro, ma semplicemente riconosce l’autonomia e l’autoctonia di entrambe le istituzioni»191.
Per ritornare alle domande poste all’inizio di questo saggio, ci si chiedeva se la tutela della Chiesa nell’agire economico dei cattolici si fosse dissolta nel secondo dopoguerra. Se le citazioni precedenti non danno luogo a dubbi – la dottrina sociale della Chiesa è considerata la strada maestra per affrontare le trasformazioni in atto192 –, la storia segue strade diverse, non traccia strade maestre, può solo indicare divieti, sensi unici, strade senza uscita. Nessuna scelta è fondamentalmente impossibile; vi sono però scelte costose e scelte che ne contraddicono altre.
Abbreviazioni:
ARSI = Archivum Romanun Societatis Iesu, Roma
ASV = Archivio Segreto Vaticano
ASBI = Archivio storico della Banca d’Italia, Roma
ASILS, VV. = Archivio storico Istituto Luigi Sturzo, Fondo Vittorino Veronese, Roma
BAV, BCV, AD, SP, CSP = Banco Ambroveneto, Banca cattolica del Veneto, Amministratore delegato, Raccolta privata Stocchiero-Piovesan, Carte Secondo Piovesan, in Archivio Storico BancaIntesa, Milano.
1 Per questo rimandiamo a M.G. Turri, La distinzione fra moneta e denaro. Ontologia sociale ed economia, Roma 2009.
2 L. Palermo, Il denaro della Chiesa e l’assolutismo economico dei papi agli inizi dell’età moderna, in Chiesa e denaro tra Cinquecento e Settecento, a cura di U. Dovere, Cinisello Balsamo 2004, pp. 87-152, in partic. p. 87. Un’interessante analisi in G. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza, Roma 2009.
3 È il caso di E.-W. Böckenförde, G. Bazoli, Chiesa e capitalismo, Brescia 2010.
4 Come in L. Verzé, Cristo. Il vero riformatore sociale, Milano 2009.
5 G. Le Bras, La Chiesa del diritto. Introduzione allo studio delle istituzioni ecclesiastiche, Bologna 1976, p. 133. Su questo tema cfr. anche «Limes», 4, 2009.
6 R. Aubert, Leone XIII: tradizione e progresso, in La Chiesa e la società industriale. 1878-1922, a cura di E. Gueriero, A. Zambarbieri, Cinisello Balsamo 1990, pp. 72-73. Ripreso da G. Verucci, L’eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia, Torino 2010, p. 5.
7 C.M. Cipolla, Le tre rivoluzioni e altri saggi di storia economica e sociale, Bologna 1989.
8 L’organizzazione «aziendale» della Chiesa medievale è stata studiata da B. Ekelund, R.F. Hébert, R.D. Tollison, et al., Sacred Trust. The Medieval Church as an Economic Firm, New York-Oxford 1996.
9 Citato da Ph. Simonnot, Les papes, l’Église et l’argent. Histoire économique du christianisme des origines à nos jours, Paris 2005, p. 530. Pietro Tomacelli morì il 1° ottobre 1404.
10 Su questo tema gli studi sono appena agli inizi, almeno in Italia. Si vedano soprattutto R.B. Ekelund, R.F. Hébert, R.D. Tollison, Il mercato del cristianesimo, Milano 2008 (ed. orig.: The Marketplace of Christianity, Boston 2006); Ph. Simonnot, ll mercato di Dio. La matrice economica di ebraismo, cristianesimo, islam, Roma 2010 (ed. orig.: Le marché de Dieu. Économie du judaïsme, du christianisme et de l’islam, Paris 2008).
11 Come introduzione si vedano i recenti lavori di M. Scattola, Teologia politica, Bologna 2007; M. Rizzi, Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare in Occidente, Bologna 2009. Un utilizzo di questo schema si ha in G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti 1945/1954, Firenze 1974, pp. 14-24.
12 M. Scattola, Teologia politica, cit., p. 28.
13 La produzione storiografica è nutrita. Mi limito a segnalare A. Caroleo, Le banche cattoliche dalla prima guerra mondiale al fascismo, Milano 1976; L. De Rosa, G. De Rosa, Storia del Banco di Roma, 3 voll., Roma 1982-1984; G. De Rosa, Una banca cattolica fra cooperazione e capitalismo. La Banca cattolica del Veneto, Roma-Bari 1991; M. Taccolini, P. Cafaro, Il Banco Ambrosiano. Una banca cattolica negli anni dell’ascesa economica lombarda, Roma-Bari 1996; P. Cafaro, La solidarietà efficiente. Storia e prospettive del credito cooperativo in Italia (1883-2000), Roma-Bari 2001. Sulle progressive articolazioni del sistema bancario postunitario cfr. S. La Francesca, Storia del sistema bancario italiano, Bologna 2004; F. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, Roma 2008. A questi sono almeno da affiancare A. Polsi, Alle origini del capitalismo italiano. Stato, banche e banchieri dopo l’Unità, Torino 1993; E. De Simone, Alle origini del sistema bancario italiano 1815-1840, Napoli 1993; Banche e reti di banche nell’Italia postunitaria, a cura di G. Conti, S. La Francesca, Bologna 2000.
14 Citato da G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Bologna 2010, p. 22.
15 A. De Gasperi, Lettere sul Concordato, Brescia 1970, p. 26.
16 L. Sturzo, Popolarismo e fascismo, Torino 1924, pp. 273-274. Sulle idee economiche di don Sturzo, rimando a A. Spampinato, L’etica senza etica è diseconomia. L’etica dell’economia nel pensiero di don Luigi Sturzo, Milano 2005, in partic. pp. 27-58; L. Sturzo, Il pensiero economico, a cura di G. Palladino, Milano 2009.
17 L. Sturzo, Popolarismo e fascismo, cit., pp. 279-280.
18 ASV, Segr. Stato, 1928, rubr. 319, fasc. 1. In preparazione dell’adunanza dell’11 dicembre 1928, l’Icas inoltrava un promemoria relativo alle condizioni delle banche cattoliche e un allegato, scritto da Ludovico Montini, dal titolo L’Azione cattolica e le banche, nel quale ritornava sulla questione se vi possono essere banche «che si chiamano cattoliche» e sul ruolo che l’Azione cattolica doveva tenere. Per Montini era necessario «che gli enti economico-sociali (e quindi anche le banche che voglio giustificare il loro nome di cattoliche) abbiano: A) a presentare qualche carattere specifico proprio ad identificarli come cattolici – B) ad avere qualche vincolo morale, diretto o indiretto, coll’A.C. organizzata».
19 S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia (1820-1830), Brescia 1968, p. 244.
20 Ibidem.
21 Un’analisi in F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 1977.
22 G. Formigoni, L’Italia dei cattolici, cit., pp. 24-25.
23 É. Poulat, Regno di Dio e impero della Chiesa, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1, 1983, passim.
24 G.B. Montini, Lettere a un giovane amico, Brescia 1978, pp. 141-142.
25 Citazioni da É. Poulat, Regno di Dio, cit., p. 50.
26 Ibidem, p. 51. Sottolineatura nostra.
27 Sulla redazione del Sillabo e dell’enciclica Quanta cura rimandiamo a G. Martina, Sulle varie edizione del «Sillabo», in Chiesa e Stato nell’Ottocento. Miscellanea in onore di Pietro Pirri, a cura di R. Aubert, A.M. Ghisalberti, E. Passerin d’Entrèves, II, Padova 1962, pp. 421-523.
28 Sulle loro vicende si veda S.H. Scholl, 150 anni di movimento operaio cattolico nell’Europa centro-occidentale (1789-1932), Padova 1962.
29 Citato da G. Formigoni, L’Italia dei cattolici, cit., p. 44.
30 R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano 1997 (ed. orig.: Making Democracy Work, Princeton 1994).
31 S. Magister, Due Chiese per due Italie, in Quando il papa pensa il mondo, «Limes», 4, 2009, p. 95.
32 A. Canavero, I cattolici nella società italiana. Dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, Brescia 1991, p. 89.
33 S. Zaninelli, L’attività creditizia nelle esperienze e nelle riflessioni dei cattolici organizzati in Italia tra Ottocento e Novecento, in Cultura, etica e finanza, Milano 1987, pp. 157-206.
34 ASV, AAEESS, Italia III, Po. 763, fasc. 279, f. 1.
35 Ibidem, cc. 3 r-v.
36 Ibidem, c. 4 r.
37 Ibidem.
38 Ibidem, c. 4 v.
39 Ibidem, cc. 5v-6r. La risposta è del 9 settembre 1903.
40 Il documento di trova nel fascicolo citato.
41 Corsivo nostro.
42 Art. III: «Di qui viene che, nella umana Società, è secondo la ordinazione di Dio che vi siano principi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei, i quali, uniti tutti in vincolo d’amore, si aiutino a vicenda a conseguire il loro ultimo fine in Cielo; e qui, sulla terra, il loro benessere materiale e morale». Il passo proviene dalla Quod Apostolici muneris.
43 Art. XIII: «Inoltre la Democrazia Cristiana non deve mai immischiarsi con la politica, né dovrà mai servire a partiti ed a fini politici; non è questo il suo campo: ma dev’essere un’azione benefica a favore del popolo, fondata sul diritto di natura e sui precetti del Vangelo». Il passo è tratto dalla Graves de communi.
44 La sottolineatura è nel testo. Il riferimento, ovviamente, è al non expedit.
45 Nel caso di scritti di natura più delicata le norme erano ancora più stringenti: «Finalmente gli scrittori cattolici, nel patrocinare la causa dei proletari e de’ poveri, si guardino dall’adoperare un linguaggio che possa ispirare nel popolo avversione alle classi superiori della società. Non parlino di rivendicazioni e di giustizia, allorché trattasi di mera carità, come innanzi fu spiegato. Ricordino che Gesù volle unire tutti gli uomini col vincolo del reciproco amore, che è perfezione della giustizia, e che porta l’obbligo di adoperarsi al bene reciproco» (art. XIX).
46 ASV, AES, Italia III, Po. 758-762, fasc. 278. Il telegramma porta la data del 12 novembre 1903.
47 ASV, AES, Po 763, fasc. 279, c. 43r. Il corsivo è nel testo.
48 Ibidem, cc. 44-46.
49 La storiografia su Mastai Ferretti è assai abbondante e controversa. La migliore opera rimane quella di G. Martina, Pio IX. 1840-1878, 3 voll., Roma 1974-1990. Un’interpretazione interessante in F. Mazzonis, Pio IX, la fine del potere temporale e la riorganizzazione della Chiesa, in Storia della società italiana, Vol. 18: Lo stato unitario e il suo difficile debutto, Milano 1981, pp. 251-285.
50 Oltre che G. Martina, Pio IX, cit., si vedano le pagine di B. Lai, Finanze e finanzieri vaticani fra l’800 e il ’900. Da Pio IX a Benedetto XV, Milano 1979, pp. 11-43.
51 Sul ruolo dei Rothschild si vedano D. Felisini, Le finanze pontificie e i Rothschild. 1830-1870, Napoli 1990; N. Ferguson, The World banker. The History of the House of Rothschild, London 1998.
52 D. Felisini, «Quel capitalista per ricchezza principalissimo». Alessandro Torlonia principe, banchiere, imprenditore nell’Ottocento romano, Soveria Mannelli 2004.
53 Su questi aspetti si vedano B. Lai, Finanze e finanzieri, cit.; C. Crocella, Augusta miseria. Aspetti delle finanze pontificie nell’età del capitalismo, Milano 1982; D. Felisini, Le finanze pontificie, cit.; J.F. Pollard, L’Obolo di Pietro. Le finanze del papato moderno: 1850-1950, 2006 (ed. orig.: Money and the Rise of the Modern Papacy, Cambridge 2005). Un esempio analiticamente studiato riguarda il banchiere belga André Langrand-Dumonceau, che si rivolse con molta insistenza a Pio IX per ottenere il suo appoggio nelle sue manovre finanziarie legate in modo particolare all’utilizzo dei beni immobiliari come base per attività di mutui ipotecari. Le molte iniziative portarono al fallimento delle sue banche nel 1871 creando un grave scandalo nel paese. Il deputato che coinvolse il Parlamento nelle sue richieste di chiarezza sui maneggi del banchiere ebbe a dichiarare: «Les affaires Langrand ne sont pas des affaires et n’ont jamais été des affaires. Elles sont nées par la politique et rien que par la politique. Les actions et les lettres de gages n’ont été placées dans le publique que grâce à l’influence de certains chefs du parti clerical et grâce à l’action incessante et pressante du clergé», in G. Jacquemyns, Langrand-Dumonceau promoter d’une puissance financière catholique, V, Bruxelles 1965, p. 233.
54 D. Felisini, Le finanze pontificie, cit., p. 148. La nascita del sistema bancario dello Stato pontificio durante la Restaurazione è stata analizzata da R. D’Errico, Una gestione bancaria ottocentesca. La Cassa di Risparmio di Roma dal 1836 al 1890, Napoli 1999.
55 B. Lai, Finanze e finanzieri, cit., pp. 23-24.
56 La pratica in ASV, Fondo particolare di Pio IX, b. 29, f. 4.
57 Nel senso che fino a tale data le molte centinaia di istituzioni assistenziali della città provvedevano ai bisogni giornalieri di oltre 20 mila poveri, mentre successivamente la Santa Sede sarà assistita dai proventi dell’Obolo.
58 Citato da F. Mazzonis, Pio IX, la fine del potere temporale, cit., p. 261.
59 Così è intitolato il voluminoso fascicolo in ASV, Segr. Stato, Nunz. Belgio, fasc. 40. Sono 1.230 carte che coprono il periodo dal 1865 al 1871.
60 C. Crocella, Augusta miseria, cit., p. 156.
61 Codex iuris canonici, Romae 1917, p. 586.
62 Per questi aspetti si rimanda a A. Caracciolo, Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Roma 1995. Con l’Unione romana maturano esperienze conciliatoriste d’importanza nazionale in attesa del superamento del non expedit, sino alla costituzione del Centro nazionale, cfr. G. De Rosa, I Conservatori nazionali, Brescia 1962.
63 Le prime quattro erano: Banca nazionale nel Regno d’Italia, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banca nazionale toscana. Seguivano altre banche: Banca italo-germanica, Banca italo-austriaca, Società generale di credito immobiliare e di costruzioni in Italia, Banca agricola romana, Banca di credito romano, Società generale di credito agrario, Banca industriale e commerciale di Roma, Banca generale di credito industriale, Banca popolare operaia in Roma, Banco di Santo Spirito e Cassa di risparmio di Roma. Cfr. L. De Rosa, Storia del Banco di Roma, cit., I, p. 15.
64 B. Lai, Finanze e finanzieri, cit., p. 97. Ripreso in B. Lai, Affari del Papa. Storia di cardinali, nobiluomini e faccendieri nella Roma dell’Ottocento, Roma-Bari 1999, p. 67.
65 Sulla storia di questa banca R. D’Errico, Una gestione bancaria ottocentesca. La Cassa di Risparmio di Roma dal 1836 al 1890, Napoli 1999.
66 Monsignor Folchi aveva ereditato la gestione delle finanze dal cardinale Giacomo Antonelli. B. Lai, Affari del Papa, cit., pp. 53-78.
67 J. Bouvier, Le Krack de l’Union Générale, Paris 1960.
68 L. De Rosa, Storia del Banco di Roma, cit., I, p. 26.
69 Società Acqua Pia Antica Marcia, Società anglo-romana per l’illuminazione a gas, Società italiana per le condotte d’acqua, Società per la costruzione delle ferrovie complementari, Società dei molini e magazzini generali di Roma, poi Pantanella, cfr. L. De Rosa, Storia del Banco, cit., I, p. 34.
70 L. De Rosa, Storia del Banco di Roma, cit., I, p. 101.
71 La visione finanziaria del cardinale Mocenni può riassumersi in una sua battuta: «Se il denaro avesse una religione sarebbe israelita, ma fortunatamente non l’ha, di conseguenza può essere venerato da tutti», citato da B. Lai, Finanze e finanzieri, cit., in epigrafe al volume.
72 B. Lai, Affari del Papa, cit., p. 165.
73 La tabella è riportata in M.G. Rossi, Le origini del partito cattolico, Roma 1977, p. 323.
74 Sull’analisi di questo progetto cfr. L. Einaudi, Cronache economiche e politiche di un trentennio, III, (1910-1914), Torino 1963, pp. 515-530; F. Belli, Le leggi bancarie del 1926 e del 1936-1938, in Banca e industria fra le due guerre, II, Le riforme istituzionali e il pensiero giuridico, Bologna 1981, pp. 203-268; G. De Rosa, Una banca cattolica tra cooperazione e capitalismo, cit., pp. 82-89, dove si ripercorrono le vicende legate alla costituzione della Federazione bancaria italiana e del Credito nazionale.
75 Su Alberto Beneduce si veda la voce di F. Bonelli, s.v. Beneduce Alberto, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, VIII, Roma 1966, pp. 455-466 e le informazioni in G. De Rosa, Storia del Banco di Roma, cit., III, pp. 79-126. Molto critico il giudizio di A. De’ Stefani, Baraonda bancaria, Milano 1961, pp. 558-563.
76 Lo stesso Alberto De’ Stefani non era particolarmente entusiasta dei due personaggi nei quali intravvedeva l’obiettivo di uno statalismo bancario: G. De Rosa, Una banca cattolica tra cooperazione e capitalismo, cit., p. 83.
77 A. Caroleo, Le banche cattoliche, cit., pp. 26-28.
78 Molti dei suoi rappresentanti erano presenti in numerosi consigli di amministrazione di banche cattoliche: A. Caroleo, Le banche cattoliche, cit., p. 24; M.G. Rossi, Le origini del partito cattolico, cit., pp. 326-327.
79 Citato in A. Caroleo, Le banche cattoliche, cit., p. 26.
80 L’«Osservatore romano», in un articolo del 15 gennaio 1914, aveva già chiarito la questione: «Essa [l’Unione economico-sociale] promuove, coordina, spinge, conforta, aiuta e vigila su tutti gli istituti e su tutte le opere aderenti. Non può fare di più. La nuova federazione e il nuovo istituto sono però strettamente collegati all’UES, la quale sarà sempre pronta a prestarvi il proprio concorso morale, come è lieta di avere cooperato alla fondazione e alla assistenza di moltissime Banche».
81 ASV, Segr. Stato, 1914, rubrica 63, fascicolo unico. La lettera proveniva da Bergamo.
82 ASV, Segr. Stato, 1913, rubrica 63. La lettera era stata spedita da Vicenza.
83 Citato da G. De Rosa, Una banca cattolica tra cooperazione e capitalismo, cit., p. 89. La lettera è del 26 febbraio 1915.
84 ASV, AES, Italia III, Po. 953-954, fasc. 345, c. 48.
85 Ibidem.
86 Ibidem.
87 Ibidem.
88 Ibidem, cc. 53-54. Per la sua importanza ne riportiamo alcuni stralci: «Dalle osservazioni da noi fatte durante il tempo della guerra sulle nostre popolazioni, particolarmente provate, e sui soldati convenuti da ogni parte d’Italia è evidente che i concetti democratici si sono aperti un corso amplissimo, che, se non andiamo errati, piglierà ancora maggiori proporzioni nel Congresso per la pace. Ciò posto ci domandiamo se non fosse forse provvidenziale che noi, col Vangelo, si entrasse nell’ordine delle idee dominanti, disciplinandolo cristianamente e indirizzandovi con programma limpido e sicuro le nostre popolazioni; come avveniva al tempo di Federico II, quando la Chiesa prese a proteggere e disciplinare le libertà popolari, mentre da una parte lo Svevo se ne dichiarava nemico e le manometteva, e i Patareni dall’altro attentavano e deliberatamente ogni ben ordinata società. Di sane e sicure norme in proposito grande è il bisogno; perché proprio desideriamo che il nostro lavoro non sia inefficace e non avvenga, come per il passato, che sovente il movimento cattolico nostro è stato come la tela di Penelope. Parimenti, in linea subordinata, ci permetteremmo di chiedere se non fosse conveniente di venire licenziati ad appoggiare nomi nostri […]. Parrebbe alla nostra adunanza che il tenere diversa linea di condotta costituisse pericolo di rimanere lontani da un movimento ormai irrefrenabile e di separarci dalla società, con danno degl’interessi religiosi dei fedeli e della Chiesa».
89 Ibidem, c. 56v.
90 Ibidem, cc. 61 r-v. I quesiti posti allo studioso erano tre: se convenga alla Chiesa di entrare nell’ordine delle idee che predominano nell’attuale momento; quali libertà popolari Essa potrebbe prendere a patrocinare, senza detrimento dei principi essenziali del Cristianesimo; in qual modo concreto potrebbe la Chiesa svolgere la sua azione nel senso indicato. Il lavoro doveva essere condotto mantenendo il segreto pontificio.
91 ASV, AES, Italia III, Po. 955, fasc. 346, cc. 28-29.
92 Ibidem, c. 33.
93 ASV, AES, Po. 953-954, fasc. 345, c. 57.
94 L. Sturzo, Popolarismo e fascismo, cit., p. 13: «A chiarire questa posizione occorreva avere il coraggio, contro tutte le tradizioni del passato, di assumere un atteggiamento autonomo e indipendente non solo apparente ma reale. Onde fu escluso che il partito si chiamasse e fosse cattolico, sia nel senso di una dipendenza organica e gerarchica dall’autorità ecclesiastica, sia nello scopo diretto e prevalente, sia nella caratteristica programmatico-politica».
95 T.P. Boggiani, L’Azione cattolica e il Partito Popolare Italiano, Genova 1920. Il fascicolo è contenuto in ASV, AES, Italia III, Po. 955, fasc. 348.
96 Ibidem, p. 3.
97 L’articolo «Obedite praepositis vestris etiam disculi», a firma di Timoleone Garagnani del 2 ottobre 1920, irrideva il nuovo schieramento politico con affermazioni decisamente pesanti: «se a tempo opportuno si fossero fatte le opposizioni legali e non vi fossero stati fra noi dominanti colla loro audacia i conciliatoristi e i melensi, ed i facili adattamenti il cattolicesimo sarebbe una forza che peserebbe assai nella bilancia della politica dominante, ma poi vi si aggiunse la Democrazia-Cristiana con Romolo Murri e la conseguente eresia modernista, che mutatis mutandis si è convertita nel P.P.I. con Don Sturzo, alter ego di Don Murri che predica il cristianesimo areligioso…risum teneatis amici, ma che è stato messo a posto dal Cardinal Tommaso Pio Boggiani Arcivescovo di Genova nella famosa sua pastorale del 25 luglio 1920», Ibidem, c. 17.
98 Ibidem, c.16.
99 Per le vicende, cfr. G. De Rosa, I Conservatori nazionali, cit.
100 Come è noto, la questione della collaborazione con Mussolini produsse la fuoriuscita di un buon numero di parlamentari cattolici – Mattei Gentili, Cavazzoni, Mauro, Carapelle, Grosoli, Santucci, Martire, il duca di Santa Severina ecc., che diedero vita al Centro nazionale – presenti in molti istituti bancari e con forti simpatie nella stampa nazionale e in Vaticano: G. De Rosa, I Conservatori nazionali, cit., p. 90.
101 I due appunti sono pubblicati in G. Rossini, Il movimento cattolico nel periodo fascista (momenti e problemi), Roma 1966, pp. 131-137.
102 Ibidem.
103 Le trattative del 1923 sono analizzate da G. De Rosa, Storia del Banco di Roma, cit., III, pp. 389-412, e Id., Una banca cattolica tra cooperazione e capitalismo, cit., pp. 127-129.
104 Sul fallimento della Sconto si veda A.M. Falchero, La Banca italiana di Sconto. 1914-1922, Milano 1990.
105 ASBI, Ispettorato generale, pratt., n. 120, f. 6. La lettera era stata inviata al dott. Osvaldo Riso, già funzionario della Banca d’Italia e dell’Istituto nazionale per i cambi, entrato nel Banco di Roma nel 1920 e nominato direttore generale da Carlo Vitali nel 1923, unitamente all’avv. Enrico Basola. La data del promemoria cadeva in un momento drammatico per il Banco alle prese con lo scontro tra Boncompagni Ludovisi e Vitali da un lato, Vicentini, Grosoli e Santucci dall’altro. Il 9 febbraio 1923 Francesco Boncompagni Ludovisi divenne il presidente e Carlo Vitali amministratore delegato. Uscivano di scena Giuseppe Vicentini e Carlo Santucci che nel 1914 aveva preso il posto di Ernesto Pacelli in occasione del secondo salvataggio del Banco di Roma avvenuto nel 1914 ad opera del Credito nazionale appena costituito proprio per questo scopo.
106 Ibidem.
107 La lettera è pubblicata in G. Rossini, Il movimento cattolico, cit., pp. 65-69.
108 Ibidem.
109 Ibidem.
110 Senatore a vita, fece parte con Grosoli e Santucci dei popolari che collaborarono con Mussolini.
111 G. De Rosa Una banca cattolica tra cooperazione e capitalismo, cit., p. 140.
112 Ibidem, p.143.
113 Il testo in La Banca d’Italia e il sistema bancario 1919-1936, a cura di G. Guarino, G. Toniolo, Roma-Bari 1993, pp. 517-525.
114 ASV, Segr. Stato, 1928-1929, rubr. 357, fasc. 2, cc. 159-162.
115 Il carteggio tra Menichella e Volpi si trova in ASBI, Direttorio Menichella, pratt. n. 102, f. 2. Tutte le citazioni successive provengono da questa fonte.
116 F. Pacelli, Diario della Conciliazione, Roma 1959, p. 104.
117 Per la sua importanza, lo scritto merita un’appropriata citazione: «In questi ultimi tempi si sono riacutizzate in diversi istituti bancari di carattere cattolico, situazioni di disagio, in parte determinate da ragioni di indole tecnica e in parte da ingiustificate prevenzioni. Si è così resa impossibile la sistemazione di alcuni enti, e si è provocato il dissesto di altri che non hanno potuto aver modo di avviarsi alla normale liquidazione. In relazione all’interessamento che il Governo aveva dimostrato verso gli istituti di credito cattolici, la Banca d’Italia nel primo semestre dell’anno corrente, manifestò le disposizioni più favorevoli per la soluzione del problema senza escludere la eliminazione di quegli enti che non avessero presentato garanzie di vitalità. Ma in questi ultimi mesi gli atteggiamenti sono mutati. È evidente il danno che la caduta delle banche porterebbe agli interessi religiosi ponendo in mala vista verso la massa dei depositanti, per circa due miliardi e mezzo, i Vescovi ed i Parroci, che ebbero ad interessarsi della vita delle banche stesse. Il problema è ora nella fase più delicata. È nota a più parti una lista prestabilita di banche cattoliche, la caduta delle quali sarebbe stata decisa. Presso il Ministero degli Interni esisterebbe una nota di istituti, la cui sorte è segnata, anche prima che siano esaminati i mezzi opportuni per eventuali sistemazioni. È facile rilevare l’enorme pericolo che, resa di pubblico dominio la notizia, ne seguirà a danno di tutte le banche che comunque abbiano caratteristiche o interessi riguardanti il mondo cattolico. Non si vuole, per tali rilievi, affermare il concetto che le banche considerate cattoliche, siano comunque salvate, ma è necessario, in vista della vastità degli interessi, procedere con la massima prudenza affinché gli istituti, e ve ne sono, che hanno possibilità di svilupparsi non siano irreparabilmente travolti dalla crisi, e che gli altri, che non sono vitali, siano avviati senza inutili scosse e senza alcun sacrificio finanziario del Governo, alla loro liquidazione o alla fusione con altri istituti. L’attuazione di questo programma si desidera che venga effettuata, sia pure con sollecitudine, ma con le dovute cautele, procedendo d’accordo cogli esponenti delle maggiori banche cattoliche benevisi al Governo, mantenendosi intanto dalla Banca d’Italia e dagli altri istituti riscontatori, sia pure per il minor tempo possibile, le attuali posizioni al fine di evitare cadute intempestive». F. Pacelli, Diario della Conciliazione, cit., pp. 105-106.
118 ARSI, Fondo padre P. Tacchi Venturi, fasc. 1048. La lettera è del 20 novembre 1928. Il corsivo è nel testo.
119 Il testo della lettera del 28 novembre 1928 è pubblicato in G. Rossini, Il movimento cattolico, cit., pp. 155-156.
120 Ibidem.
121 ARSI, Fondo padre Tacchi Venturi, fasc. 1048. Lettera del 29 novembre 1928.
122 Il primo consiglio di amministrazione è formato da: Nicola Bevilacqua, Giuseppe Casoli, Gioacchino Gioia, Mario Pettoello, Giovanni Rosmini. Sindaci effettivi: Secondo Piovesan, Luigi Ponzoni, Giovanni Carrara. Gioacchino Gioia verrà sostituito il 16 ottobre 1929 da Stefano Cavazzoni che accetterà l’incarico solo nel maggio del 1930. G. Rossini, Il movimento cattolico, cit., p. 165.
123 Una lunga lettera a Mussolini, del 9 aprile 1929, riepilogava i termini della questione e richiamava fermamente il capo del Governo agli impegni presi e disattesi: «Come potrà mai dirsi che si voglia sul serio consolidare o risanare le Banche cattoliche, quando si danno soltanto buone parole, ma si lasciano passare mesi e mesi senza far nulla per salvarle, e si permette all’Ente creato per il solo fine di curarle non sia in grado di operare per ottenere lo scopo che pur gli è stato prefisso da chi lo ha ideato e voluto?». ARSI., Ibidem, fasc. 1160.
124 Una copia in ASBI, Rapporti con l’estero, pratt. n. 278, f. 7, sf.1, pp. 2-3.
125 Alla figura di Bernardino Nogara dedicano molte pagine R. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studi sul prefascismo 1908-1915, Torino 1974 (ed. orig.: Italy’s industrial Imperialism 1908-1915. A Study in Pre-Fascism, Berkeley 1975); J.F. Pollard, L’Obolo di Pietro, cit., ma i contenuti della sua attività rimangono molto sfumati. Anche il recente lavoro di G. Sivini, Il banchiere del Papa e la sua miniera. Lotte operaie nel villaggio minerario di Cave del Predil, Bologna 2009, pur tutto dedicato a Bernardino Nogara, dedica poche pagine, 47-50, alla sua attività di finanziere senza aggiungere alcuna novità di rilievo. La sua attività di finanziere è stata indagata da S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano 1979; M. Petricioli, L’Italia in Asia minore. Equilibrio mediterraneo e ambizioni imperialiste alla vigilia della prima guerra mondiale, Firenze 1983; Id., La resa dei conti: diplomazia e finanza di fronte alle aspirazioni in Anatolia 1918-1923, «Storia delle relazioni internazionali», 2, 1986, pp. 63-93; R.J.B. Bosworth, La politica estera dell’Italia giolittiana, Roma 1985; R. De Felice, La Santa Sede e il conflitto italo-etiopico nel diario di Bernardino Nogara, «Storia contemporanea», 7, 1977, 4, pp. 823-835; B. Lai, Finanze e finanzieri, cit.; G. Belardelli, Un viaggio di Bernardino Nogara negli Stati Uniti (novembre 1937), «Storia contemporanea», 23, 1992, 2, pp. 321-338; P. Fadda, Il banchiere del Papa al capezzale della Montevecchio, «Argentaria», 1, 1992, pp. 101-116; J. Pollard, The Vatican and the Wall Street Crash: Bernardino Nogara and Papal Finances in the Early 1930s, «The Historical Journal», 42, 4, 1999, pp. 1077-1091. La biografia è stata curata da Osio in Diari e pagine sparse, a cura di B. Osio, Verona 1989.
126 ASV, Arch. Nunz. Ap. Italia, b. 30, f. 7, p. 32, 20 luglio 1936. Il passaporto era necessario per il successivo viaggio di Nogara negli Stati Uniti con lo scopo di definire con i banchieri americani, e soprattutto con la casa bancaria Morgan, le possibilità di investimenti dell’Amministrazione speciale. Sugli appunti di viaggio tenuti da Nogara, si rinvia a G. Belardelli, Un viaggio di Bernardino Nogara negli Stati Uniti (novembre 1937), cit., pp. 321-338.
127 Il Motu proprio del 1929 deliberava anche l’organizzazione dell’Amministrazione speciale e le sue competenze. Oltre Bernardino Nogara, delegato, erano inseriti l’avv. Marchese Henry de Maillardoz (segretario), il cav. uff. Enrico Giuliani (contabile principale) e il rag. Auguste Girod (vicesegretario). Le attività erano limitate alla gestione di conti correnti, conti di deposito di titoli e altri valori, esclusi gli atti di disposizione e di compravendita di titoli o divise, il servizio di informazioni e delle transazioni commerciali relative agli uffici dell’Amministrazione. Il 9 dicembre 1939 un nuovo Motu proprio di Pio XI ampliava l’operatività dell’Amministrazione con altre competenze: l’incasso dalle banche di qualsiasi somma tanto in capitale quanto di interesse; l’apertura di conti correnti presso banche ed altre istituzioni ed enti con la fissazione delle relative condizioni; l’esecuzione di operazioni bancarie di qualsiasi specie; la compera e la vendita, il deposito e il ritiro, il vincolo, lo svincolo ed il tramutamento di titoli di qualsiasi specie anche di Stato; la richiesta di pignoramenti e di sequestri a mano di debitori o presso terzi, la revocazione delle operazioni medesime; il ritiro di effetti raccomandati, vaglia, pacchi postali, buoni del Tesoro, assegni sulle banche o su qualsiasi altra tesoreria o cassa ed il rilascio delle relative quietanze; in genere la rappresentanza dell’Amministrazione in tutti i suoi rapporti di ordine amministrativo verso terzi. Il documento pontificio aumentava l’organigramma dei dipendenti di un altro vicesegretario (rag. Raffaele Quadrani) e di un contabile (dott. Guglielmo Mollari). ASV, Arch. Nunz. Ap. Italia, b. 11, f. 17.
128 ARSI, Fondo padre Tacchi Venturi, fasc. 1160, promemoria del 12 aprile 1929.
129 Ibidem, lettera del 2 giugno 1929.
130 Il carteggio in ASBI, Direttorio Introna, cart. 56, fasc. 1, sf. 1.
131 ASV, Arch. Nunz. Svizzera, b. 69, fasc. 64. La lettera porta la data del 24 gennaio 1928.
132 Ibidem, b. 69, fasc. 65. Lettera del 2 aprile 1927.
133 La documentazione in ASV, AES, Arch. Deleg. Ap. Stati Uniti, XX, Pos. 4.
134 È il caso del nunzio a Parigi monsignor Luigi Maglione che il 3 giugno 1927 comunicava al cardinale Gasparri che il santo padre «mi consegnò una somma, la quale, calcolata in fr. Fr. 281.425 risultò in realtà di fr. Fr. 280.425 […]. L’Augusto Pontefice mi ordinò di impegnare tale somma nella maniera più vantaggiosa o in titoli al 3% di rendita francese, oppure in deposito vincolato presso una Banca»: ASV, Arch. Nunz. Parigi, b. 539, fasc. 15. Il riferimento del pontefice all’impegno di somme nella maniera più vantaggiosa, rispettava, come si è visto nelle pagine precedenti, quanto stabilito dal can. 1539 del Codice di diritto canonico del 1917. A questo criterio si atterrà in seguito anche Bernardino Nogara accusato, al contrario, di aver chiesto a Pio XI di poter operare senza vincoli etici.
135 Anche i flussi dell’obolo di s. Pietro erano gestiti sino al 1929 dalla varie nunziature.
136 La Banque Française et Italienne pour l’Amerique du Sud (Sudameris) era sorta a Parigi nel 1910 con un capitale iniziale di 25 milioni di franchi francesi, partecipato per metà dalla Comit e dal gruppo Banco Italo-Brasiliano in liquidazione, e per metà da Paribas con sedi in Francia (Marsiglia e Costa Azzurra) e in Italia (Bordighera e Ventimiglia).
137 Nel 1934 il nunzio a Parigi informava la Segreteria di Stato che la Sudameris aveva chiesto l’affidavit per la proprietà dei titoli in deposito per un valore di 1.482.600 fr. fr.: ASV, Arch. Nunz. Parigi, b. 539, fasc. 18.
138 L’acquisto delle azioni avvenne attraverso la Banca della Svizzera Italiana in qualità di nominee dell’Amministrazione speciale. Si trattava di 3.200 azioni per un valore di 14.720.000 fr. fr. Il carteggio in ASBI, Rapporti con l’Estero, pratt. 441, fasc. 5, sottofasc. 5.
139 Nella lista nera era finita anche la Banca della Svizzera Italiana.
140 La Profima S.A. Lausanne era una holding svizzera interamente controllata dall’Amministrazione speciale, al pari della SAMO, Società di affari mobiliari di Lugano.
141 La documentazione relativa alla Sudameris si trova presso l’Archivio storico di Banca Intesa, Carte di Raffaele Mattioli. Esiste un accurato inventario del fondo: Intesa San Paolo, Archivio Storico, Collana inventari 2009.
142 Le citazioni provengono dal testo, su cd, che accompagna P. Barucci, A. Magliulo, L’insegnamento economico e sociale della Chiesa (1891-1991), Milano 1996.
143 Le citazioni del testo del radiomessaggio sono tratte dall’enciclica Libertas di Leone XIII del 2 giugno 1888.
144 In continuità con le esperienze passate alle quali rimanda C.F. Casula, Domenico Tardini (1888-1961). L’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre, Roma 1988, pp. 31-68, e C.F. Casula, Le frontiere delle ACLI. Pratiche sociali, scelte politiche, spiritualità, Roma 2001, per il dopoguerra.
145 In via ufficiale, mentre nella realtà era il rappresentante della mafia. Nel primo consiglio nazionale del nuovo partito, tenutosi dal 31 luglio al 3 agosto 1946, il vertice politico era formato da De Gasperi, segretario politico, Piccioni, vicesegretario politico, Dossetti e Mattarella, vicesegretari: G. Galli, Soria della D.C., Roma-Bari 1978, pp. 73-74.
146 Nel 1942 l’intesa raggiunta con il ministro delle Finanze del regime Thaon de Revel prevedeva, contrariamente a quanto suggerito dal Senato che premeva per una esatta determinazione della quantità e delle qualità azionaria della Santa Sede, un semplice elenco dei dicasteri e degli uffici esenti da imposte, tra i quali fu inserito il neonato Ior in qualità di amministratore dei beni della Santa Sede, una formula assai vaga che non specificava affatto gli eventuali controlli sul suo operato. Come conseguenza il ministro delle Finanze diede disposizioni affinché la Santa Sede fosse esentata dal pagamento della cedolare sui dividendi, specificando che, a seguito degli accordi intervenuti con Montini, erano da considerare esenti le organizzazioni che facevano capo alla Santa Sede e, tra queste, lo Ior. Per curiosità la firma della circolare era dell’allora direttore generale del ministro delle Finanze Buoncristiano: C. Pallenberg, Le finanze del Vaticano, Milano 1969, p. 151. L’equivoco dello Ior consisteva nel fatto che era escluso quando si doveva calcolare la ricchezza complessiva della Chiesa, ma incluso quando si trattava di discutere l’esenzione delle tasse. L’indeterminatezza giuridica dello Ior rimase anche nella successiva riforma di Paolo VI.
147 Testimonianza di Massimo Spada, artefice delle due operazioni, in B. Lai, Il “mio” Vaticano. Diario tra pontefici e cardinali, Soveria Mannelli 2006, pp. 475-476.
148 L. Zani, introduzione a F. Guarneri, Battaglie economiche fra le due guerre, Bologna 1988, p. 56.
149 G. De Rosa, Storia del Banco di Roma, cit., III, pp. 225-253.
150 G. De Rosa, Una banca cattolica fra cooperazione e capitalismo, cit., p. 222.
151 ASBI, Direttorio Introna, cart. 29, f. 1, sf. 3, p. 8.
152 BAV, BCV, AD, SP, CSP, cart. 1, fasc. 6.
153 ASILS, VV, b. 61, fasc. 851, cc. 56r-v-57r.
154 Ibidem.
155 Ibidem. Su questo aspetto la lettera non aveva tutti i torti. Le carte di Vittorino Veronese offrono la dimensione del fenomeno ‘beneficenza’ che nel decennio 1945-1954 impegnò 409.862.000 lire. Alcune voci sono interessanti. Scontate le somme ai vescovi per varie opere (L. 175.187.000) e ad enti e istituzioni varie (asili, parrocchie, ecc) per L. 99.406.000, assai cospicue appaiono quelle più ‘politiche’: alle Acli (L. 40.300.000), alla Dc (L. 32.344.000), ai Comitati civici (L. 9.250.000), al quotidiano «Avvenire d’Italia» (L. 16.000.000) e ad opere sociali (tramite V. Veronese) per L. 7.500.000. ASILS, VV, b. 62, fasc. 854, sfasc. 5, c. 132r.
156 ASILS, VV, b. 61, fasc. 851, c. 57r. Sottolineatura mia. È l’inciso al quale si è fatto cenno in precedenza.
157 Ibidem.
158 C. Bellavite Pellegrini, Storia del Banco Ambrosiano. Fondazione, ascesa e dissesto 1896-1982, Roma-Bari 2001, pp. 131 e segg.
159 BAV, BCV, AD, SP, CSP, cart. 1, fasc. 9.
160 P. Togliatti, Le linee generali delle trasformazioni economiche che noi proponiano, in I comunisti e l’economia italiana, 1944-1974, a cura di L. Barca, F. Botta, A. Zevi, Bari 1975, p. 79.
161 La guida e la tutela della Banca d’Italia risultano evidenti nella concessione di nuovi istituti di credito. Dal 1949 al 1959 furono concesse 159 aperture di casse rurali e banche popolari su 161 richieste, mentre per le aziende di credito ordinario si concesse una sola apertura a fronte di 19 richieste: F. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, Roma 2008, p. 71.
162 Su questi aspetti si rimanda a E. De Simone, L’organizzazione del credito speciale tra primo e secondo conflitto, in St.It.Annali, XXIII, La banca, a cura di A Cova, S. La Francesca, A. Moioli, C. Bermond, 2008, pp. 503-533; P. Galea, Imi, Iri e legge bancaria del 1936, ibidem, pp. 534-602; V. Zamagni, Il credito all’industria, ibidem, pp. 765-784.
163 F. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, cit., p. 86. Su Mediobanca cfr. anche N. Colajanni, Un uomo, una banca, Milano 2000 e L. Segreto, Il caso Mediobanca, in St.It.Annali, XXIII, La banca, cit., pp. 785-823.
164 G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari 1993, p. 271.
165 G. Galli, A. Nannei, Il capitalismo assistenziale. Ascesa e declino del sistema economico italiano, Milano 1976, p. 13.
166 Citato da V. Borelli, Banca padrona, Milano 2005, p. 115.
167 Una buona ricostruzione dell’intricata vicenda in C. Pallemberg, Le finanze del Vaticano, cit., pp. 151-161. Nel 1968, l’allora ministro delle Finanze Luigi Preti aveva calcolato, per difetto perché era escluso lo Ior, valori azionari per circa 100 miliardi di lire. La stima del ministro prevedeva che lo Ior possedesse il 56% delle azioni, mentre il 44% rimaneva in capo all’Amministrazione speciale, all’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede, alla fabbrica di San Pietro, alla Propaganda Fide e all’Opera Pontificia di San Pietro Apostolo. Ibidem, p. 218.
168 A questo punto la decisione presa fu quella vendere le partecipazioni azionarie in Italia e delocalizzare all’estero gli investimenti. Fu in questo frangente che la strada di Michele Sindona, dopo aver lavorato per l’arcivescovo Montini a Milano, incontrò quella della Santa Sede. Il tramite fu Massimo Spada, che aveva conosciuto il finanziere siciliano nel 1958 per una questione personale legata al Banco di Roma per la Svizzera, di proprietà dello Ior per il 51%. Ora, però, si trattava di affari più complicati e il nuovo incaricato di condurre le trattative, monsignor Sergio Guerri, giunse a un complesso accordo che fu però aspramente criticato dal sostituto della Segreteria di Stato, il cardinale Benelli, succeduto al cardinale Dell’Acqua. Insomma, Sindona si trovò a rinegoziare tutto con Benelli e con il successore di Guerri, nel frattempo nominato cardinale e chiamato a responsabilità amministrative della Città del Vaticano, monsignor Giuseppe Caprio. Sindona si rivolse a Marcinkus appena eletto segretario dello Ior per avvicinare il papa tramite il segretario personale don Pasquale Macchi. Non vi riuscì e il suo interlocutore unico fu il card. Benelli. La conclusione delle trattative avvenne nel 1971 quando Marcinkus fu nominato presidente dello Ior, rilevando l’anziano cardinale Di Jorio. Il termine della gestione di Di Jorio coincise con l’avvio dell’aggressività speculativa dello Ior. A farne le spese, come si è visto, fu anche la Banca cattolica del Veneto.
169 Si trattava delle linee guida di una profonda riforma dell’intera Curia all’interno della quale i molteplici centri di spesa dovevano essere ricondotti sotto il controllo di un unico grande ministero economico: la Prefettura per gli Affari economici della Santa Sede. Il fuoco di sbarramento a questa riforma fu intenso e molto efficace. Lo Ior rimase fuori dal controllo del nuovo dicastero. La riorganizzazione della parte finanziaria fu assegnata, appunto, a Sergio Guerri. Sulla nuova struttura finanziaria del Vaticano si veda G. Cereti, Le risorse e le attività finanziarie del Vaticano, «Concilium», 1978, 7, pp. 23-46.
170 R. Lill, Il potere dei papi. Dall’età moderna a oggi, Roma 2008, p. 180. Anche Lill riprende la insistente richiesta di Nogara di poter operare, a livello finanziario, senza alcun limite di natura etica (p. 125).
171 Il 24 giugno del 1965, Paolo VI durante un’allocuzione indirizzata al Collegio dei cardinali ebbe a dire: «Nulla qui diremo delle altre non poche e non lievi questioni straordinarie d’indole amministrativa, che tengono anch’esse in vigilante operosità i competenti uffici, come il radicale e indispensabile restauro del Palazzo del Laterano e la progettata costruzione della nuova aula per le udienze generali; e che, se Ci fanno sentire l’angustia benedetta delle limitate Nostre risorse finanziarie, non Ci distraggono dal Nostro proposito di moltiplicare quanto possibile i Nostri soccorsi alla fame nel mondo e ai bisogni missionari, pastorali, caritativi, che da tante parti Ci sono segnalati». Citato da C. Pallenberg, Le finanze del Vaticano, cit., p. 160.
172 Massimo Spada fu il braccio operativo effettivo dello Ior sino al 1963. La sua presenza in quasi tutte le società create dal Vaticano è segnalata, oltre che da G. Grilli, La finanza vaticana in Italia, Roma 1961, anche di recente da G. Galli, Finanza bianca, cit. pp. 51-75, e da P. Panerai, Lampi nel buio. I retroscena della finanza e dell’economia italiana dal dopoguerra ad oggi, Milano, 2010, pp. 5-13.
173 Che integrava nelle due sezioni, ordinaria e straordinaria, le competenze delle soppresse Amministrazione dei Beni della Santa Sede e Amministrazione speciale della Santa Sede.
174 Il promemoria si trova in ASILS, VV, b. 70, fasc. 994, sf. 2.
175 Il lungo appunto è, per la verità, frutto delle opportunità ‘personali’ che Veronese sembra intravvedere. Dopo decenni di cariche prestigiose, era forse venuto il momento di entrare nel gotha finanziario vaticano. Infatti, alla fine dello scritto, Vittorino Veronese entra nel merito dei possibili nomi in grado di dare questo apporto di esperienze e capacità internazionali. Si parte dal dottor Herman Abs (Deutsche Bank: Herman Abs non fu proprio il nome più appropriato data la sua presidenza della Deutsche Bank dal 1940 al 1945 e l’appartenenza al consiglio di amministrazione dalla IG. Farben durante il conflitto mondiale), dal prof. Collin (Kreditbank belga) e da George Kelly (direttore dell’American Bankers Association) per poi enumerare una serie di esperti italiani appartenenti a tre categorie: 1. membri del patriziato e della nobiltà, 2. grandi finanzieri o capitani d’industria (Valletta, Cini, Pesenti, ecc.); 3. dirigenti di enti e imprese e professionisti di sicura capacità appartenenti all’Azione cattolica, tra i quali Massimo Spada, Vittorino Veronese, Giordano Dell’Amore, Franco Feroldi, Ludovico Montini.
176 Fu Giovanni Malogodi, ministro del Tesoro nel 1973, ad istituire, per circa un anno, un doppio mercato dei cambi e l’obbligo di un deposito infruttifero del 50% sugli investimenti esteri, successivamente esteso, sia pure per breve durata, anche alle principali importazioni: cfr. F. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, cit., p. 103.
177 Sulla rete azionaria dello Ior si hanno ampie informazioni, non sempre sorrette da puntuale documentazione, in G. Grilli, La finanza vaticana in Italia, cit.; N. Lo Bello, L’oro del Vaticano, Milano 1971; C. Pallenberg, Le finanze del Vaticano, cit.; C. Raw, La grande truffa. Il caso Calvi e il crack del Banco Ambrosiano, Milano 1993.
178 I più attendibili sono C. Bellavite Pellegrini, Storia del Banco Ambrosiano, cit.; C. Raw, La grande truffa, cit.; R. Cornwell, Il banchiere di Dio, Roberto Calvi, Roma-Bari 1983; P.D. Gallo, Intesa Sanpaolo: c’era una volta un fantasma inesistente. Dal Nuovo Banco Ambrosiano, venticinque anni fa nasceva la prima banca italiana. Storie, retroscena, rivelazioni e protagonisti di ieri e di oggi, Milano 2007; e F. Pinotti, Poteri forti, Milano 2005.
179 P.D. Gallo, Intesa Sanpaolo, p. 35. Secondo questa ricostruzione si può spiegare la debolezza della politica «nei confronti del vecchio Banco anche perché, al momento della sua crisi epocale, di fronte alla posizione di grande coraggio e di forte spirito laico espressa in Parlamento da Beniamino Andreatta – che attaccò lo IOR in quanto corresponsabile del crac – la reazione dei partiti, pur forte, non riuscì a bloccare l’azione del Ministro del Tesoro per il commissariamento».
180 Ibidem, p. 71.
181 Ibidem, p. 49. Per fare un raffronto, il salvataggio del gruppo Sir costò complessivamente alle banche del consorzio e alla Cassa Depositi e Prestiti 3.681 miliardi nel 1982-1983: cfr. F. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, cit., p. 113.
182 Il volume di C. Raw, La grande truffa, cit., è interamente dedicato a dimostrare questa tesi.
183 «la Repubblica», 19 settembre 1982.
184 Si veda G.F. Mennella, V. Riva, Atlanta connection, Roma-Bari 1993.
185 Un’interessante ricostruzione delle vicende Comit e Crediti in S. Siglienti, Una privatizzazione molto privata, Milano 1996.
186 La ricostruzione delle vicende, in stile decisamente accattivante, in G. Galli, Finanza bianca, cit., pp. 128-135.
187 Secondo quanto espresso in occasione del dissesto, lo Ior è giuridicamente assimilabile a un’opera pia. Formalmente non può essere qualificato come «banca vaticana» né come «ente laico» della Città del Vaticano: C. Bellavite Pellegrini, Storia del Banco Ambrosiano, cit., pp. 176-177.
188 Nel 1993 Gotti Tedeschi ebbe una breve disavventura nella collaborazione con Gianmario Roveraro e Calisto Tanzi quando ricoprì la carica di numero uno del Banco Santander Central Hispano, grande azionista del San Paolo-Imi: F. Pinotti, Poteri forti, cit., p. 222.
189 R. Cammilleri, E. Gotti Tedeschi, Denaro e paradiso, Casale Monferrato 2004, p. 11.
190 «L’Osservatore Romano», 6 ottobre 2010: «La presenza della Chiesa, con i suoi valori, è indispensabile anche in economia, non solo perché è stata la sua tradizione ad ispirare il pensiero economico moderno grazie ai teologi tardo-scolastici, ma anche perché senza le sue opere di carità, spirituale e materiale, il mondo non riuscirebbe a reggersi nemmeno in futuro».
191 R. Fisichella, Identità dissolta, Milano 2009, pp. 69-70. La teologia politica è anche teologia economica.
192 Su questa linea anche G. Crepaldi, I cattolici in politica, Siena 2010.