DE MEESTER HÜYOEL, Giacomo Filippo
Nacque a Milano il 14 luglio 1765 da Daniele, olandese di Middelburg, e da Elena Mattei, figlia di un giureconsulto milanese. Tra i suoi fratelli si ricordano Enrico, laureatosi in giurisprudenza a Pavia nel 1790 e successivamente comandante della piazza di Pesaro nella Repubblica cisalpina, ed Anna Maria, con la quale il D. visse fino agli anni dell'esilio. Frequentate le scuole di umanità presso il ginnasio "S. Alessandro" della sua città, si laureò a Pavia in utroque iure nel giugno 1787. Per due anni fece pratica di avvocato, poi, come ricorda in una nota autobiografica conservata fra le sue carte a Milano, "la brillante società" e gli eventi francesi dell'89 lo distolsero "dall'arido studio delle leggi".
Democratico, fu tra i principali sostenitori della Cisalpina al comando di una legione della guardia nazionale, dando prova di notevoli capacità organizzative. Con l'arrivo degli Austro-Russi riparò in Francia, dove, in qualità di capobrigata, fu aggiunto allo stato maggiore della divisione delle Alpi Marittime; passò quindi a Genova al seguito dell'armata del generale A. Massena. Alla capitolazione della città (4 giugno 1800) fu tra gli ostaggi lasciati agli Austriaci per l'esecuzione dei patti, ma dopo Marengo (14 giugno) poté rientrare a Milano. Nella ricostituita Cisalpina venne incaricato dal generale Pino di organizzare la guardia nazionale, redigendo, a tale scopo, l'opuscolo Progetto di piano d'organizzazione per la Guardia nazionale sedentaria della Repubblica cisalpina (Milano 1800), nel quale si sforzava di "combinare il fine della guerra nazionale col minore incomodo dei cittadini". Nel nuovo ordinamento dell'esercito, decretato nel dicembre 1800 e attivato nel settembre 1801, fu dapprima sottoispettore, poi ispettore alle rassegne nello stato maggiore generale.
Per quanto di intime convinzioni repubblicane, il D. accettò il regime napoleonico (dedicò anche al Bonaparte lo scritto, rimasto inedito, Alcuni cenni per un piano di militare amministrazione), considerandolo un concreto passo in avanti rispetto ai governi precedenti. "Io vedeva in allora - scrisse molti anni più tardi nella prefazione all'opuscolo Della Repubblica democratico-rappresentativa - ilcaso di transigere ad abbracciare il minor male".
Decorato dell'Ordine della Corona ferrea e nominato barone, nel 1811 fu preposto alla carica di governatore del Collegio degli orfani dei militari milanesi. Iscritto alla massoneria, che contava tra gli aderenti molti esponenti dell'area democratico-repubblicana, figura nel 1808 nell'elenco degli "ufficiali in esercizio" insieme con Francesco Salfi e Teodoro Lechi. Il suo nome è legato pure alla loggia Giuseppina di Milano, della quale era venerabile lo stesso Salfi ed alto graduato il Romagnosi. In questi anni dovette pure entrare in contatto con le organizzazioni settarie facenti capo a Filippo Buonarroti. Nel processo per la congiura lombarda del 1814, Bartolomeo Cavedoni dichiarò che il D. lo aveva iniziato alla Società dei carbonari beneficenti, vicina per programma e metodi di aggregazione all'Adelphia.
Caduto Napoleone, tentò di difendere le libertà costituzionali firmando nell'aprile 1814 un indirizzo a lord W. Bentinck, nel quale si auspicava la conservazione del Regno Italico indipendente. Deciso oppositore del restaurato regime austriaco, che lo aveva confermato nella carica di governatore del Collegio degli orfani dei militari, partecipò insieme con l'Olini, il Moretti, il Lechi, il Soveri Lattuada, al piano di rivolta militare che iniziò a prendere piede nel settembre 1814. Favorevole ad una struttura in piccoli comitati, aveva il compito di riorganizzare la guardia nazionale. Dopo che fu sventato nel novembre il tentativo insurrezionale, il D., tradotto nelle carceri del Castello, negò risolutamente ogni appartenenza alla schiera dei rivoltosi. Il 13 genn. 1815 presentò alla commissione inquirente una memoria nella quale, dichiarandosi "cittadino probo e benemerito", tendeva a dimostrare come nelle conversazioni (poche e accidentali) avute con gli altri imputati non fosse stato "fabbricato alcun progetto politico, né di rivolta, né architettata la sua esecuzione". Tuttavia una serie di circostanze e, soprattutto, le testimonianze del Lechi e del Soveri Lattuada, portarono alla sua condanna al carcere a vita per "delitto di alto tradimento". La pena fu poi ridotta ad otto anni, quindi a quattro, di cui due scontati nella fortezza boema di Theresienstadt.
Tornato in libertà, si ritirò nella sua tenuta di Civate, prendendo parte alla preparazione dei moti del 1821. Secondo quanto affermato da Federico Confalonieri alle autorità austriache, vi erano, all'et. poca, in Milano, due centri cospirativi: quello dei federati, diretto dallo stesso Confalonieri, e quello genericamente definito dei carbonari, di cui il D. sarebbe stato a capo. A quale progetto politico si ispirassero i carbonari, a cui alludeva il Confalonieri, non è dato precisamente sapere, ma è probabile che si trattasse degli adelphi o di una setta a questa strettamente collegata.
D'accordo con il Confalonieri, al principio del marzo 1821 il D. si recò a Torino per sondare le intenzioni di Carlo Alberto circa la possibilità di un intervento in Lombardia. Riferì anche sulla consistenza delle forze austriache e manifestò la propria disponibilità a mettersi a capo di una eventuale sollevazione. Fallito il moto piemontese e bloccato così sul nascere il tentativo insurrezionale lombardo, riparò a Lione, ma appena cinque giorni dopo un dispositivo del ministro di Polizia lo costringeva ad abbandonare la città. Raggiunse allora Ginevra, dove la già nutrita schiera di esuli italiani poteva contare sull'appoggio del Sismondi e di Pellegrino Rossi. Nella città stabilì cordiali rapporti con Gioácchino Prati e Filippo Buonarroti, del quale, però, non accettava molti punti del programma sociale, come la legge agraria e la comunione dei beni.
Nei primi mesi del 1822 le autorità elvetiche, accusate dal governo austriaco di concedere asilo privilegiato ai rivoluzionari, lo espulsero insieme con la maggior parte dei rifugiati. Insieme con Benigno Bossi, si rifugiò allora in una campagna del Cantone di Vaud; di lì, dopo un nuovo breve soggiorno a Ginevra e una sosta in Belgio presso alcuni parenti, nel maggio 1823 si trasferì a Londra.
Frattanto contro di lui e altri quarantadue imputati, molti dei quali contumaci, si era aperto a Milano un grande processo, istruito da una commissione speciale presieduta prima da Menghin, poi da A. Salvotti, che durò due anni e si concluse con la sua condanna a morte.
Nella capitale inglese risiedeva la maggior parte dei fuorusciti italiani e il D. tra gli altri, strinse amichevoli rapporti con Ugo Foscolo. Per ovviare alle ristrettezze economiche impartiva lezioni di italiano e latino, ma talora dovette ricorrere a prestiti di vecchi amici quali Giuseppe Arconati Visconti e Giacomo Ciani. La sua milizia politica fu in questi anni intensissima ed egli divenne una delle figure più rappresentative dell'emigrazione italiana. Entrato a far parte del Comitato di Londra, fu, nel '24, segretario e tesoriere di un Comitato inglese di soccorso promosso, tra gli altri, dall'Angeloni, dal Porro Lambertenghi, dal San Marzano, per aiutare gli italiani che avevano combattuto in Spagna nel 1823.
Convinto assertore degli ideali repubblicani, era tuttavia disposto a transigere sulla forma di governo per realizzare un programma tra forze politiche d'ispirazione diversa, volto a liberare la penisola "dall'esterno ed interno dispotismo e metterla in istato di scegliere quel governo che più sia per esserla gradevole" (lett. a Francesco Tadini del 2 apr. 1831. Per questo, già sul finire del '23, insieme al Prati, all'Angeloni, al Tadini e ad altri, era stato tra i sottoscrittori di una significativa Dichiarazione di principî, nella quale si affermava che solo al popolo spettava decidere "sopra le istituzioni che lo debbono reggere e di modificarle" e, pertanto, qualsiasi predeterminazione della forma di governo doveva considerarsi usurpatoria e politicamente pericolosa. Tale dichiarazione contrastava apertamente con il programma di Buonarroti, secondo il quale bisognava delineare in anticipo le linee del futuro edificio politico.
La divergenza tra le due correnti si manifestò apertamente tra il '28 e il '30 a proposito della cosidetta "congiura esterise", degli accordi cioè tra Enrico Misley e il duca di Modena Francesco IV secondo i quali questi sarebbe divenuto capo di un grande movimento liberale e sovrano di un ampio regno costituzionale. Il Comitato di Londra e parte di quello di Parigi si mostravano favorevoli all'iniziativa. Il D. in particolare, attraverso l'Unione italiana, un'associazione da lui ispirata nel novembre 1830, che ebbe vita piuttosto breve, era disposto ad acconsentire alle pretese di Francesco IV solo se avesse accettato di porsi a capo di un moto diretto a riunire tutta la penisola. A questa ipotesi si opponeva risolutamente il Buonarroti, contrario a qualsiasi accordo o calcolo politico con i sovrani. I contrasti tra le due correnti furono assai aspri e trovarono un momento di risoluzione con la creazione di una Giunta liberatrice italiana (20 genn. 1831), la cui presidenza fu affidata al vecchio Salfi. Naufragato anche il tentativo insurrezionale del '31, il D., sfiduciato, individuò nella "mollezza", nell'"incapacità", nella "mancanza di esperienza" alcune delle ragioni dei continui fallimenti delle azioni rivoluzionarie nella penisola.
Privo di mezzi di sussistenza (nel '32 Ferdinando Dal Pozzo gli aveva procurato una somma piuttosto cospicua, oltre 250 franchi, raccolta tra gli esuli) e afflitto da una grave affezione reumatica che ne avrebbe in breve tempo minato l'efficienza fisica, nell'aprile '33 si trasferì a Parigi, dove ottenne una pensione quale ex generale di brigata dell'esercito francese. Presidente della Commissione dei sussidi ai profughi italiani, restò in contatto con il mondo dell'emigrazione, dal Pepe al Tommaseo, dal Confalonieri al Mazzini, in un incessante lavoro di aiuto e collegamento.
Con i provvedimenti di clemenza concessi dal nuovo imperatore d'Austria Ferdinando I (6 sett. 1836) in favore dei profughi politici, il D. ottenne la libera disponibilità dei beni. Questi, che consistevano in una casa a Milano e una villa con terreni presso Civate, erano stati amministrati per molto tempo da Francesco Bertani, padre di Agostino, e versavano in condizioni piuttosto precarie. Il D., nominato Carlo Bellerio nuovo procuratore e trasferitosi a Lugano per poter operare con maggiore sollecitudine (giugno 1840), liquidò il proprio patrimonio ricavandone una cospicua rendita. Intenzionato a tornare a Parigi, si trattenne a Lugano sia per l'aggravarsi dell'infermità, sia perché, a causa dell'indulto concesso da Carlo Alberto (1842), molti dei suoi amici e collaboratori erano tornati in patria.
Salutate con entusiasmo le Cinque giornate, restò deluso di fronte al prevalere della linea annessionistica con il Piemonte scrivendo un proclama Ai bravi Lombardi, nel quale ribadiva che il governo repubblicano era il solo che potesse "dare e conservare l'indipendenza di una nazione in qualunque posizione, avente qualunque carattere morale e possedente qualunque grado d'incivilimento". Tale scritto, inviato al Mazzini alla fine di aprile, non venne pubblicato perché giudicato politicamente troppo compromettente.
Sempre nel '48 terminò la stesura dell'opuscolo Della Repubblica democratico-rappresentativa, edito a Lugano nel novembre, forse il suo scritto più organico.
Riprendendo in maniera un po' astratta alcuni temi della tradizione giacobina, identifica nei "lumi, l'onestà e l'energia" le doti proprie dei governanti e in speciale modo di coloro che sono destinati a reggere le sorti di una repubblica. Favorevole al mantenimento della proprietà privata, che considera segno tangibile della parte sostenuta da ciascuno nella trasformazione del mondo materiale, individua nelle leggi ereditarie il vero principio delle ingiustizie sociali. Queste infatti "alterano l'equabilità delle ricchezze, rendono stazionaria la cultura delle terre, sono nocive al commercio, diminuiscono la sicurezza de' contratti e causano fra parenti liti intrigatissime". Incoraggiata la costituzione di associazioni e di società per azioni per sostenere lo sviluppo di grandi opere in campo economico e commerciale, il D. è per l'istituzione in Italia di una repubblica di tipo federale, sul modello degli Stati Uniti d'America, paese per il quale mostra grande apprezzamento.
Infermo, continuò a partecipare all'attività politica e cospiratoria elargendo un prestito di 2.000 lire ad Alessandro Repetti, proprietario della tipografia Elvetica di Capolago, e sottoscrivendo una quota cospicua per il moto mazziniano del 6 febbr. 1853. Morì a Lugano il 14 dic. 1852, ricordato da Carlo Cattaneo, Carlo Lurati e Antonio Gabrini. Nel testamento nominava erede dei propri averi (circa 30-000 franchi) "la prima Repubblica che sarà istituita in Italia"; ma Antonio Gabrini, amministratore fiduciario del lascito alla morte dei fratelli Ciani, devolse la somma a favore dell'asilo per gli orfani dei sottoufficiali di marina nel 1896.
Fonti e Bibl.: Dell'Arch. De Meester, conservato dapprima da R. Manzoni e poi da A. Ghisleri (cfr. A. Ghisleri, Museo storico degli esuli italiani. Con un estr. del catalogo ed elenco dei donatori, Como 1923), parte cospicua si trova ora presso il Museo del Risorgimento di Milano (cfr. Archivio degli esuli. Fondo Ghisleri, Carte De Meester);altra parte è conservata nelle Carte Ghisleri della Domus Mazziniana di Pisa, mentre un certo numero di autografi e documenti si trova ancora presso la famiglia Ghisleri a Bergamo. Per cenni biografici si vedano, F. Tadini, D. M. van-Stuyel [sic], Philippe, le général, in Biographie des hommes du jour, Paris 1836, III, 1, pp. 15-18, ripubbl. in M. Nagari, Ilcarteggio Tadini-De Meester, in Boll. storico per la prov. di Novara, LIV (1963), 2, pp. 1519; C. Lurati, Alcuni cenni sulla vita del gen. G.F.D., Capolago 1853; A. Vannucci, Imartiri della libertà italiana, Firenze 1860, pp. 191, 264 ss.; D. Spadoni, Ilgen. barone G.F.D., in Rass. storica del Risorgimento, XVI (1929), 4, pp. 849-885; Diz. del Risorgimento nazionale, II, 2, p. 910. Per il periodo 1796-1821, cfr. A. Andryane, Souvenirs de Genève. Complément des Mémoires d'un prisonnier d'Etat, Bruxelles 1839, II, p. 136; A. Zanoli, Sulla milizia cisalpino-italiana dal 1796 al 1814, Milano 1847, p. 18; F. Cusani, Storia di Milano, Milano 1873, IV, p. 352; V, p. 97; VII, pp. 201-236; G. De Castro, La caduta del Regno Italico, Milano 1882, pp. 218, 225; Id., Milano durante le cospirazioni lombarde (1814-1820), Milano 1892, pp. 123, 127, 139, 152; J. A. Helfert, La caduta della dominazione francese nell'Alta Italia, Bologna 1894, pp. 172, 198, 202-209, 228, 231; F. Lemmi, Le origini del Risorgimento ital. (1789-1815), Milano 1906, pp.412, 432; V. Tonni Bazza, S. Moretti, Roma 1909, pp. 7, 9; F. Confalonieri, Carteggio, a cura di G. Gallavresi, Milano 1913, II, 2, pp.749, 751, 753, 839, 898, 904, 948, 1136; G. Decio, Memoria del gen. G.F.D. Oël [sic] sui moti del 1821 in Piemonte e in Lombardia, in Boll. stor. per la prov. di Novara, XIX (1925), 3, pp. 219-225; A. Luzio, La massoneria e il Risorg. italiano, Bologna 1925, I, pp. 96-111; D. Spadoni, Milano e la congiura militare nel 1814 per l'indipendenza ital., Modena 1936-37, ad Indicem;G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, I, Milano 1956, p. 372; F. Lechi, Ilmiraggio della libertà, in Storia di Brescia, Brescia 1961, IV, p. 112; E. Rota, Milano napoleonica, in Storia di Milano, XIII, Milano 1959, pp. 318, 343; C. Spellanzon, Iprimi anni della Restaurazione austriaca, e Il decennio 1820-1830, ibid., XIV, ibid. 1960, pp. 20, 22, 27, 31 s., 120, 123. Per il periodo 1821-1852, cfr. G.B. Morandi, Francesco IV di Modena e gli esuli ital. di Londra, in Arch. emiliano del Risorg. naz., I (1908), 2, pp. 7- 12; Ediz. naz. degli scritti... di G. Mazzini, X, p. 377; XV, p. 335; XXXIII, pp. 181, 214; XXXV, pp. 87, 155, 181; F. Patetta, Dichiarazione di principii d'una vendita di carbonari ital. in Londra nel 1823, in Atti d. R. Accademia d. scienze di Torino, LI (1915-16), pp. 1389-1410; A. Monti, Un dramma fra gli esuli, Milano 1921, p. 18; R. Manzoni, Gli esuli italiani in Svizzera, Milano 1922, pp. 2 s., 23, 39, 54 ss. e passim; Note autobiografiche del cospiratore trentino G. Prati, a cura di P. Pedrotti, Rovereto 1926, pp. 39 s., 92, 149, 153, 182; L. Ledermann, P. Rossi, Paris 1929, pp. 302 s.; C. Nardi, La vita e le opere di F.S. Salfi (1759-1832), Genova 1925, pp. 86, 331, 333; R. Soriga, Imoti del '31 secondo il carteggio del gen. F.D., in La Lombardia nel Risorgimento italiano, Milano 1930, pp. 117-128; M. Mauerhofer, Les réfugiés de la Révolution de Turin, in Revue d'histoire suisse, XVII (1937), pp. 430-440; M.C.W. Wicks, The Italian exiles in London (1816-1848), Manchester 1937, pp. 82 s.; R. Soriga, F. 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