DE MARINIS, Donato Antonio
Nato verso il 1599 a Giungano, piccolo borgo dei Principato Citra (ora prov. di Salerno), apparteneva a una famiglia men che modesta. Secondo una voce raccolta da Francesco D'Andrea, egli era il servitore di un nobile venuto a Napoli per seguire i corsi universitari. Intellettualmente assai dotato ed animato da una volontà ferrea, aveva anch'egli intrapreso gli studi, conseguendo il dottorato in diritto nel 1628.
Non si hanno altri riscontri su questa vicenda che, tuttavia, non manca di qualche fondamento. La circostanza stessa che il D. si addottorasse ad un'età notevolmente superiore alla media, lascia intendere che non avesse compiuto studi regolari. Inoltre i contemporanei concordano nel descriverlo povero e privo d'ogni appoggio, a Napoli come nella terra d'origine.
Peraltro neppur e la laurea mutò in maniera sostanziale la sua condizione: impacciato nel parlare quanto disadorno ed essenziale nello scrivere, non riuscì ad imporsi come avvocato. Per vivere modestamente, "da studente", dovette adattarsi a redigere allegazioni e scritti difensivi per i colleghi più fortunati. Per sfuggire a questa situazione emigrò a Roma, dove pero rimase poco perché "attender non volle tra lunghe vigilie e incessanti servitù, immaginarij splendori all'ombra de' Grandi" (L. Crasso).
Ritornato a Napoli vi pubblicò, nel 1632, il primo tomo delle Resolutionum quotidianarum iuris pontificii, caesarei et Regni Neapolis. Vierano raccolte trecentocinquanta allegazioni, probabilmente quelle stesse che i "professori" del Sacro Consiglio gli retribuivano con tanta avarizia. Il successo dell'opera, subito adottata dai forensi come un indispensabile strumento professionale, gli procurò una buona clientela. Ma, a dire del cardinale G. De Luca, fu un processo del 1636 per la successione del principato di Venafro, a consacrarlo avvocato di fama.
La nomina a magistrato avvenne in circostanze eccezionali, tali però da aprire uno spiraglio sulla sua personalità. Durante la rivoluzione napoletana del 164748 ebbe dal duca di Guisa, allora "Duce della Serenissima e Real Republica", una "piazza" nel Sacro Regio Consiglio.
Questa parentesi rivoluzionaria nella vita del D. non deve stupire: giuristi ed avvocati "principali" erano stati gli ispiratori ed i protagonisti della rivolta e del successivo esperimento repubblicano. La loro aspirazione era di espellere la nobiltà dai maggiori centri del potere istituzionale, nella prospettiva di una res publica governata dai giuristi. In questo contesto ben s'inseriva il D., uomo d'origine oscura ma di grandi ambizioni, che solo a prezzo di duri sacrifici era riuscito ad emergere e ad esprimere il suo talento. Da questo punto di vista le sue aspirazioni personali erano convergenti con l'obiettivo fondamentale della rivoluzione.
Il crollo della Repubblica stroncò, ovviamente, quell'inizio di carriera. Il D. ritornò all'attività forense, pubblicando nel 1650 (Neapoli) il secondo tomo delle Resolutionum quotidianarum. Ormai era un avvocato di successo, celebrato come l'"evangelista de' feudi", ma viveva con grande parsimonia e da scapolo (adducendo motivi di salute aveva sempre rifiutato il matrimonio). Era così riuscito ad accumulare una considerevole ricchezza, senza renderne partecipe alcuno, e men che mai la parentela, con cui aveva rotto ogni rapporto. Infatti temeva di svelare le sue povere origini, che cercò di nascondere facendosi credere discendente d'una nobile famiglia genovese. Secondo altri, invece, scacciò il padre che si era recato a Napoli per fargli visita, dicendo di non essere "figliuolo che di se stesso".
La risalita nel cursus honorum fulenta: succedendo a Giulio Genoino (il grande leader della rivoluzione), nel 1650 fufatto vicecancelliere del Collegio dei dottori. Quattro anni dopo era nominato giudice in civilibus nella Gran Corte della Vicaria. Nel 1655 giunse la nomina a presidente togato della R. Camera della Sommaria.
Il periodo che il D. trascorse in questo tribunale fu assai fecondo. Pubblicò con le sue "i additiones" un'opera manoscritta di F. Reverterio (Summa et observationes ad singulas decisiones Regiae Camerae Summariae Regni Neapoli, Lugduni 1662), Cui in seguito aggiunse DCCXXVII arresta Regiae Camerae Summariae Neapolitanae, Venetiis 1713. Un'opera fondamentale, quest'ultima, che consolidava la giurisprudenza di questo tribunale dalla prima metà del sec. XIV fino al 1665. Nello stesso periodo mandò alle stampe un'altra raccolta di Iuris allegationes insignium iurisconsultorum urbis regiae Neapolis (nell'edizione veneziana, 1712), nella quale inserì suoi scritti degli anni tra il 1639 ed il 1658.
Quando il 5 nov. 1659 un terremoto sconvolse la Calabria Ultra provocando oltre 2.000 vittime, il viceré conte di Pefiaranda vi inviò il D. "per riconoscere e verificare li danni ... acciò si potessero applicare i rimedij necessarij". Per alcuni mesi si trattenne nella zona terremotata, compilando un'accurata Relatione sopra li danni che hanno patito molte città, terre e casali nella provincia di Calabria Ultra, Napoli 1660.
A riconoscimento di tanti servigi, il 5 nov. 1663 Filippo IV lo chiamava a Madrid nel Consiglio d'Italia. Rimase alla corte spagnola sino al febbraio del 1665, quando ottenne di ritornare in patria come reggente del Consiglio collaterale.
Si spense a Napoli il 26 apr. 1666, istituendo come unici eredi del suo patrimonio, valutato 80.000 ducati, i carmelitani scalzi del convento di S. Teresa, nella cui chiesa fu sepolto "eitisdem Religionis sacro indumento, palmam in manum. habens tamquam coelebs et virgo" (Toppi).
Non altrettanta pietà avvertirono altri, che bollarono, per quel testamento, il D. come "empio di tutti i suoi e verso la patria". Nel pronunciare un giudizio tanto severo F. D'Andrea era, probabilmente, mosso anche da rancori familiari: a causa di un intervento del D. suo padre Diego aveva rischiato di perdere l'ufficio d'avvocato fiscale di Salerno. Di certo però non era consueto né comprensibile che un "ministro supremo" ostentasse un tale disinteresse per le fortune della "casa", generalmente viste come l'obiettivo fondamentale d'ogni buona carriera. E sotto questo profilo il D. rappresenta davvero un caso anomalo. A quel lascito egli aveva apposto una condizione significativa: la sua ricca biblioteca doveva, a cura dei frati, esser messa a disposizione degli studenti che frequentavano il vicino Studio pubblico.
Fonti e Bibl.: Documenti sulle cariche ricoperte dal D. in Arch. di Stato di Napoli, Officiorum Viceregum, vol. 37, f. 10v, 14 maggio 1654;Arch. general de Simancas, Secreterias provinciales, lib. 214, f. 368v, 18 ag. 1655; lib. 223, f. 32, 5nov. 1663. Per informazioni e testimonianze cfr. F. D'Andrea, Avvertimenti ai nipoti, in N. Cortese, Iricordi di un avvocato napol. del Seicento, Napoli 1923, pp. 79, 91, 129 s., 157, 168, ripresi in P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di A. Marongiu, VII, Milano 1972, pp. 54 s.Cfr. anche N. Toppi, De origine tribunalium urbis Neapolis, III, Neapoli 1666, pp. 71, 139, 184 ss., 237-40;L. Crasso, Elogii d'huomini letterati, Venetia 1666, pp. 342 s.; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, II, Napoli 1787, pp. 226-32;N. Cortese, L'età spagnuola, in Storia dell'univers. di Napoli, Napoli 1924, p. 359; R. Trifone, Uno sguardo agli scritti dei giuristi napol. del Seicento, in Atti dell'Acc. di scienze morali e polit. della Società naz. di scienze, lettere ed arti in Napoli, LXX (1959), p. 23. Per il coinvolgimento del D. nella rivoluzione cfr. V. Conti, Le leggi di una rivoluzione. I bandi della Repubblica napoletana dall'ottobre 1647 all'aprile 1648, Napoli 1983, p. 287; I. Fuidoro, Successi del governo del conte d'Oñatte..., a cura di A. Parente, Napoli 1932, p. 78. Sul monumento sepolcrale scolpito da C. Fanzago, Seicento napoletano. Arte, costume ed ambiente, a cura di R. Pane, Milano 1984, p. 376. Per la citazione del card. G. De Luca cfr. Theatrum veritatis et iustitiae, XI, Venetiis 1706, lib. XI, p.III, disc. 3, n.9, pp. 6 s. Gli scritti del D. per la successione di Venafro sono nel cit. Resolutionum, II, capp. 188 s., pp. 258-73.