DE MARINI (Marini), Giovanni Antonio
Nacque a Genova attorno al 1540 da Giacomo di Giovanni Antonio ed ebbe due fratelli, Ottavio e Giovanni Battista. Con Ottavio e con i figli del già defunto Giovanni Battista, nel 1575, all'epoca della guerra civile tra nobiltà vecchia e nuova, condivise la scelta politica dei "vecchi" (del resto la sua famiglia era di antichissima nobiltà) e abbandonò Genova, dove ritornò dopo l'accordo di Casale del marzo 1576. Come risulta dall'elenco dei capitali tassati al 2½ per cento dalla deputazione incaricata di recuperare i 300.000 scudi spesi durante la guerra civile, il D. col fratello Ottavio disponeva di un consistente patrimonio, ascendente a 80.000 scudi: cifra tra le più cospicue e comunque superiore alla media anche di nobili politicamente più qualificati.
Potrebbe tra l'altro essere significativo che, nell'elenco delle famiglie nobili tassate, quella dei De Marini venga subito dopo i Salvago e i Cattaneo, e sia distinta in due gruppi, pur con lo stesso cognome: del primo fanno parte verituno componenti, tra cui un Goffredo fu Giovanni con la cifra più alta (70.000 scudi) e Gerolamo, padre del doge del 1641, Giovanni Agostino, con 16.250 scudi, e gli altri con cifre oscillanti tra i 100 e i 10.000 scudi; dei secondo gruppo fanno parte solo quattro nominativi: appunto il D., il fratello Ottavio, gli eredi dell'altro fratello, definito "l'illustre" Giovanni Battista (per 750 scudi) e un Nicolò fu Blarco per 100 scudi.Dopo il ritorno in città, il D. dovette mantenere un contegno politico moderato e una certa riservatezza: d'altra parte la sua attività pubblica risulta documentata solo attraverso tre episodi: una sua lettera da Venezia al governo il 14 nov. 1592, la sua estrazione a senatore della Repubblica nel 1595 e la nomina ad ambasciatore triennale a Madrid il 31 maggio 1602.
Dalle istruzioni che in quest'ultima data gli furono consegnate dal governo traspare una sincera stima per la fama di uomo prudente ed equilibrato che si era guadagnato. Il D. sostituiva Cesare Giustiniani e doveva mettersi in contatto a Madrid con Filippo Adorno, che aveva in custodia tutti i documenti ufficiali dell'ambasciata, per farseli consegnare. Secondo le istruzioni, oltre alle convenzionali espressioni di rispetto e di "singolare osservanza" al re e alla regina di Spagna, ed anche per tutti quei ministri che, a discrezione del D., potessero apparire più utili alla Repubblica, egli doveva trattare diversi problemi, primo fra tutti quello del Finale. La fortezza era stata occupata dalle armi spagnole, ma su di essa, come su tutto il feudo, la Repubblica intendeva mantenere i propri diritti, che ancora sperava di veder riconosciuti dalla "giustissima mente" del re. Il D. doveva raccogliere con cautela tutte le informazioni utili, indagare sull'opinione di Filippo III e dei suoi ministri, sui piani anche solo ventilati e informarne diligentemente il governo. Il secondo punto che doveva trattare era il possesso di Monte di Vai in Lunigiana, che il marchese di Stepa aveva venduto a Filippo II padre dell'attuale re insieme al territorio di Aulla e Bibula: il D. avrebbe dovuto cercare di ottenere la vendita a Genova almeno del monte, completamente circondato come era dal territorio della Repubblica. Altri punti riguardavano il riconoscimento della precedenza delle galee della Repubblica rispetto a quelle dell'Ordine di Malta, la definizione, conforme all'uso di altre corti, degli accordi circa l'estradizione dei delinquenti che cercavano asilo nell'abitazione dell'ambasciatore e, più interessante di tutti, l'incarico di ottenere una copia del testamento di Cristoforo Colombo di Cogoleto, conservato dal dottore Scipione Canova, residente in Madrid, per poter sostenere gli interessi dei suoi eredi genovesi contro le pretese di sedicenti eredi spagnoli del medesimo cognome.
Per l'ambasceria veniva fissato al D. un compenso di 4.000 scudi d'oro all'anno, da pagarsi a rate trimestrali, con l'obbligo di mantenere 20 persone, dal segretario, il milanese Bernardo Cremosano, al cuoco. Il D. per parte sua, giunto a Barcellona il 13 giugno 1602 e a Valladolid il 16 luglio, ottenne dal re di Spagna una dimora conveniente al suo rango, con la clausola che essa, o analoga, sarebbe stata fornita anche ai suoi successori, e che, qualora ciò fosse impossibile, sarebbero stati versati loro 500 scudi, considerato che il governo genovese procurava l'abitazione all'ambasciatore spagnolo a Genova. Negli anni seguenti, poiché i successori del D. ebbero difficoltà ad ottenere l'adempimento di questa convenzione da parte del governo spagnolo, molte istruzioni agli ambasciatori genovesi a Madrid vi fanno riferimento. per ricordare agli interessati (Costantino Pinelli nel 1621, Giambattista Serra nel 1622, Giovan Battista Saluzzo nel 1629 e molti altri ancora) l'abilità del D. nell'ottenerlo e l'opportunità di pretenderlo.
Nella sua ultima lettera al governo del 30 ott. 1604 il D. si dichiarava ammalato, e il successivo 20 novembre il suo segretario ne annunciava la morte avvenuta a Valladolid.
Anche la vedova, Luisa Sauli, scriveva in tal senso il 27 novembre. Il 21 dicembre il governo genovese, in attesa di nominare il successore del D., incaricava Battista Centurione di prendere in consegna dalla vedova tutte le carte dell'ambasciata e di farne l'inventario. Probabilmente la vedova tornò a Genova, certo l'unico figlio del D., Giacomo, fu ascritto ventenne nel 1607 nel Libro della nobiltà di Genova.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, mss. 454, cc. 6v, 35v; Genova, Civica Bibl. Berio, m.r. X. 2. 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, cc. 921-922, Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, Roma 1951, I, pp. 347 s., 356, 387, 392; II, pp. 119, 27, 183, 219; F. Poggi, Le guerre civili di Genova in relazione a un documento economico finanziario dell'anno 1576, in Atti d. Soc. ligure di st. patria, LIV (1930), pp. i 16, 160; V.Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, ibid., LXIII (1934), pp. 71, 169;G. Guelfi Camajani, Il "Liber nobilitatis Genuensis" e il governo della Repubblica fino al 1797, Firenze 1965, c. 331.