De gli occhi di quella gentil mia dama
Sonetto (Rime dubbie XXVI; schema Abba, Abba: Cdc, Dcd) attribuito a D. nel codice Lat. e. III 23 della biblioteca dell'Escuriale, e nel derivato Marciano it. IX 191; stampato nella Giuntina del 1527 con l'incipit notevolmente variato (Da gli occhi belli di questa mia dama). Il contenuto e soprattutto la forma del componimento, a parte la poca attendibilità della tradizione manoscritta, conducono la moderna critica a negarne recisamente la paternità dantesca (cfr. le attente e validissime osservazioni del Contini in merito alla lingua e alle immagini).
Più accettabile dell'attribuzione a Dante da Maiano (Fraticelli, che accettò una citazione del Quadrio) è la proposta di considerare il sonetto opera di un anonimo non troppo abile imitatore di D. (di uno " scolaruccio stilnovista ", come lo definisce il Contini), probabilmente ispiratosi ai due incipit danteschi De gli occhi de la mia donna si move (che nel manoscritto Escurialense segue il presente sonetto) e Ne li occhi porta la mia donna Amore (che lo precede) e, in genere, al repertorio stilnovista.
Il sonetto esprime infatti nei moduli più consueti le lodi della donna amata: dagli occhi di lei si sprigiona una tal forza d'amore, che chi la guarda mai altro non brama; ella è chiamata loro dea da Beltà e Cortesia, e infatti non par umana, anti divina, e la sua fama aumenta continuamente. Le sue virtù sono tante, che l'uomo che l'ama può essere contento.
Bibl. - P. Fraticelli, Il canzoniere di D.A., Firenze 18733, 267-268; Contini, Rime 270-271.