DE FRANCHI TOSO, Federico
Nacque a Genova nel 1560, terzogenito di Gerolamo e di Isabella Sauli, dopo Cristoforo e Maria.
Appartenne al ramo Toso della famiglia De Franchi, forse il più insigne per autorità politica e potenza economica, in grado di esercitare una funzione di guida tra la cosiddetta nobiltà "nuova". Il padre del D. fu, infatti, uno dei protagonisti nel conflitto sociale che aveva opposto nobiltà "vecchia" e "nuova" negli anni '70 e che si concluse con la riforma costituzionale del 1576. Anche il D. giovanetto dovette presenziare alle riunioni che, dall'estate del 1573, il padre teneva nella propria abitazione con Bartolomeo Sauli, Michele Adorno, e a volte anche Matteo Senarega, per coordinare l'azione politica che permettesse ai nobili nuovi di ottenere la modifica dei rapporti di forza esistenti all'interno dello Stato con la riforma degli istituti che avevano garantito fino a quel momento l'egemonia dei vecchi. Il successo della linea moderata perseguita dal padre del D., ne favorì pochi anni dopo l'elezione a doge (1581) e probabilmente facilitò al D. la precoce e intensa carriera politica.
L'educazione del D. fu accurata: la stessa madre, figlia di Ottaviano Sauli, celebre letterato del tempo, lo seguì nei primi anni; poi fu affidato a precettori e quindi si dedicò con passione agli studi giuridici ed economici. Nel 1583 ricoprì la prima carica pubblica nell'ufficio dei Cambi, nel quale sarebbe ritornato a varie riprese negli anni successivi. Ma la prova del prestigio personale e familiare di cui godeva è data dalla sua elezione nel 1586 a una delle massime cariche dello Stato genovese, quella di sindacatore supremo (con funzione di controllo dell'operato del doge e dei membri dei due Collegi), all'età di ventisei anni: circostanza la cui eccezionalità è sottolineata con ammirazione anche da annalisti neutrali. A sindacatore supremo il D. venne poi rieletto varie volte: nel 1597, 1614, 1622. Nel 1593 fece parte dell'ufficio dei Poveri, in un periodo in cui fame e pauperismo conobbero una forte recrudescenza e costituirono uno dei più pericolosi elementi di instabilità politica: secondo una prassi abituale, che fondeva assistenza e sfruttamento, il D. ebbe il compito di organizzare attività in cui i "poveri" abili al lavoro potessero essere utilizzati. Nel 1597, oltre che supremo sindacatore, fu di nuovo all'ufficio dei Cambi; nel 1600 fu contemporaneamente eletto tra i conservatori della Pace (in un momento di tensione interna e internazionale, giustificata dai problemi apertisi nelle relazioni con la Spagna dopo la morte di Filippo II) e, con altri due patrizi, nell'ufficio dei Caratati, incaricati di tassare il legname che proveniva dall'estero. Dopo essere stato estratto senatore nel 1602, e contemporaneamente entrato nel magistrato di Corsica (carica che esercitò altre cinque volte negli anni successivi), dal 1603 al 1606 si dedicò completamente alla direzione dei lavori per la costruzione di due navi destinate alla flotta della Repubblica.
Questo incarico, cui attese con grande solerzia conferma la sua appartenenza al gruppo dei cosiddetti navalisti, cioè di quei nobili nuovi che, all'interno della classe dirigente genovese, puntavano sul potenziamento dell'attività marinara e mercantile per risolvere i problemi politici ed economici della Repubblica. Il D. e il suo gruppo ritenevano che tale politica garantisse l'effettiva autonomia di Genova dalla Spagna, cui invece erano legati i nobili vecchi come assentisti e attraverso l'attività dei cambi.
Nel 1607 il D. fu uno dei provvisori del Vino, di cui lo Stato deteneva il monopolio.
Alla fine dello stesso anno, fu eletto sindacatore della Riviera di Levante. L'amministrazione periferica aveva subito sostanziali modifiche con la legge del 5 apr. 1606 per quanto riguardava sia i meccanismi elettivi dei giusdicenti sia il grado delle singole podestarie suburbane affidate ai nobili. L'elezione del D. diventa quindi significativa, anche per la funzione di controllo da esercitare nell'applicazione delle nuove norme, ed esemplare per il rango del personaggio.
Trascorso tutto il 1608 per podestarie e capitanati della Riviera, il D. entrò nella deputazione incaricata di stabilire i prezzi dei cambi, espressione del tentativo del governo di esercitare qualche funzione di controllo politico sull'attività economica di vasti settori della nobiltà vecchia. Eletto nel 1610 commissario della rocca di Savona - forse per allontanarlo -, il D. preferì rifiutare l'incarico, nonostante la pesante multa. Nel 1611 ricoprì contemporaneamente le cariche di protettore di S. Giorgio, di dirigente dei lavori navali e di componente del magistrato di Corsica: espressioni complementari di una univoca scelta politica. Ma nello stesso anno, il 28 giugno, venne eletto ambasciatore ordinario presso il re di Spagna. Che ci fosse l'intenzione di allontanarlo ad ogni costo da Genova, e da una attività politica sgradita alle direttive spagnole, sembra confermato e dal rifiuto dell'incarico da parte del D. e dalla nuova nomina a commissario della rocca di Savona l'anno successivo. Il D. questa volta fu costretto a trasferirvisi per tutto il 1612-13. Tornato a Genova, nel 1614 fu rieletto tra i supremi Sindacatori e riprese la carica di revisore dei Cambi. Nel 1617 venne preposto alla riforma della Ruota criminale; nel 1618 gli si aggiunsero tre incarichi: quello di sindacatore della Ruota civile, di magistrato della Milizia e ancora ai Cambi. Tra il 1619 e il 1622 fece parte ininterrottamente dell'ufficio dei Cambi e, alternativamente, dei magistrati dell'Abbondanza, del Sale, della Milizia e dell'Olio. Nel 1623 era tra i sindacatori supremi, quando, il 25 giugno, venne eletto doge con 254 voti su circa 400, dopo che già nel 1619 aveva ottenuto un numero di voti pari a quello dell'eletto Pietro Durazzo.
Nel primo periodo, relativamente tranquillo, del dogato del D. si provvide alla edilizia pubblica, con la costruzione delle cisterne di piazza Sarzana e di un collegio affidato ai gesuiti. Il secondo periodo fu invece turbato dalla guerra mossa a Genova dal duca di Savoia, Carlo Emanuele I, alleato del re di Francia, nel contesto della guerra dei Trent'anni. Il D. istituì un magistrato di Guerra straordinario, con pieni poteri, composto di cinque membri sotto la sua personale direzione. La necessità di evitare, in regime di guerra, intervalli di sede vacante al vertice dello Stato rese opportuno anticipare l'elezione del successore del D.: così Giacomo Lomellini la sera del 16 giugno poteva entrare come doge nel palazzo che il D. aveva lasciato nella mattinata.
Dopo aver deposto la corona dogale, il D. per l'età e per motivi di salute frequentò poco il palazzo. Solo nel 1628 intervenne a una consulta tenuta dal doge intorno a non meglio specificati "affari" con la Germania.
Il D. morì a Genova il 23 gennaio (o il 20, secondo altri) del 1630.
Fu sepolto in S. Francesco di Castelletto, dove era già sepolto il padre e dove il D. aveva preparato il proprio mausoleo con iscrizione qualche anno prima. Aveva sposato a circa trent'anni Maddalena Durazzo di Gerolamo, e ne aveva avuto dieci figli sei maschi e quattro femmine. Di questi: Gerolamo fu doge nel 1652, Giacomo fu doge nel 1648, Domenico fu due volte senatore.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, ms. 495, c. 151; L. Grillo, Calendario storico della Liguria, Genova 1846, n. 176; L. Levati, Dogi biennali di Genova dal 1525 al 1699, Genova 1930, pp. 426-35 (con bibl.); C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, p. 101.