DE FRANCHI SACCO, Pietro
Nacque a Genova attorno al 1545 da Giovan Battista e da Maria Bozoli, ed ebbe almeno due fratelli: Gregorio e Stefano.
Il ramo Sacco della famiglia De Franchi cui appartenne il D. è molto meno numeroso, e appare politicamente meno prestigioso, del ramo Toso, che diede tra il XVI e il XVIII secolo ben sei dogi alla Repubblica. I Sacco erano originari di Savona e, trasferiti a Genova nel XIV secolo, erano stati aggregati all'"albergo" De Franchi nel 1393. Il trisavolo del D., Giacomo, nel 1397 fu Anziano e consigliere della Repubblica, ma la famiglia non ebbe altri rappresentanti di rilievo nella vita politica.
Pare che il D. abbia ricevuto da giovane una specifica educazione militare; ma, dopo essere stato inviato per conto del governo a Napoli nel 1571, sembra non aver preso parte né all'attività politica né a quella militare nel capoluogo ligure. E questo proprio mentre esplodeva il conflitto sociale del 1575-76 tra nobiltà "vecchia" e "nuova". Non è perciò possibile individuare la posizione politica del D., anche se l'appartenenza ai De Franchi lo colloca automaticamente tra la nobiltà "nuova". Da vari accenni presenti nei discorsi e nel carmi celebrativi la sua incoronazione dogale si rileva una lunga permanenza all'estero del D., senza specificazione di luogo: la motivazione sembra a volte di tipo personale-commerciale (con chiari riferimenti a un suo rapido e consistente arricchimento), a volte pubblico-militare. Infatti, secondo quanto recita la canzone La fama, composta da Giovanni Andrea Rovetti nel 1604, il D. avrebbe conseguito vittorie per Genova in quel Levante (Pera, Cesarea) da cui era stata costretta a recedere. Comunque nel 1583 il D. era a Genova e aveva acquisito prestigio personale: in quell'anno il suo nominativo venne posto, pur senza essere estratto, nell'urna dalla quale venivano estratti i senatori; nello stesso periodo, fu nominato con Alessandro Giustiniani, Pietro Durazzo e altri giovani delle principali famiglie nobili, capitano delle truppe preposte alla difesa della città. L'11 giugno 1591 venne estratto senatore e posto tra i Dodici governatori, che costituivano appunto il Senato della Repubblica; riestratto nel novembre 1596 e nel maggio 1600, entrò la prima volta tra gli Otto procuratori (che costituivano la Camera), e la seconda di nuovo tra i Governatori. Nell'ultimo decennio del '500 fece parte a più riprese alternativamente del Banco di S. Giorgio e del magistrato dei Cambi, proprio in un periodo in cui tutta la politica finanziaria della Repubblica era sottoposta alle critiche di quella parte della nobiltà "nuova" che indicava nel riarmo marittimo e nella ripresa della imprenditorialità mercantile, invece che nella pratica dei cambi, il futuro economico della Repubblica e la garanzia di una più autentica indipendenza e neutralità rispetto all'opprimente alleanza spagnola. Nel 1597 e nel 1602 fece invece parte del magistrato di Corsica. In questa sede si procurò ostilità assai profonde, tanto che alcuni addetti a questa magistratura arrivarono a malmenarlo, subito dopo aver avuto notizia della sua elezione a doge.
Il D. stava procedendo alla vestizione protocollare nella saletta guardaroba attigua all'aula del Gran Consiglio, quando venne assalito da un gruppo di giovani. L'intervento delle guardie di palazzo ne permise la pronta cattura e il D. poté fare subito il suo ingresso solenne nel Gran Consiglio, anche se privo delle vesti protocollari, che erano state lacerate dagli assalitori. I Cerimoniali tendono ovviamente a minimizzare l'accaduto, che attribuiscono a risentimenti personali di impiegati poco volenterosi nei confronti di un magistrato che li aveva fatti "rigare diritto": ma l'episodio, che suscitò enorme scalpore, e certo indice di più profondi dissensi. Tanto più probabili quando si pensi che il clima politico era in quel periodo molto teso, a seguito e di un sanguinoso fatto di cronaca (un procuratore perpetuo era stato ucciso da un non ascritto che era stato da lui perseguitato) e della cosiddetta congiura del medico filofrancese Giovan Giorgio Leveratto, che era stato pubblicamente decapitato nonostante l'inconsistenza delle prove, secondo una linea apertamente repressiva e intimidatoria della classe di governo. Che il D. possa essere stato uno degli uomini della svolta autoritaria dei primi anni del '600 potrebbe essere confermato dall'alto numero di consensi che raccolse (234, oltre i due terzi del totale dei voti) la sera della sua elezione, 26 febbr. 1603, e dallo "strepito pubblico" che due mesi dopo, durante la cerimonia dell'incoronazione a palazzo, impedì a lungo che l'oratore ufficiale, Marco Antonio Grosso, potesse pronunciare il discorso di rito. Improntata invece a grande affabilità la cerimonia in duomo il 1° aprile, pontificata dall'arcivescovo Orazio Spinola, con discorso del padre teatino Pietro Antonio da Ponte.
Sotto il profilo della politica estera, il dogato del D. poté essere definito tranquillo, a parte alcune occasioni di contrasto con il duca di Savoia: un attacco notturno di soldati sabaudi che avrebbero tentato di scalare le mura di Genova fu prontamente sventato e ferocemente represso; nel 1604 consistenti aiuti vennero inviati su quattro galee a Monaco a Onorato Grimaldi, figlio del defunto Ercole, per difenderlo dagli attacchi di Carlo Emanuele di Savoia.
Il D. poté dedicare le proprie cure alla ristrutturazione urbana del capoluogo: fece intraprendere la costruzione della torre della darsena, quella dell'ospizio dei soldati corsi, fece ristrutturare dal giugno 1603 la sala grande del palazzo ducale, secondo canoni che egli personalmente volle classicheggianti e antibarocchi e, sopra tutto, definì e approvò il tracciato di strada Nuovissima, da porta S. Tomaso a piazza dell'Annunziata.
La strada (oggi via Balbi) proseguiva idealmente la strada Nuova (oggi via Garibaldi): su questo tracciato, sottratto alle attività produttive, le più ricche famiglie genovesi, dai Brignole Sale agli Adorno ai Cattaneo, venivano costruendo principesche dimore, simbolo del loro potere, anche per investirvi gli ingenti capitali che stornavano dall'imprenditorialità e dal commercio.
Infine, il 28 genn. 1605, il D. inaugurò il nuovo organo donato dalla Repubblica alla cattedrale. L'anno precedente aveva dato insieme col Senato la piena approvazione civile a un nuovo Ordine religioso femminile, quello delle turchine, sorto con funzione di assistenza ospedaliera e sociale per iniziativa di una nobile genovese, Maria Vittoria Fornari Strada, coadiuvata dal padre barnabita Stefano Centurione, già uomo d'armi e di governo.
Terminato il dogato il 27 febbr. 1605, il D. entrò quasi subito tra i Procuratori perpetui e ricevette l'incarico, con un altro celebre ex doge, Matteo Senarega, di riformare alcune parti del cerimoniale delle circostanze solenni. L'anno seguente tornò come preside al magistrato di Corsica. Contemporaneamente, con un altro discusso ex doge, il chiavarese Davide Vaccà, creatura dei Doria, il D. fu incaricato di trattare alcuni affari con la Germania.
La natura di tali affari non è specificata, ma potrebbe essere riconducibile alla nuova politica "nordica" di approvvigionamento granario che Genova cercava di sviluppare di fronte alle sempre più gravi carenze del mercato mediterraneo (dalla Corsica alla Sicilia al Levante). L'ipotesi potrebbe trovare conferma nel fatto che, dopo un anno di intervallo (il 1607, in cui fu incaricato di presiedere ai lavori di difesa militare della fortezza di Savona), il D., questa volta con Luca Grimaldi come collega, venne nuovamente incaricato di "trattative" con la Germania, e pochi giorni dopo, sempre col Grimaldi, eletto protettore delle Compere di S. Giorgio. Ed erano gli anni (1608-09) in cui governo della Repubblica e Casa di S. Giorgio venivano elaborando un portofranco generale che, fin dall'inizio, sembrava formulato a misura dei mercanti nordici.
Dal 1608 in poi il D. continuò a sviluppare in S. Giorgio la politica di portofranco, mentre veniva eletto, negli uffici governativi, deputato contro le Frodi e membro della giunta dei Confini. Morì il 5 apr. 1611 e venne sepolto nella chiesa di S. Nicola di Bari a Castelletto, annessa al monastero delle clarisse che egli aveva fatto completamente restaurare. Dalla moglie Giovanna Francesca Valdetaro ebbe un unico figlio, Franco.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, M. A. Grosso, Orazione nell'incoronazione del Serenissimo P. D., Genova 1603; Ibid., ms. 495, cc. 425, 426; G. A. Rovetti, La Fama, canzone, Genova 1604; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, IV, p. 234; L. Levati, I dogi biennali della Repubblica di Genova..., Genova 1930, pp. 286-293 (con bibl.; confr. ivi per Cerimoniali).