DE FORNARI, Giovanni Battista
Nacque a Genova verso il 1484 da Raffaele; suoi fratelli furono Tommaso, Domenico e Agostino. Egli dovette affiancare il padre nella florida attività commerciale da lui avviata. Mentre i suoi fratelli preferirono sviluppare il ramo bancario della ditta, il D. si occupò soprattutto di commercio, mantenendo stretti rapporti, come già Raffaele, con la Francia e in modo particolare con Lione.
Sappiamo che nel 1511 il D. vendette una partita di cammellotti, per cui nominò il banchiere Giano Grillo a riscuoterne il prezzo alla fiera di Lione; tre anni dopo, Vincenzo Tarigo gli cedette una serie di crediti per pagare la somma di cui era debitore nei suoi confronti.
Nel 1515 una nave, di cui il D. era comproprietario, salpata da Chio verso l'Inghilterra, fu catturata dal pirata Nicolò Centurione presso l'isola di Favignana; i proprietari aprirono trattative col Centurione, ma, ritenendo che difficilmente egli avrebbe mantenuto fede ai suoi impegni, avanzarono una protesta al doge e al Consiglio degli anziani; questi passarono la questione all'ufficio di Chio, autorizzandolo a recuperare il carico con ogni mezzo.
Nel 1525 il D. risulta interessato ad un giro d'affari riguardante un carico di spezie; due anni dopo, egli acquistò a Lione una partita di bardature. Dopo il passaggio di Genova dal campo francese a quello imperiale, anche il D., come altri banchieri, dovette precipitosamente interrompere i suoi rapporti con Lione per timore di possibili rappresaglie: il 17 sett. 1528, cinque giorni dopo il colpo di mano di Andrea Doria su Genova, egli incaricò la compagnia di Bartolomeo Pancratico, attiva a Lione, di realizzare tutti i suoi crediti relativi ad operazioni di cambio, nella speranza di non patire danni dalla prevedibile reazione francese. Del resto, anch'egli dovette preoccuparsi di rivolgere i suoi interessi all'area spagnola, meta di grandi affari finanziari per il capitale genovese: nel 1525, insieme coi fratelli Tommaso e Domenico, partecipò a trasferimenti di somme dalla Spagna a Milano, destinate al soldo delle truppe; l'anno dopo si trovava in Spagna e venne presentato a Carlo V come un possibile finanziatore delle casse imperiali.
In questo periodo, egli fu chiamato a rivestire diverse cariche nel governo genovese: nel 1509 fu ufficiale di Sicurtà, l'anno seguente anziano della Repubblica, nel 1511 membro dell'officium Balie, ufficiale di Borsa (carica alla quale fu chiamato anche nel 1523) e membro dell'officium Gazarie; nel 1514 fece parte dell'ufficio di S. Giorgio; fu, inoltre, elettore nel 1516, 1518, 1522 e 1526 e venne, infine, chiamato nel Consiglio della Casa di S. Giorgio nel 1518, 1519, 1521, 1524 e 1527. Assai importante fu il ruolo da lui svolto nelle vicende che segnarono il passaggio di Genova dallo schieramento francese a quello imperiale. Da tempo, infatti, stava maturando nella classe dirigente genovese l'esigenza di un nuovo assetto istituzionale che superasse l'annosa divisione in nobiles e populares; il governo francese cercò di anticipare i tempi, permettendo che maturasse un progetto di riforma non pericoloso per la collocazione internazionale della città. All'ufficio di Balia, formato da otto membri, vennero aggiunti altri quattro influenti cittadini, tra cui il D.; a questa magistratura venne dato il nome di Dodici riformatori.
Benché all'inizio non avesse esplicitamente il compito di dar vita ad una riforma istituzionale, essa si fece animatrice di una serie di incontri privati con i più autorevoli esponenti della classe dirigente cittadina per arrivare ad un accordo. Il 5 apr. 1528, alla presenza del governatore Teodoro Trivulzio, le supreme magistrature della Repubblica attribuirono ufficialmente ai Dodici riformatori il compito di studiare un progetto per un nuovo assetto di governo.
Tuttavia, il tentativo francese di controllare la situazione finì col risultare infruttuoso: l'appoggio dato dal Trivulzio a Savona (dove si temeva potesse essere istituito il portofranco e dove veniva convogliato il traffico commerciale dalla Lombardia, con grave pregiudizio per lo scalo genovese) e l'esigenza sempre più avvertita dalla classe dirigente cittadina di una politica meno strettamente controllata da una potenza straniera, spinsero i Dodici riformatori a porre la delicata questione del dominio francese sulla città. Iniziò allora un abile e sotterraneo lavorio diplomatico che vide come protagonista il Doria e che portò al colpo di mano del 12 settembre col passaggio di Genova allo schieramento asburgico. L'11 ottobre i Dodici riformatori poterono presentare il testo della riforma istituzionale da loro elaborata. Rimase, tuttavia, aperto il problema di Savona, perenne spina nel fianco per l'economia genovese; caduta la città nelle mani del Doria il 21 ottobre, in Consiglio si tenne una animata discussione sulla sorte da riservare ad essa.
Il D. si fece portavoce di quanti intendevano proporre una soluzione radicale al problema, distruggendo Savona e deportandone la popolazione in Corsica o disperdendola in altri luoghi della Riviera. La proposta, esageratamente punitiva tanto da generare il sospetto che essa fosse, in realtà, destinata a spingere a più miti disegni (del resto, come si vedrà, il D. continuò a mantenere rapporti poco chiari con la Francia, dove i suoi interessi commerciali non erano stati del tutto abbandonati) venne bocciata, mentre passò la richiesta più moderata proposta da Agostino Pallavicino, altro influente membro dei Dodici riformatori, di demolire le mura della città e di ostruirne il porto.
Negli anni del dominio doriano su Genova, il D. rivestì diverse cariche pubbliche: fu membro delle assemblee cittadine, facendo parte del Consiglio maggiore nel 1530, 1533 (anno in cui partecipò anche al Consiglio minore) e 1540; venne chiamato ad eleggere i membri del Senato rinnovati ogni sei mesi (1530, dal 1532 al 1534, 1537, dal 1540 al 1542, 1544) e ad eleggere gli ufficiali della Repubblica (dal 1532 al 1534, dal 1538 al 1541, 1544); nel 1533 venne incaricato di distribuire le famiglie cittadine nei ventotto "alberghi" in cui secondo l'"unione" venne raggruppata la classe dirigente cittadina. Sempre nel 1533, in occasione dell'arrivo di Carlo V a Genova, egli fu incaricato di provvedere a reperire gli alloggiamenti per l'illustre ospite e per il suo seguito; morto alla fine di dicembre Agostino Pallavicino, membro del Senato, fece parte della "muda" di ventotto cittadini incaricati di eleggere il suo successore; l'anno seguente, essendone scusato Pietro Battista Calvo, fu creato supremo sindicatore e venne proposto alla carica di senatore; a tale carica venne proposto anche nel 1540, ma non fu eletto; sempre nel 1540 fu nominato padre del Comune, ma rifiutò; l'anno seguente venne posto nel gruppo ristretto di personalità incaricate di designare il nuovo doge e, nell'agosto, fece parte di una ambasceria inviata ad incontrare Carlo V. Nel 1543 fu ancora chiamato a partecipare all'elezione del doge e fu membro dell'ufficio incaricato di occuparsi dell'ospedale di Pammatone; l'anno seguente, il suo nome fu posto nella rosa dei candidati alla carica di senatore, ma non venne eletto.
Nel frattempo, i profondi dissidi esistenti all'interno della classe dirigente genovese, invano sopiti dal prestigio del Doria, cominciarono a manifestarsi in tutta la loro gravità. Secondo il principio della pariteticità delle cariche pubbliche, anche il dogato doveva spettare a turno a un membro dei due raggruppamenti, i Vecchi e i Nuovi, nei quali si era nuovamente divisa la classe di governo.
I contrasti esplosero clamorosamente nel 1545 con la elezione del D. a doge. Secondo la prassi, il dogato sarebbe toccato ad un rappresentante dei "vecchi", ma i "nuovi" riuscirono a fare in modo che i voti convergessero sul loro esponente.
La reazione dei "vecchi" fu, all'inizio, violenta, tanto da ipotizzare il ritorno ad una dominazione straniera sulla città; inoltre, s'aggiunse il sospetto che il D., legato da stretti rapporti col "popolo" e con potenze straniere, potesse maturare un progetto di colpo di Stato. Il Casoni narra, a proposito della sua elezione, che i "nuovi" motteggiavano gli avversari "dicendo che di quella farina, e non d'altre, si aveva in quella mattina a fare il pane", con un gioco di parole sul cognome del nuovo doge. L'intervento del Doria riuscì, tuttavia, a placare, almeno per il momento, la situazione, né il D. - durante il biennio del suo mandato - si comportò in modo da dare adito a dubbi sulla sua fedeltà all'"unione". Proprio negli ultimi mesi del mandato del D. maturò il tentativo insurrezionale progettato da Gian Luigi Fieschi. Benché i legami con la Francia, di non chiara natura, ma certamente esistenti anche in questo periodo, dovessero spingere il D. a guardare con favore al tentativo del Fieschi, tuttavia gli annalisti sono concordi nel ritenere che egli non abbia avuto alcuna parte nella congiura. Secondo il Bonfadio, il D. uscì di carica nei giorni precedenti il colpo di mano, cosicché i congiurati intesero approfittare proprio di questo vuoto di potere, in attesa della nuova elezione.
Negli ambienti dirigenti genovesi la fallita congiura del Fieschi rinfocolò la psicosi antifrancese ed alimentò un clima di pesanti sospetti su chiunque si temeva intrattenesse rapporti con la potenza nemica. Già in precedenza gli Annali ricordano l'opera di repressione attuata dal governo: nel 1534 venne decapitato Agostino Granara, accusato di tessere una congiura per consegnare la città alla Francia; stessa sorte toccò nel 1534 a Tommaso Saoli e nel 1539 a Valerio Zuccarello.
Sulla concretezza di questi progetti è lecito nutrire dubbi: certo è che tali episodi rivelano sia il clima di sospetto in cui veniva tenuto chi osasse mettere in discussione la nuova collocazione politica della città, sia la rete di interessi che legava ancora vasti strati della popolazione alla corte francese. In tale atmosfera maturò nel 1549 l'accusa rivolta al D., che allora rivestiva la carica di procuratore perpetuo, di cospirare col re di Francia.
Un certo frate Clemente dell'Ordine di S. Francesco, mentre stava recandosi dalla Francia a Genova, venne arrestato a Ceva in Piemonte, per ordine di Ferrante Gonzaga, governatore di Milano; sottoposto a tortura, egli confessò l'esistenza di collegamenti tra il D. e la Francia. Infatti, il D. si sarebbe impegnato ad intervenire in possibili disordini interni alla città in occasione della morte del Doria, ritenuta ormai imminente, per favorire un cambiamento di regime in senso filofrancese.
Il Senato, avvertito dall'ambasciatore spagnolo in città, a sua volta informato della cosa dal Gonzaga, fece arrestare il D. insieme ad altri due genovesi, Domenico Pallavicino Rocca e Paolo Cattaneo Lasagna. Consegnato alla Rota criminale affiancata da due assistenti (Troilo Negrone e Stefano Pasqua), durante l'interrogatorio egli confessò di mantenere rapporti con la Francia, ma solo di natura commerciale: egli si sarebbe adoperato presso la corte francese per ottenere la restituzione di un credito da lui vantato. Il collegio giudicante, formato da tre membri non genovesi, finì con l'emettere una sentenza mite nei confronti degli accusati: il D. venne condannato all'esilio, mentre gli altri dovettero pagare ognuno 1.000 scudi.
In effetti, come rivelano i documenti di archivio, il podestà di Genova, l'auditore della Rota criminale e il pretore della città furono oggetto di insistenti pressioni da parte di importanti personaggi, tra cui il cardinale Reginaldo Pole, Gerolamo e Lucrezia da Correggio, Ercole II d'Este, pronti a sollecitare un aiuto per il De Fornari. È possibile, dunque, che abbia egli evitato la condanna capitale grazie alla tolleranza dei giudici, anche se non venne trovata alcuna prova concreta che fosse stata effettivamente macchinata una congiura contro la Repubblica.
Il verdetto lasciò insoddisfatto il gruppo dirigente: i giudici vennero licenziati, mentre il D., dopo due mesi di carcere, fu costretto, alla fine di novembre, a partire alla volta di Anversa, città scelta per il suo esilio. Non sappiamo se sia giunto a destinazione o se sia riuscito a rifugiarsi in Francia. Secondo il Vitale, egli ottenne protezione da Enrico II: unitosi ad altri ribelli, tentò di organizzare nel 1553 un colpo di mano su Genova, ma senza che esso avesse pratica esecuzione; l'indicazione archivistica fornita dal Vitale non è, però, esatta. Occorre notare, inoltre, che le liste di membri del Consiglio maggiore compilate nel XVI sec. da Giulio Pallavicino ricordano per il 1551 Vincenzo come figlio del D. già morto e, l'anno seguente, l'altro suo figlio, Ottaviano, sempre con la notizia dell'avvenuta morte del padre. Egli aveva sposato Marietta, figlia di Andrea Ciceri; i suoi due figli furono entrambi iscritti nel Liber Nobilitatis della città.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Archivio segreto, Processi per delitti di lesa maestà e politici, 1/2964; Ibid., ms. n. 10: Catalogo dei magistrati della Repubblica di Genova dall'anno 1332 in 1528, cc. 25v, 26, 54v, 55v, 117; Genova, Arch. stor. del Comune, ms. n. 284: G. Pallavicino, Elettioni de magistrati della Repubblica di Genova dal anno 1528 sino al 1575, cc. 22, 33, 37v, 38, 40, 41v, 42, 49rv, 53v, 55, 57, 59v, 63, 65, 67, 68v, 69v, 70v, 76v, 94, 100v, 112, 126, 133v, 136rv, 138v, 140, 143, 147, 151, 152v, 155rv, 166v, 170, 171, 173, 174, 184v, 187v, 188, 189, 225; Ibid., ms. n. 285: G. Pallavicino, Consigli grandi e piccoli, cc. 22, 46v, 106; Ibid., ms. n. 223: G. Pallavicino, Consigli della Casa di San Giorgio, c.186v; Genova, Biblioteca Franzoniana, F. Federici, Alberi geneal. delle famiglie di Genova (ms. sec. XVII), II, c. 89r; Genova, Archivio storico del Comune, P. Partenopeo, Annales rerum gestarum Reipublicae Genuensis a recuperata libertate (ms. sec. XVIII), p. 54; A. Giustiniani, Castigatissimi Annali della Repubblica di Genova, Genova 1537, c. CCLXXXIV; J. Bonfadio, Annalium Genuensium ab anno MDXXVIII usque ad annum MDL, Papiae 1586, pp. 136, 156, 202 ss.; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1799, I, p. 247; II, pp. 34-38, 154 s., 186, 228; Docum. ispano-genovesi dell'Archivio di Simancas, a cura di M. Spinola-L. T. Belgrano-F. Podestà, in Atti della Soc. ligure di storia patria, VIII (1868), pp. 289 ss.; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma 1667, p. 325; I. Scovazzi-F. Noberasco, Storia di Savona, III, Savona 1928, p. 16; L. M. Levati, Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699, I, Genova 1930, pp. 45-51; R. Ehrenberg, Le siècle des Fugger, Paris 1955, ad Indicem; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, I, Genova 1955, pp. 211, 217; P. P. Argenti, The occupation of Chios by the Genoese and their administration of the island (1346-1566), I, Cambridge 1958, pp. 302, 310; D. Gioffrè, Gênes et les foires de change. De Lyon à Besançon, Paris 1960, ad Indicem; G. Guelfi Camajani, Il "Liber Nobilitatis Genuensis" e il governo della Repubblica di Genova fino all'anno 1797, Firenze 1965, p. 213; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, in Storia d'Italia, IX, Torino 1978, ad Indicem.