DE FELICE GIUFFRIDA, Giuseppe
Nato a Catania il 17 sett. 1859 da Sebastiano e Maria Giuffrida (il cui cognome il D. si aggiunse), in una famiglia sottoproletaria e di ambigua condizione trasgessiva (il padre fu ucciso dai carabinieri nel 1868 mentre compiva una rapina, e la madre, secondo una non benevola relazione prefettizia del 30 giugno 1895, "visse nel libertinaggio"), fu affidato giovanissimo all'ospizio comunale dove, con gli studi elementari, venne anche educato ai valori della monarchia e del cattolicesimo. Uscito dall'ospizio, trovò impiego (1878) quale archivista nella prefettura cittadina.
"A poco a poco - avrebbe scritto di sé - facendomi uomo, leggendo e studiando, l'animo mio andò trasformandosi, sicché, pur essendo impiegato alla prefettura, impresi, ma di nascosto, la pubblicazione di un giornale salato e pepato, LoStaffile, che riuscì molto ostile al governo, sicché... fui chiamato dal prefetto e minacciato di destituzione. Dovetti dichiarare di ritirarmi dalla direzione del giornale... ma in realtà, durante tutta la sua vita, Lo Staffile non fu scritto che da me e alcuni miei amici" (in L'Unione, 9 luglio 1890).
L'impegno sempre più esplicito e militante sulle tematiche repubblicane e socialiste e gli attacchi all'amministrazione comunale portarono presto alla risoluzione del rapporto di lavoro (giugno 1881), per cui il D. "ebbe a passare per una trafila densa di modeste occupazioni: suonatore di bombardino, lavorante tipografo, mercante di vino, piazzista di macchine da cucire" (Policastro, p. 9). Sposatosi diciassettenne, ebbe quattro figlie in pochi anni, ma la sua vita turbolenta indusse la moglie, Giuseppa De Simone, a troncare il rapporto; egli avrebbe avuto anche in seguito una vita sentimentale intensa e disordinata.
Gli anni Ottanta avrebbero visto la nascita di un movimento democratico e popolare nel Catanese e in questo travaglio sarebbe avvenuta la formazione culturale e politica del D., che di quel movimento sarebbe divenuto il massimo e più rappresentativo esponente. Anche Catania fu infatti investita dal grande processo di ristrutturazione che coinvolse l'estrema Sinistra da cui emersero varie componenti sociali e politiche che animarono il dibattito (mazziniani, radicali, democratici, socialisti) e misero in discussione l'assetto clientelare postunitario. Nascevano inoltre le società operaie di mutuo soccorso, formate in prevalenza da lavoratori delle manifatture ed artigiani, e nasceva altresì un giornale, L'Unione repubblicana (poi, per motivi di censura, L'Unione) che avrebbe raccolto ed espresso la voce di questa opposizione.
Il D., già dal 1882 fra i più noti esponenti del movimento democratico, avrebbe tentato di supplire, con l'eccezionale capacità di stabilire contatti di massa e lo straordinario intuito politico, la mancanza di un ordinato corso di studi (conseguì comunque il diploma di maestro, la laurea in giurisprudenza e il titolo di procuratore legale). Sulla sua formazione ebbe un certo rilievo l'esperienza politica, oltre che poetica, di M. Rapisardi (evidente, fra l'altro, in un libro di versi del D., La voce di uno scamiciato, edito a Catania nel 1882); ma ancor più lo influenzò il pensiero di N. Colajanni, la cui interpretazione del socialismo in chiave strettamente positivistica e gradualista (e sostanzialmente non marxista) fu dal D. integralmente accolta. Va inoltre segnalato come l'adesione del D. alle tesi del collettivismo - che per vari anni costituì il suo tramite ideologico con il socialismo - fosse mutuata dalle posizioni del socialismo romagnolo e di A. Costa, con il quale il D. fu a lungo in stretta sintonia (Spampinato, 1971, pp. 205, 232-235).
Partecipe dunque del processo di formazione ed unificazione dell'ala democratica catanese ("I socialisti non possono che essere repubblicani; i repubblicani, che non vogliono fare questioni di semplice forma politica, non possono che essere socialisti. Tutt'al più c'è differenza di scuole; ma lo scopo è unico: il benessere dell'umanità", scriveva su L'Unione il 30 genn. 1887), dal 1884 fu dirigente riconosciuto delle società operaie repubblicane e socialiste nonché direttore de L'Unione (lo sarebbe restato, tranne brevi interruzioni, fino al 1890). L'operazione politica alla quale dedicò gran parte della propria esistenza fu il tentativo di determinare, sulla base della spinta al rinnovamento presente in ampi strati popolari del Catanese, una gestione democratica della cosa pubblica e dell'ente locale, soprattutto il comune. In pratica, il D. si inserì in una situazione politica caratterizzata dal caos amministrativo, dalle aspre lotte interne alla maggioranza filogovernativa e dall'incessante ricorso anticipato alle urne. Eletto consigliere comunale nel 1885, si impegnò nell'elaborazione di un programma che potesse essere comune a tutte le opposizioni (clericale inclusa) e che godesse di un ampio supporto popolare. E fu così che una composita lista di opposizione conquistò la maggioranza del Consiglio comunale nel 1889, nonostante i diretti interventi in funzione antidefeliciana del prefetto e di F. Crispi.
Il programma - modellato su quelli che il movimento operaio organizzato del Nord in quegli stessi anni stava approntando per la conquista dei comuni, ma più attenuato, per ragioni di alleanze - non ebbe comunque modo di essere attuato, data l'ostilità della prefettura che annullò le più importanti deliberazioni comunali e che nel luglio 1890 sciolse il Consiglio e nominò un commissario regio (nel giugno dello stesso anno era stato vietato il primo congresso delle società operaie siciliane). Il D., che fu il maggiore animatore della coalizione, e che nel 1889 era stato eletto anche nel Consiglio provinciale, venne addirittura arrestato per sottrazione di documenti, ma presto rilasciato e assolto. Non fu invece assolto da un'imputazione per diffamazione contro il nuovo sindaco Giuseppe Carnazza Puglisi e nel settembre 1891 gli furono comminati tredici mesi di carcere ai quali si sottrasse espatriando a Malta: lo scontro tra il D. e i Carnazza avrebbe caratterizzato per un trentennio la vita politica catanese.
Il D. aveva intanto già avuto modo di partecipare alle prime importanti manifestazioni dell'associazionismo operaio e ai primi dibattiti politico-teorici sulle strategie del movimento di classe. Delegato al XVII congresso delle Società operaie affratellate (Napoli, giugno 1889) vi sostenne, con il Costa, le posizioni della Sinistra collettivista.
Negli anni Ottanta erano intanto avvenute delle modificazioni nel proletariato catanese che avevano trovato nel D. un attento osservatore: per la prima volta nel 1888 uno sciopero di categoria (lavoranti fornaì) aveva visto il modificarsi dell'associazionismo operaio dal mutuo soccorso alla resistenza. Questo ed altri analoghi episodi avevano convinto il D. a rimodellare l'organizzazione di classe sulla base delle nuove condizioni di coscienza e di lotta; era nato così, nel 1891, il Fascio dei lavoratori di Catania, struttura intercategoriale di tipo camerale che avrebbe avuto rapida fortuna in tutta l'isola e ampia rappresentatività dei lavoratori delle realtà sia urbane sia rurali. Come è stato osservato, il Fascio catanese era un singolare intreccio tra federazioni di arti e mestieri ed associazioni democratiche, che sotto la direzione del D. sarebbe divenuto strumento di intervento nella lotta politica e amministrativa secondo una pratica della lotta sociale che comportava l'alleanza tra piccola borghesia e ceti popolari contro le vecchie classi dominanti (Romano, p. 23). Allo sviluppo dei fasci contribuirono anche le discussioni con i socialisti A. Casati e C. Dell'Avalle, giunti in Sicilia per l'esposizione del 1892, e all'interno del XVIII congresso delle Società operaie affratellate svoltosi a Palermo nel maggio dello stesso anno, che si risolse con l'approvazione di una mozione "collettivista" proposta dal D. e dagli altri dirigenti socialisti.
Non fu comunque lungo il soggiorno maltese del D., la cui condanna aveva suscitato un forte moto di solidarietà popolare. Eletto deputato nel 1892 nel secondo collegio di Catania, rientrò in patria accolto - stando alla citata relazione prefettizia del giugno 1895 - da "tale imponente manifestazione che non si ricorda l'eguale". Il D. - di cui si rammentava anche il generoso impegno durante le epidemie di colera a Napoli nel 1884, a Palermo nel 1885, a Catania nel 1887 e a seguito dell'eruzione dell'Etna nel 1886 - era ormai il capo riconosciuto del movimento popolare isolano.
Pur con una sostanziale identità di dirigenti, fin dalla fondazione del partito socialista in Sicilia, l'organizzazione dei fasci era stata tenuta da questo separata; con l'esplicitarsi del carattere socialista dei fasci si pose pero, soprattutto a partire dal congresso socialista di Genova dell'agosto 1892, il problema della loro adesione alla nuova formazione politica nazionale. In seno al partito socialista siciliano si delinearono due posizioni: una in certo qual modo "autonomista", ispirata dal D., che chiedeva per i fasci statuti ed organizzazioni indipendenti dal P.S.I., l'altra di Garibaldi Bosco (dirigente del Fascio di Palermo), che sosteneva la necessità di uno stretto collegamento con il socialismo nazionale. Nei congressi dei fasci e del partito socialista (Palermo, maggio 1893), la posizione del Bosco risultò maggioritaria; prevalse però la mediazione del D. che aveva proposto l'"aggregazione" (e non la fusione) con il P.S.I. Per parte loro i fasci - che nel frattempo avevano superato nell'isola i ventimila aderenti, due terzi dei quali contadini - dichiararono il loro "carattere puramente socialista", accettando "la lotta di classe come mezzo di organizzazione e di resistenza".
Delegato nel settembre 1893 al congresso socialista di Reggio Emilia, il D. propose la riammissione degli anarchici ai lavori congressuali ed espresse la propria solidarietà con le posizioni eterodosse dei Colajanni (relative alla possibilità di accordi con partiti affini, mentre prevalse al congresso la linea della non collaborazione), posizioni che, comprensibilmente, erano connesse anche con il dibattito interno al movimento dei fasci. Intervenne successivamente ad una riunione dei deputati dell'Estrema e firmò con loro un manifesto, contravvenendo alle direttive del partito socialista e subendone quindi la censura. In realtà era in ballo la successione al governo Giolitti (alla cui caduta lo stesso Colajanni aveva largamente contribuito) e il D. pensava alla possibilità di un intervento congiunto di radicali e socialisti nella nuova situazione politica. Senonché, l'incrudirsi della repressione poliziesca sui fasci e la nomina di Crispi alla presidenza del Consiglio (novembre 1893) scatenarono la forte risposta popolare che, per il massiccio e brutale intervento dell'esercito, prese rapidamente l'aspetto della rivolta (fra le cause del movimento vanno comunque considerati il cattivo raccolto del 1893, la caduta del prezzo del grano e l'elevato dazio che sosteneva i prezzi al consumo).
Il D. - che aveva si invitato alla mobilitazione e prospettato uno sbocco rivoluzionario del movimento senza però puntarvi nel breve periodo - fu colto a Roma dalla notizia dei moti (fine dicembre 1893) e rientrò rapidamente nell'isola, ormai in stato d'assedio, dove non poté fare altro che invitare il movimento alla calma è da difendersi dalla repressione. L'intervento dello Stato si risolse in un bagno di sangue (sessanta morti e centinaia di feriti), centinaia di arresti, lo scioglimento dei fasci e l'arresto dei membri del Comitato centrale socialista siciliano, fra cui il D. (4 genn. 1894).
Il 30 maggio 1894, a conclusione di un memorabile processo, il D. fu condannato a diciotto anni di reclusione per cospirazione contro i poteri dello Stato ed eccitamento alla guerra civile e rinchiuso nel mastio di Volterra. La condanna venne avversata da un'intensa campagna solidaristica che, al grido di "viva De Felice", percorse l'Italia intera; egli stesso fu più volte sul punto di venire scarcerato per la ripetuta elezione alla Camera, elezioni sempre però annullate. Finalmente dopo due anni e due mesi di prigione, fu rimesso in libertà per airmistia il 14 marzo 1896. Tornato a Catania accolto in modo trionfale, venne convalidata la sua elezione alla Camera e riacquisì il seggio che avrebbe conservato anche per la XX legislatura (1897-1900).
Nel marzo 1896, in contrasto con i parlamentari socialisti, votò la fiducia al governo Di Rudinì, dando al suo voto - come avrebbe giustificato nel congresso socialista di Firenze del luglio 1896 - un significato di condanna dei metodi crispini, impegnandosi però per l'avvenire ad accettare le deliberazioni congressuali. Ciò non impedì le sue dimissioni dal partito (febbraio 1897) proprio per dissensi insorti sulla questione delle alleanze. Si pronunciò a favore della spedizione Cipriani in appoggio alla rivolta di Candia contro l'Impero turco e partecipò all'operazione.
Con il governo Pelloux, il D. fu impegnato in un'aspra battaglia di opposizione e giunse all'estrema e clamorosa forma di ostruzionismo di fare sparire le ume onde impedire la votazione contemporanea di quattro leggi (giugno 1899).
Attento all'analisi di vistosi fenomeni di degenerazione nella vita politica siciliana, il D. si cimentò nella denuncia delle connessioni tra mafia e potere politico in Sicilia. Un suo articolo sull'Avanti! dell'ottobre 1900 lo portò in tribunale nelle vesti di imputato per diffamazione, sicché venne condannato a, tredici mesi di reclusione, sei dei quali gli furono condonati.
A cavallo dei due secoli va ricordata la sua attività di ricerca politico-sociologica. Pubblicò infatti alcuni saggi fra i quali Popolazione e socialismo (Palermo 1896), Mafia e delinquenza in Sicilia (Milano 1900) e Principi di sociologia criminale. Criminalità e socialismo (ibid. 1902). Per qualche verso suggestiva l'interpretazione del fenomeno mafioso e le sue conseguenze politiche:il D. individuava, correttamente, la genesi della mafia negli elementi economico-sociali di arretratezza della società siciliana (in particolare la ripartizione della proprietà fondiaria) e postulava, per sconfiggere il fenomeno, lo sviluppo di una solidarietà collettiva che facilitasse tutte quelle trasformazioni sociali che avrebbero esse stesse annientato la mafia.
A Catania il movimento dei fasci non aveva conosciuto quegli episodi sanguinosi che avevano caratterizzato il movimento in altre zone della Sicilia e dunque, anche grazie ad un maggiore radicamento nella società che il D. era riuscito ad imprimere, la spinta popolare e democratica sopravvisse alla repressione crispina. Il movimento popolare catanese poté quindi non rimanere soffocato dagli eventi ed aprirsi un varco che, dopo la crisi del governo Pelloux (che tentò con successo nel 1900 di impedire l'elezione del D. alla Camera, nel seggio che il D. avrebbe riconquistato alla fine del 1901 e mantenuto poi per tutta la vita) si sarebbe vieppiù allargato.
Battuto sul terreno parlamentare il governo Pelloux, in ampi settori socialisti si pensava di portare anche al livello locale il nuovo clima politico; il D. riteneva che la caduta di Pelloux confermasse la linea di alleanze da lui sempre perseguita e che fossero ormai mature le condizioni per uno svecchiamento della società meridionale, convinto che Giolitti fosse "i molto meno reazionario dei suoi predecessori" (cit. in Spampinato, 1971, p. 241). Il nuovo corso di "ordinato progresso sociale", inaugurato dal governo Giolitti fin dall'inizio del secolo, diede così agio al D. di riprendere con nuovo vigore la battaglia per sbalzare dall'amministrazione le forze conservatrici che nel 1889 i partiti popolari erano appena riusciti a scalfire.
Fu così che al rientro a Catania (marzo 1901) il D. si impegnò nella formazione di una lista unitaria (battendo le posizioni intransigenti di taluni socialisti) e di un programma che potesse risultare vincente, questa volta non già con l'esplicita ostilità al governo, bensì con la tacita complicità di Giolitti. Le elezioni amministrative del giugno 1902 costituirono quasi un trionfo per la lista popolare che conquistò quarantotto seggi su sessanta. Il D. venne eletto sindaco e inaugurò un periodo che avrebbe inciso a lungo nella storia della città.
Il movimento politico e amministrativo di cui il D. si fece promotore all'inizio del secolo costituiva per più versi la continuazione dei Fasci ma, nella nuova situazione venutasi a creare con Giolitti, manifestava una particolare e nuova attenzione per i problemi dello sviluppo economico e sociale. Come è stato osservato, il D. "si pone, all'inizio del nuovo secolo, alla guida di un composito blocco di ceti produttivi urbani: artigiani, borghesia, esportatori, burocrati. Obiettivo di tale aggregato è cogliere tutte le opportunità poste dal processo di sviluppo capitalistico endogeno ed esogeno ai fini di una strategia di modernizzazione della città, di valorizzazione dei suoi traffici, di sostegno della sua economia sull'hinterland rurale" (Lupo-Mangiameli, p. 232).
L'amministrazione De Felice fu caratterizzata fin dall'inizio da una forte spinta innovativa e da una notevole spregiudicatezza: la municipalizzazione del pane, gli sgravi sui dazi d'entrata delle materie prime di uso industriale, la sovvenzione alle industrie di nuova installazione, il frequente ricorso al referendum, ecc., costituirono momenti e tratti decisivi di una gestione della cosa pubblica che facilitò indubbiamente il declino delle vecchie classi aristocratiche, il rafforzamento dello sviluppo capitalistico ed un forte coinvolgimento popolare nella gestione del comune. Fu lo stesso D. che, nel 1903, assunse la presidenza della Camera del lavoro di Catania, appena fondata, e diresse personalmente alcune delle vertenze (ma anche il ruolo di mediazione che il D. affidava all'organismo camerale fu causa di polemica con alcuni settori socialisti, che presero a contestare le scelte dell'amministrazione). Anche questo aspetto del "defelicianesimo" si volse comunque, almeno in un primo periodo, in elemento di forza e di stabilità dell'amministrazione.
Due autorevoli giudizi possono aiutare a comprendere il personaggio e il movimento da lui ispirato. "La mia impressione di lui - scriveva G. Giolitti nelle Memorie - è sempre stata che fosse un uomo di buonafede, un galantuomo che ha sempre vissuto modestamente; un po' imaginoso ma fondamentalmente buono" (Giolitti, p. 86). La Kuliscioff in un'acuta lettera a Turati (23 apr. 1899) scriveva: "De Felice è la sintesi, l'espressione vera e genuina, delle qualità e dei difetti di quella immensa popolazione. Anzi, direi ch'egli come tipo dell'ambiente riassume in sé in modo esagerato le tendenze basse ed elevate; perché il bello e il brutto si toccano e si confondono là con un'armonia meravigliosa... De Felice è il vero viceré; i baroni e i principi lo ossequiano, i facchini del porto lo abbracciano, gli operai delle zolfare si rivolgono a lui come al redentore, le ragazze allegre lo festeggiano al suo passaggio".
Ovvero, nelle ironiche parole di un arguto commentatore: "Fin da giovane, sostenendo cause nobilissime - e per esse andando incontro a duelli, a querele, a condanne - suscitò l'ammirazione del popolo che presto rimase conquiso e soggiogato. Tutt'ora le popolane, al suo passaggio, con le braccia in aria gli porgono i pargoli, piangono di commozione, gli mandano baci mormorando parole di venerazione come se un santo miracoloso attraversasse le vie" (Vaina, p. 76).
L'amministrazione, che si era sviluppata su una prospettiva "giolittiana", iniziò ad avvertire i segni di decadenza - e, parallelamente, il "defelicianesimo" - con la crisi stessa del giolittismo. Il blocco costituito dai partiti popolari si andò lentamente sfrangiando (già al 1902 si può far risalire una vivace polemica tra il D. e il leader popolare L. Sturzo, che sul piano del potere locale si muoveva in direzione analoga al D.), attenuando la carica riformatrice dell'amministrazione che divenne preda di tradizionali meccanismi clientelari. D'altronde, la frustrazione della speranza di uno sviluppo continuo e graduale determinò l'adesione del D. all'impresa libica nella prospettiva - tipicamente meridionale - del recupero di quelle condizioni economico-politiche che la crisi dei giolittismo allontanava irrimediabilmente. In questa stessa ottica appare comprensibile la partecipazione del D. alla scissione riformista del 1912, adesione che rinfocolò la polemica in area socialista (e in particolare tra il D. e la Camera del lavoro, decisa a non far più da mediatrice al blocco defeliciano e a rivendicare un proprio specifico ruolo in difesa degli interessi operai) allorché si trattò di designare il candidato del primo collegio elettorale di Catania nelle elezioni del 1913. La vittoria elettorale del candidato defeliciano del Blocco popolare, ottenuta contro il candidato della Camera del lavoro segnò un'irrimediabile frattura; né l'emorragia a sinistra fu recuperata negli anni successivi, ché anzi venne accentuta dagli eventi bellici (e a ciò non fu estranea la linea interventista propugnata dal D.), pur lasciando il Blocco popolare elettoralmente maggioritario.
Nel dopoguerra le difficoltà si accentuarono. Il blocco defeliciano non fu, nel complesso, in grado di dare seguito politico alle potenti pulsioni antilatifondistiche che il movimento contadino stava sprigionando nelle campagne dei Catanese nel 1919-1920, mancando così un'importante opportunità per estendere la propria egemonia (anche se, in verità, il progetto di legge presentato dal D. nel marzo 1920, pur molto moderato, andava nella direzione della formazione di una diffusa piccola proprietà contadina). Del resto, nemmeno nella città l'amministrazione riuscì a controllare la vivace e a volte violenta protesta popolare per la galoppante inflazione e la rarefazione dei beni di prima necessità.
A ciò si aggiunga la vera e propria crisi politico-ideale del defelicianesimo: nella primavera del 1919, il D. aveva ricomposto l'antica polemica con i carnazziani, riappacificandosi con Carlo e Gabriello Carnazza: si trattava in effetti di un atto politico che sanciva l'allineamento a destra del Blocco popolare e, in definitiva, il suo riassorbimento da parte delle forze moderate. Questa alleanza - che dal 1919 vide avversari i socialisti, i popolari e gli ex combattenti -sopravvisse qualche tempo e segno anche rilevanti successi elettorali per venire infine travolta dal fascismo.
Il D. morì a Catania il 20 luglio 1920.
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