DE CUPIS, Gian Domenico
Nacque a Roma, secondo quanto afferma il Ferrajoli, nell'ultimo decennio del sec. XV, da Bernardino, originario di Montefalco, e da Lucrezia Normanni, già madre di Felicia Della Rovere (che sposò poi Giovanni Giordano Orsini), avuta con Giuliano Della Rovere, il futuro papa Giulio II. Forte di questa sorte di parentela, il D., abbracciata la carriera ecclesiastica, divenne canonico di S. Pietro e segretario di Giulio II. Con l'aiuto della sorella uterina cercò anche di ottenere la porpora, che però il pontefice si rifiutò di concedere "ad un putto ignorante" quale reputava il De Cupis. Ciò che non gli era riuscito con il predecessore, riuscì però al D. con Leone X, il quale lo nominò cardinale nella sua seconda creazione, il 1° luglio 1517 Cinque giorni dopo gli fu assegnato il titolo di S. Giovanni a porta Latina e il 17 dello stesso mese otteneva l'amministrazione del vescovato di Trani, divenendo da allora noto come il cardinale di Trani.
Non si conosce affatto l'attività dei giovane porporato durante il pontificato del papa Medici, ma si sa che, morto quest'ul.timo, partecipò al conclave successivo e dette il voto determinante per l'elezione di Adriano VI; conferì solennità al suo gesto pronunciando le parole: "Io pure accedo al cardinale di Tortosa e lo faccio pontefice".
Sotto il pontificato di Clemente VII il D. cambiò più volte titolo cardinalizio, passando a quello di S. Apollinare il 17 ag. 1524 e a quello di S. Lorenzo in Lucina il 24 maggio 1529; divenne cardinale vescovo di Albano il 22 sett. 1531 e della Sabina il 16 dic. 1532. Intanto aveva ottenuto l'amministrazione della Chiesa di Recanati dal 1° genn. 1522, cui, dal 1528, fu unita anche quella di Macerata; tenne l'amministrazione di Recanati (Macerata fu disgiunta nel 1535) ininterrottamente, salvo dal 1548 al 1552 quando fu affidata a Paolo De Cupis, fin quasi alla fine della vita e ne fece restaurare la cattedrale.
Quando l'8 luglio 1526 fu pubblicata solennemente a Roma la lega di Cognac fu il D. che, come prior presbyterorum, celebrò il rito religioso. Dopo il sacco di Roma fu anch'egli interpellato dal card. T. Wolsey, che proponeva un governo. dei cardinali rimasti in libertà e raccolti ad Avignone per tutto il tempo che dovesse durare la prigionia del papa. Per la liberazione di Clemente VII il D. si adoperò con energia, intervenendo presso Venezia e presso Francesco I. Prima della fine del pontificato di Clemente VII il D. acquisì, il 31 ag. 1528, l'aniministrazione del vescovato di Adria, che tenne fino alla morte; il suo vicario generale, Bartolomeo Zerbinati, negli anni 1541, 1544 e 1546 ne pubblicò le costituzioni sinodali. Il D. divenne inoltre, il 15 genn. 1532 (e lo sarebbe rimasto fino al maggio 1536), vescovo di Nardò, di cui restaurò la cattedrale e a cui fece dono di suppellettili sacre e di una campana; dal 13 nov. 1532 ottenne l'amministrazione della Chiesa di Montepeloso che tenne fino al 1537. Dal 1533 sino al 1537 gli fu affidato il protettorato della Confraternita romana della Carità.
Nel conclave in cui fu eletto Paolo III il D. era indicato come app artenente al partito italiano. Con questo pontefice il D. ebbe ottimi rapporti e fu utilizzato molto più che dai papi precedenti. Passato dal 26 febbr. 1535 al titolo di Porto, il 5 luglio ebbe l'amministrazione del vescovato di Camerino, che lasciò due anni dopo con la riserva del regresso. Avvicinandosi a Roma Carlo V, che dalla Sicilia risaliva la penisola, il D. fu incaricato, il 7 marzo 1536, di andare ad accoglierlo, insieme al card. A. Sanseverino, ai confini dello Stato della Chiesa: lo incontrarono infatti il 2 aprile a Sermoneta e lo scortarono a Roma, dove l'imperatore fece il suo ingresso tre giorni dopo. Il 1° sett. 1536 fu nominato legato dell'Agro piceno. Il 28 novembre dello stesso anno passava al titolo di cardinale vescovo di Ostia.
Allorché Paolo III nell'ottobre del 1537 conferì il ducato di Castro a Pier Luigi Famese, il D., nonostante le sue buone relazioni con il papa, elevò protesta formale contro quest'atto nepotistico.
Il peso in Curia del D. stava aumentando, se non altro perché, essendo entrato così giovane nel Sacro Collegio, ne era divenuto decano. Per di più aveva un atteggiamento di rigore religioso, che può non meravigliare in quel momento storico caratterizzato dal fervore pretridentino dei desideri di riforma; tuttavia il "suo fare l'ecclesiastico" era da alcuni giudicato solo come un mezzo per arrivare al papato. A questa aspirazione non ostavano, pare, i due figli che il D. aveva avuto una decina di anni prima da una certa Narsa, nubile, e che aveva legittimato.
Nel concistoro del 7 genn. 1 538 il D., che il z giugno 1536 aveva sottoscritto la bolla di indizione dei concilio da celebrare a Mantova, fu nominato membro di una commissione di nove cardinali incaricata della preparazione del sinodo ecumenico che si doveva aprire a Vicenza il 1° maggio.
Allorché nel medesimo anno Paolo III si recò a Nizza per favorire un'intesa fra l'imperatore e il re di Francia, il D. fu tra i suoì accompagnatori. Anzi fu uno dei tre cardinali designati a fungere da tramite fra i due sovrani, che si rifiutavano di abboccarsi direttamente. Sempre nel 1538 il D. divenne governatore di Tivoli. Nella primavera del 1539, quando la commissione per la riforma della Curia fu elevata ad otto cardinali, il D. fu chiamato a farne parte. Nella divisione delle competenze che la commissione operò fra i suoi membri, il D. fu incaricato, insieme al card. G. Ghinucci, di occuparsi della riforma dei tribunali. Il 14 luglio 1540 ebbe, insieme con i cardinali G. P. Carafa e N. Ridolfi, ampia potestà di applizare la bolla del 12 maggio sulla riforma elegli ufficiali curiali. Con il concistoro del 27 ag. 1540 le commissioni per la riforma furono ampliate e il D. fu chiamaro a far parte, insieme con il Ghinucci e R. Pole, di quella per la Camera.
Nel marzo del 1542 il pontefice elesse Trento come sede del concilio. La scelta non fu accettata de plano e il D. si mostrò scettico addirittura sull'opportunità dell'iniziativa, tanto da sostenere "che le cose del mondo non stavano di sorta da celebrare concilio". Tuttavia nel concistoro dell'11 maggio 1543 egli fu designato quale uno dei deputati super rebus concilii e questa funzione gli fu confermata in quello del 19 nov. 1544, quando sì stabilì il giorno dell'apertura del concilio nel 15 marzo dell'anno successivo.
Quattro giorni prima di questa data il D. fu deputato, insieme al card. P. P. Parrisio, a sollecitare i prelati a recarsi a Trento, con l'ordine di non tralasciare alcunché per il conseguimento di questo effetto. Differita l'apertura del concilio, nel settembre e nel novembre il D. era ancora occupato a sollecitare i prelati a dirigersi nella città designata e, insieme con il card. N. Ardinghelli, era incaricato di vagliare le giustificazioni di quei prelati che non intendevano, o non potevano, mettersi in viaggio.
Nel medesimo mese di novembre il D. impartiva il battesimo ai due gemelli, Carlo ed Alessandro, nati ad Ottavio Famese nell'agosto, nonostante che nell'agosto precedente egli si fosse duramente, quanto inutilmente, opposto alla concessione di Parma e Piacenza a Pier Luigi Farnese.
Il D. continuava ad occuparsi dei problemi'della riforma e nel concistoro del 31 genn. 1547, quando si delinearono tre orientamenti in contrasto fra loro, fu dell'opinione che la riforma dovesse toccare il presente ed il futuro, ma non il passato. Egli infatti, anche se era stato annoverato nel maggio 1545 fra i "cardinali cardinalissimi", aveva provveduto a dare assetto ai suoi affari personali e familiari, facendosi concedere dal papa, nel novembre del 1546, alcune bolle che lo autorizzavano a disporre alla sua morte dei suoi beni mobili ed immobili ad sui libitwn. In quanto alle cose del concilio, il D. continuava ad essere uno dei deputati prepostivi e nell'aprile del 1547 si incaricava di farsi parte diligente perché i prelati si recassero a Bologna, dove ebbe luogo la seconda fase di esso.
In questo periodo si fece evidente la propensione filofrancese dei D., il quale, dovendo decidere insieme agli altri deputati, nel dicembre 1547, sulle richieste di Carlo V dell'invio di legati in Germania e della sospensione dei lavori a Bologna, assunse un atteggiamento antimperiale. Presente a Roma nel concistoro del 16 ottobre di quell'anno, durante il quale si condolse della morte di Pier Luigi Famese, il D., secondo una lettera indirizzatagli il 22 dal card. Alessandro Famese (conservata in copia nella Bibl. Apost. Vat., Urb. lat. 818, I, cc. 124r-138r), fu successivamente in Svizzera, dove ebbe l'incarico di assoldare per il papa - deliberato di "porre totalmente nelle mani et forze loro [dei confederati] la guardia della persona sua" - il capitano Nikolaus von Meggen di Lucerna. Continuando ad agitarsi a Roma la questione dei legati in Germania, nell'agosto del 1548 il D., come decano dei cardinali delegati ad occuparsi degli affari del concilio (che stava di nuovo per interrompersi), elencò al papa le facoltà che avrebbero dovuto essere conferite ai legati stessi.
Alla morte di Paolo III, che nel 1535 lo aveva nominato protettore dei regno di Francia, il D. partecipò al lungo conclave, che iniziò il 29 nov. 1549.
Schierato nel partito filofrancese contò in proprio favore nella prima votazione, che vide quasi prevalere il candidato imperiale, dodici voti, mentre ne ottenne ventuno quando, alla fine di dicembre, la sua candidatura fu contrapposta, del tutto simbolicamente, a quella di J. A. de Toledo. Il suo nome entrò poi nella rosa di cardinali che il card. Farnese, il 19 gennaio, propose di escludere dalla candidatura, come troppo legati all'una o altra parte e che quindi non sarebbero mai stati accettati da una delle due. Il A e il 26 gennaio il D. parlò incitando i cardinali ad addivenire ad un accordo e denunciando le irregolarità e gli arbitri del conclave e quindi fu uno dei dieci cardinali che elaborarono e pubblicarono il 31 gennaio i capitoli riformativi, stabilenti nuove norme restrittive per il conclave, immediatamente applicate.
Dal nuovo papa Giulio III, eletto unanimemente, il D. fu chiamato insieme ad altri cinque cardinali a far parte della commissione che doveva presiedere alla riforma della Dataria. Con altri sei cardinali era membro anche della commissione incaricata nell'aprile del 1550 di occuparsi degli affari del concilio, che Giulio III si era impegnato a riaprire. Dal febbraio era anche membro del tribunale dell'Inquisizione. Considerato ostile da Carlo V, che nel giugno 1550 lo definiva "siempre afficionado a Francia", il D. faceva parte in Curia del partito della riforma, ed era tanto rigido da aver come regola, così come il card. Carafa, di non mangiare mai fuori casa. Creato legatus Urbis il 9 sett. 1551, nel luglio 1552 fu incluso in una congregazione di sette cardinali incaricata dal papa di reperire "tutto quello che trovaranno che Sua Santità habbia sopra il pane suo cottidiano", da inviare in aiuto a Ferdinando, re di Ungheria, per sovvenirlo contro i Turchi. Consultato nel settembre 1552 da Giulio III, che voleva costituirsi come intermediario fra Carlo V ed Enrico II, per indurli alla pace, fece parte nel luglio dell'anno dopo di una commissione che doveva dare suggerimenti perché i due sovrani addivenissero alla pace.
Il D. morì a Roma il 10 dic. 1553.
Seppellito nella chiesa di S. Agostino, di dove pare che sia stato poi traslato a Montefalco, il D. aveva fatto testamento l'8 novembre (Arch. di Stato di Roma, Notai A. C., vol. 523, cc. 452-54), lasciando erede universale di tutti i suoi beni mobili ed immobili il figlio Gerolamo, padre di Cristoforo, Alessandro e Innocenzo.
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