DE COSMI, Giovanni Agostino (Modesto Agostino Giovanni Michele). - Nacque a Casteltermini (Agrigento) il 5 (secondo l<apost>autobiografia) o il 6 (secondo l<apost>atto di nascita)
luglio 1726, primogenito di Domenico e Anna Giovino, figlia di un modesto proprietario terriero. Il padre del D., Domenico, mercante di tessuti genovese trasferitosi in Sicilia, sembra avesse studiato presso l'università di Pavia, ed ebbe qualche importanza nella formazione del figlio, poiché ne seguì i primi studi, guidandolo nell'apprendimento della storia e della cosmografia; per il resto l'educazione del D. si svolse nella stessa Casteltermini, sotto le cure di don Pietro Nigrelli. Nel 1738 il D. entrò come convittore nel seminario dei chierici di Girgenti dove, fino al 1745 studiò belle lettere, filosofia, teologia. Morto il padre nel 1740, la famiglia del D. si trovò in ristrettezze, ma l'impegno materno e l'affetto dei parenti riuscirono a far fronte alle esigenze del giovane che, nel 1745, entrò nel collegio domenicano dei Ss. Agostino e Tommaso a Girgenti, dove studiò sacri canoni e morale, ottenendo nel 1748 il suddiaconato. Tale collegio aveva ordinamento simile a quelli di Salamanca e di Superga, accettava cioè gratuitamente per sei anni gli alunni migliori del seminario.
L'ambiente in cui avvenne la prima fase della formazione del D. era sostanzialmente tradizionalista, ma grazie al contributo paterno ed alla apertura di alcuni dei suoi docenti e, soprattutto, grazie alla propria curiosità naturale, il giovane D. recepì e fece proprie alcune delle tendenze e delle problematiche illuministiche che, principalmente dalla Francia, si erano cominciate a diffondere in Sicilia.
Nel 1749 per volontà di Lorenzo Gioeni, vescovo di Agrigento, il D. venne nominato maestro di retorica nel seminario locale, in cui nel frattempo si andava tentando una prima riforma pedagogica moderatamente filogiansenista, ispirata alla metodologia della logica di Port-Royal.
In questi anni il D. riprese gli studi di storia antica, moderna e religiosa sui testi dei francesi C. Fleury, J.-B. Bossuet, A. Calmet; di letteratura, leggendo L. A. Muratori, G. V. Gravina, G. M. Crescimbeni; studiava intanto i grandi classici latini, da Cicerone ad Orazio, raffinando gli strumenti dell'eloquenza oratoria, arte in cui già nel 1745 si era dimostrato abile con una Orazione funebre per il domenicano Mariano Leonardi. Il D. in questo periodo maturava una posizione culturale compiuta, alla cui base è la mediazione tutta classicista ed amanista tra il grande paganesimo di Platone e Cicerone, e l'etica cristiana. Il suo gusto letterario era antibarocco, vicino al neoclassicismo arcadico, restauratore della purezza linguistica. Lo studio della storia lo aveva portato a privilegiare la dimensione economica della società, come la più atta a permettere, attraverso il raggiungimento del benessere collettivol il libero ed armonico sviluppo di tutti gli individui.
Nel 1751, ritiratosi dall'insegnamento, il D. tornò a Castelterminì per rimettersi in salute e riprendere, in modo organico e continuativo, lo studio della lingua latina e della sua didattica (studiò C. Lancelot e F. Sanchez), della geometria euclidea, della fisica di P. v. Musschenbroek, della matematica di C. Wolff. Approfondiva intanto la conoscenza della logica di Port-Royal, di A. Arnauld e P. Nicole. Si profilava intanto il suo interesse per un razionalismo applicato e pratico, con una forte tendenza alla didattica ed alla trasmissione della cultura, più che alla pura speculazione teologica. L'anno seguente venne nominato curato-economo della chiesa di Casteltermini, incarico che, dopo una causa protrattasi per circa tre anni, gli venne tolto a favore di don F. M. Pellettieri. Morto intanto il suo principale protettore, L. Gioeni, il D. si recò per un breve soggiorno a Palermo nel novembre 1754; qui conobbe Antonino Calvo, Tommaso D'Orso, Ludovico Nava e soprattutto V. Fleres, personalità ricca e suggestiva, che lo avvicinò alla Metafisica di C. Wolff ed al pensiero di Leibnitz. Nel 1755 il nuovo vescovo Andrea Lucchesi Palli confermò al D., tornato a Casteltermini, la cattedra di retorica nel seminario di Girgenti. Pochi mesi dopo però tutti i domenicani e anche il D. abbandonarono il seminario. Questi tornò a Casteltermini, ed iniziò una scuola privata nella sua casa, una "accademia quotidiana", in cui guidava alcuni giovani sacerdoti all'interpretazione delle Sacre Scritture e alla comprensione della teologia. Il D. aveva intanto ripreso lo studio della lingua greca, studiava analisi matematica sotto la guida di Girolamo Settimo che, insieme con L. Gioeni e con S. Ventimiglia, entrerà nel novero delle persone maggiormente amate e venerate dal De Cosmi. Nel novembre 1759 i giurati di Castronovo lo incaricavano di dirigere le scuole pubbliche, con l'insegnamento di belle lettere, geometria e filosofia, per la quale svolse un corso ispirato nettamente alla metafisica wolffiana. Continuava intanto la sua fortunata attività di predicatore.
Nel 1762 S. Ventimiglia, vescovo di Catania e gran cancelliere dell'università degli studi, aveva messo in atto un progetto di radicale rinnovamento culturale della città, chiamando a collaborarvi varie personalità tra cui il D., a cui venne affidata la doppia carica di direttore spirituale del seminario dei chierici ed esaminatore del clero nel 1764.
In questi anni, nonostante le tendenze nettamente leibniziane e wolffiane di mons. Ventimiglia e del suo ambiente, il D. si era andato staccando da tali concezioni filosofiche, approdando all'empirismo inglese, al pensiero di Locke e Hume. Egli andò affrontando nell'ambito dell'empirismo i problemi più specificamente pedagogici e logici: la struttura del linguaggio e dei discorso, le tecniche di insegnamento della matematica.
Nel 1765 il D. venne intanto eletto predicatore della cattedrale e per la prima volta affrontò l'oratoria in italiano, abbandonando il dialetto siciliano, in cui aveva fino ad allora tenuto le sue prediche. Costituito dal viceré Fogliani un convitto universitario a Catania, il D. ne divenne rettore, laureandosi il 24 ott. 1765 in utroque iure.
Nel 1768 l'allontanamento dei gesuiti dal Regno provocò un ampio movimento di riorganizzazione del sistema scolastico di tutta l'isola, con una notevole vivacizzazione della vita culturale catanese: nascevano accademie e giornali, i posti di insegnamento venivano messi a concorso.
Nel 1768 il D. venne eletto canonico della cattedrale di Catania, incarico che gli permise un nuovo periodo di studio e concentrazione. Nel 1770 vinse un concorso bandito per la cattedra di teologia dogmatica dell'ex collegio gesuitico di Catania; presto venne però sollevato dall'incarico con il pretesto dell'incompatibilità delle due cariche di docente e canonico.
In realtà l'allontanamento del D. rientrava nel piano di recupero del controllo che le autorità municipali coalizzate con le correnti scolastiche e leibniziane avevano messo in atto a danno degli innovatori. A motivo di questi stessi contrasti perduranti ormai da tredici anni, mons. Ventimiglia rinunciò l'11 dic. 1771 al vescovado catanese per stabilirsi a Palermo con il titolo di arcivescovo di Nicomedia conferitogli il 16 dic. 1771. Il D. non si rassegnò alla perdita della cattedra, rivolse proteste presso Bernardo Tanucci e presso lo stesso Ferdinando III (IV al di qua del Faro); la sua esclusione restò comunque definitiva.
Dopo qualche anno, nel 1777, il D. venne incaricato dal nuovo vescovo, Corrado M. Deodato, di riorganizzare le scuole del seminario di Catania; il D. svolse l'incarico affidando la cattedra di metafisica a Benedetto D'Agata, quella di fisica a Vincenzo Zuccarello, entrambi suoi antichi allievi; per sé conservò l'insegnamento delle materie ecclesiastiche. Due anni dopo venne incaricato dal governo di Napoli di redigere un piano di riforma per la regia università.
Questo piano, mai tradotto nella realtà, illustra con chiarezza la concezione pedagogica dei D.; grande spazio viene riservato alle scienze applicate: meccanica, idraulica, nautica; rilevante è anche il peso che viene dato alla qualità ed al grado di aggiornamento dei docenti: scopo principale era per il D. quello di creare una categoria di tecnici scientificamente aggiornati, capaci di applicare gli studi fatti nel tessuto sociale ed economico della Sicilia.
Presto due casi collegati vennero ad interrompere l'attività didattica del D.: nel 1779 sorse un contrasto tra Francesco Paternò Castello, canonico della cattedrale di Catania e vescovo di Europo, ed il capitolo della cattedrale, dal quale il D. fu chiamato come avvocato difensore. Il contrasto era incentrato sull'esercizio di alcuni privilegi che il vescovo di Europo si arrogava, diritto negato invece dal-Capitolo.
In difesa del vescovo si schierò il fratello Giovanni Andrea Paternò Castello, uomo di nota e vivace cultura che, sotto lo pseudonimo di Pietro del Campo, mosse battaglia al D., che aveva intanto fatto stampare una Memoria pel Capitolo (Catania 1779). La polemica divenne ben presto più antidecosmiana che anticapitolare: il D. venne accusato di diffondere nel seminario un pensiero "miscredente"; "la lettura del Febronio gli ha guastato il capo, e Dio non voglia che non sia stato egli capace di averlo ad altri guastato", si esprimeva Pietro del Campo. La polemica contro il D. si allargò, partecipandovi attivamente una larga alleanza leibniziano-wolffiano-scolastica, capitanata da Leonardo Gambino e dallo stesso Paternò Castello.
Il D. non rifiutò la polemica: come avvocato del capitolo continuò la causa, che intanto era arrivata fin davanti al re, pubblicando la Seconda difesa del Capitolo (Catania 1781), nella quale con il capitolo difendeva se stesso dalle accuse di febronianismo. Come docente e come filosofo, celandosi dietro le firme dei suoi fedeli D'Agata e Sanfilippo, pubblicò due Methaphysices prospectus in varias theses distributus (Catania 17 81), nei quali rese manifesta la sua adesione all'empirismo lockiano, illustrando come tale filosofia, nella versione da lui professata, fosse lontana da ogni materialismo ed ateismo, compatibile - ed anzi armoniosamente affiancabile - con la più ortodossa religione cattolica. La causa del capitolo fu vinta, ma le tesi filosofiche del D., accusato di eresia da G. A. Aguglieri, vennero condannate dalla S. Sede. Di conseguenza D'Agata venne allontanato dall'insegnamento e lo stesso D. si dimise; come si legge nella sua biografia: "io mi dimisi dal Seminario, perché non si deve far del bene a chi non ne vuole". Nel 1782 il D. era a Napoli, dove portava avanti le ultime fasi della causa; qui conobbe Ferdinando Galiani, Niccolò Ignarra, Stefano Patrizii. In seguito si recò per qualche mese a Roma ove frequentò Stefano Borgia ed Antonio Agostino Giorgi.
Tornato a Catania, il D. riprese il canonicato della cattedrale, ultimo e solo incarico rimastogli. Ma l'anno seguente, nonostante i passati contrasti col governo della città, mons. Ventimiglia donò al comune di Catania la sua biblioteca, designando per la sistemazione una commissione formata da G. Garrasi, G. A. Paternò Castello e lo stesso D., che venne in seguito nominato custode a vita della biblioteca detta ventimiliana, carica comportante un vitalizio.
Nel 1780, ma di fatto nel 1781, aveva avuto inizio il viceregno del marchese D. Caracciolo; il D. condivise il programma di riforme intraprese negli anni che vanno fino al 1786, ed anzi si trovò completamente all'unisono con le concezioni economico-politiche del viceré. Questi anni segnarono per il D. il distacco dalla filosofia e dall'insegnamento; fermi restando gli interessi pedagogici, il D. si trovò a privilegiarne gli aspetti sociopolitici, approfondendo i propri interessi verso l'economia politica e l'educazione popolare. In economia, il D., come il Caracciolo, fu favorevole al libero scambio, chiedendo l'abolizione delle numerose tasse e gabelle proprie del regime feudale; propugnò il frazionamento del latifondo in piccole proprietà private; politicamente antibaronale, auspicava lo sviluppo di un ceto borghese economicamente attivo e dinamico, che doveva fondarsi sullo sviluppo delle manifatture e dei commerci, e politicamente autonomo. Questa coincidenza di idee con il Caracciolo determinerà un giudizio storiografico alquanto sospettoso da parte di D. Scinà e I. La Lumia. "L'adulazione non mancò di far plauso a concetti del viceré in un grosso commento del canonico Agostino De Cosmi. Poco stante, il giovane Saverio Scrofani, con miglior senno, sorgeva a combatterli" (I. La Lumia, Il Viceré Domenico Caracciolo, in Storie siciliane, IV, Palermo 1883, p. 609). Essi, pur riconoscendo i suoi meriti, lo accuseranno di atteggiamenti adulatori ed opportunistici.
Durante gli anni 1785-86 il D. si dedicò alle pubblicazioni economiche, conciliate coi suoi interessi principali: la pedagogia ed i problemi organizzativi della cultura popolare: "Merita d'essere sradicata quella malvaggia e disumana politica che fomenta l'ignoranza nazionale, e la mancanza dei lumi dei popolo; sul falso presupposto che si governino meglio gli uomini degradati ed accecati, degli uomini illuminati". Queste considerazioni decosmiane del 1786 corrispondevano alle tendenze innovatrici della monarchia. Lo stesso Ferdinando III intendeva diffondere nel Regno l'istruzione delle classi inferiori per mezzo del "metodo normale".
Il D. venne chiamato a Napoli nel 1786 con lo scopo di apprendere tale metodo. A contatto con i padri celestini Alessandro Gentile e Ludovico Vuolo, il D. approfondì questo progetto presso il monastero di S. Pietro a Majella fino al marzo del 1787 e, dopo un breve soggiorno a Roma, tornò in Sicilia dove ebbe l'incarico di direttore generale della riforma delle scuole 01 marzo 1788), avendo a disposizione per il loro finanziamento le 2.500 onze già destinate per il mantenimento delle ventiquattro scuole erette negli ex collegi dei gesuiti.
L'impostazione della scuola normale si opponeva nettamente al tipo di educazione aristocratica ed elitaria tradizionalmente impartita dai gesuiti. L'aristocrazia non parve apprezzare la novità: "mi parve invero una ridicolosità tal metodo tanto e tanto vantato dagl'introduttori, e che il culto di tali scuole appellate normali, o poco o nulla possa far del bene ne' ragazzi, onde li salari dei lettori, che paga il re, sono denari gettati al vento", scriveva il marchese di Villabianca.
Il D. continuò la sua attività di organizzazione culturale e di studio fino agli ultimi anni della sua vecchiaia, lunga e serena. Come ricorda lo Scinà: "a vedere lui che grande era nella persona, e grave nell'aspetto, passeggiar per le vie di Catania, e di Palermo tra i suoi allievi, che compresi di venerazione gli facean cerchio e codazzo, ti parea uno degli antichi filosofi...". Ad interrompere la serenità della vecchiaia intervenne nel 1794 l'accusa sollevata dall'arcivescovo di Palermo e presidente del Regno, Filippo López y Royo, di aver partecipato alla congiura giacobina capeggiata da F. P. di Blasi. L'accusa, evidentemente infondata, rimase priva di conseguenze, ed il D. poté continuare la scrittura degli Elementi di filologia italiana e latina.
Morì a Palermo il 24 genn. 1810. La salma venne seppellita nella chiesa di S. Maria di Gesù a Palermo.
Delle opere del D. si ricordano: Ristretto dell'arte oratoria, Palermo 1748; Orazionefvnebre per monsignor Lorenzo. Gioeni, ibid. 1755; Orazione funebre del p. Mariano Leottardi domenicano, ibid. 1765; Difesa del Capitolo di Catania contro il vescovo di Europo, Catania 1776; Seconda difesa del Capitolo, ibid. 1781; Discorsi di sagro argomento, Napoli 1782; Orazione funebre pel dottor Leandro Rossi, Catania 1785; Comentario alle riflessioni del marchese D. Caracciolo con una digressione sulla pubblica educazione, ibid. 1786; Principii generali del discorso e della ortografia, Palermo 1790; I memorabili di Socrate, ibid. 1790; Metodi e principii generali del discorso, ibid. 1792; Elementi di filologia italiana e latina, I-III, ibid. 1796-1805; Orazione funebre per Maria Clementina d'Austria, ibid. 1802; Memoria nell'istituto normale di Sicilia, ibid. 1813; Delle memorie di Socrate scritte da Senofonte, ibid. 1814; Cento epistole di Cicerone, ibid. 1816.
Fonti e Bibl.: D. Scinà, Prospetto della sto letter. di Sicilia, 3 voll., Palermo 1824-1827, Indicem; G. Di Giovanni, La vita e le opere G. A. D., Palermo 1888 (che contiene l'autobiografia del D., Mem. della mia vita rivedute al 1802, al mese di gennaio, prima inedita); G. Giarrizzo, Nota introduttiva a G. A. D., in Illuministi ital., VII,Milano-Napoli 1965, pp. 1079-98. Per un approfondimento degli aspetti più propriamente pedagogici e politici della posizione decosmiana, sì vedano: E. Catalano, G. A. D e l'illuminismo, in Riv. Pedagogica, XVIII (1925), pp. 634-62; Id., Liberalismo economico e religioso e filogiansenismo in G. A. D., ibid., XIX (1926), pp. 527-77; Id., Il Pensiero pedagogico di G. A. D., ibid., XXI (1928), pp. 124-44. 179-208, 264-84; M. Condorelli, Note su Stato e Chiesa nel pensiero degli scrittori giansenisti siciliani del secolo XVIII, in Il Diritto ecclesiastico, LXVIII (1957), pp. 356-59, 365, 376; Id., Spunti ricostruttivi per la qualificazione del potere del pontefice sul patrimonio ecclesiastico, ibid., LXIX (1958), pp. 113-59; F. Cangerni, Le scuole di mutuo insegnamento in Sicilia…, in Nuovi Quaderni del Meridione, I (1963), p. 432; C. Caristia, Riflessi politici del gians. ital., Napoli 1964, ad Indicem.