Hume, David
Filosofo scozzese (Edimburgo 1711- ivi 1776).
Proveniente da una famiglia di nobiltà di toga, trascorse la sua infanzia nella casa di Edimburgo e nella proprietà di famiglia di Ninewells, Berwickshire. Tra il 1721 e il 1726 frequentò l’univ. di Edimburgo, dove seguì lezioni di matematica e di filosofia naturale e si appassionò alle dispute filosofiche. Abbandonata l’idea di abbracciare la professione legale, al ritorno a Ninewells si impegnò in vaste letture, che gli aprirono, come egli stesso confessò, «una nuova scena di pensiero», atta a rivoluzionare gli studi filosofici. Per uscire dalla depressione nervosa causatagli dall’intenso sforzo intellettuale, che l’aveva portato a mettere insieme «materiali grezzi per molti volumi», tentò di intraprendere una vita più attiva impiegandosi per alcuni mesi nella professione di commercio, ma la «vocazione letteraria» ancora una volta ebbe il sopravvento. Trasferitosi in Francia, prima a Reims poi nella tranquillità del collegio di La Flèche, in tre anni di lavoro, tra il 1734 e il ’37, ebbe modo di rielaborare il frutto delle sue ricerche, ricavandone le prime due parti del Treatise of human nature (trad. it. Trattato sulla natura umana) (➔), pubblicate anonime a Londra nel 1739. Lo scarso successo cui andò incontro l’opera convinse H. a illustrarne i temi essenziali in un Abstract (trad. it. Estratto del Trattato sulla natura umana), uscito anch’esso anonimo nel 1740, anno in cui compariva la terza parte del Treatise. Maggior fortuna ebbero invece i due volumi di Essays, moral and political (trad. it. Saggi morali e politici), che videro la luce nel 1741 e nel 1742. Dopo un tentativo di carriera universitaria, fallito per l’opposizione del clero scozzese, negli anni seguenti H. trovò impiego come accompagnatore di un gentiluomo e come segretario di ambasciata all’estero. Del 1748 è la nuova stesura della prima parte del trattato con il titolo Philosophical essays concerning human understanding (An enquiry concerning human understanding, dal 1758; trad. it. Ricerca sull’intelletto umano) (➔), mentre l’Enquiry concerning the principles of morals (trad. it. Ricerca sui principi della morale), in cui è rielaborata la parte dedicata alla morale, uscirà nel 1751. A questi anni risale anche la prima stesura dei Dialogues concerning natural religion (trad. it. Dialoghi sulla religione naturale) (➔), che saranno pubblicati postumi nel 1779. Un notevole successo di pubblico accolse nel 1752 i Political discourses (trad. it. Discorsi politici), ma H. dovette registrare un nuovo fallimento nel tentativo di ottenere una cattedra universitaria. Riuscì però a ottenere il posto di conservatore della biblioteca degli avvocati di Edimburgo, carica che gli permise di attendere con tranquillità alla stesura della monumentale History of England (trad. it. Storia d’Inghilterra), i cui sei volumi videro la luce tra il 1754 e il 1761. Con il titolo Four dissertations (trad. it. Quattro dissertazioni) nel 1757 uscì il volume contenente The natural history of religion (trad. it. Storia naturale della religione) e il saggio The standard of taste (trad. it. La regola del gusto), il suo maggior contributo all’estetica; nello stesso anno H. si trasferì a Londra. Le raccolte dei saggi e, soprattutto, il completamento della History consacravano la fama di Hume. Insieme con la tranquillità economica arrivarono gli incarichi ufficiali. Tra il 1763 e il 1766 fu segretario d’ambasciata a Parigi, dove fu accolto calorosamente nell’ambiente dei philosophes; Rousseau lo seguì al suo rientro a Londra, ma il rapporto fra i due si ruppe a causa del carattere ombroso e sospettoso del Ginevrino. Nel 1767-68 fu sottosegretario di Stato nel governo Pitt, dopodiché si ritirò a Edimburgo, dove attese all’edizione definitiva degli Essays and treatises on several subjects (trad. it. Saggi e trattati su vari soggetti), la raccolta completa dei suoi scritti a esclusione del Treatise, alla stesura dell’autobiografia (The life of David Hume Esq. written by himself; trad. it. La mia vita) e all’ultima revisione dei Dialogues.
Il compito che H. si pose all’aprirsi della «nuova scena di pensiero» è espresso con chiarezza nel sottotitolo del Trattato sulla natura umana: «Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali». L’indicazione metodologica si traduce nel primato dell’esperienza, nel rifiuto della ricerca di cause ultime, nell’analisi dei fenomeni mentali e nella loro riconduzione a pochi principi semplici, secondo la lezione di Newton. «Cauta osservazione» e «accurati ed esatti esperimenti» sono gli strumenti a disposizione dello scienziato della natura umana, e la scienza della natura umana, nell’ambizioso disegno del giovane H., assume un ruolo centrale rispetto alle altre scienze, sia naturali sia morali, in quanto per affrontare qualsiasi problema di verità occorre preliminarmente mostrare come funziona la mente nei suoi comportamenti. Ma al di là dell’analisi delle operazioni mentali lo scienziato della natura umana non può legittimamente spingersi; ogni illazione sulla natura intima dell’io non è che un’ipotesi non suffragata dall’esperienza. Alla nozione cartesiana dell’io-sostanza H. sostituisce l’immagine della mente come teatro, «ove compaiono successivamente le varie percezioni, che passano, ripassano, escono e si mescolano in un’infinita varietà di atteggiamenti e situazioni»; con l’avvertenza, come dirà poi nell’Estratto, che le percezioni «compongono» la mente, non «appartengono» alla mente.
Come per Locke, il mondo delle percezioni è al centro della ricostruzione humiana, ma diversamente da Locke H. distingue le percezioni in impressioni e idee. La differenza sta nel grado di vivacità con cui entrambe si presentano alla mente: le impressioni sono le percezioni vivaci dei sensi, le emozioni, le passioni, mentre le idee sono copie indebolite delle impressioni originarie. La distinzione tra impressioni e idee è la stessa che passa tra sentire e pensare, ed è quella che consente a H. di riconsiderare il problema dell’innatismo che aveva contrapposto Locke ai cartesiani: mentre le idee non possono prescindere da esperienze precedenti e quindi non possono darsi idee innate, delle impressioni si può dire che siano innate, se per innato s’intende un dato originale della mente, sulle cui cause non è compito del filosofo esprimersi. Non solo, la dipendenza delle idee dalle impressioni si rivela determinante per respingere tutte quelle nozioni filosofiche che facendo appello a presunte idee di cui non sia possibile indicare l’impressione corrispondente risultano prive di significato, prime fra tutte le idee di sostanza e di essenza. Le idee tendono ad associarsi tra di loro nella memoria e nell’immaginazione, ma mentre la memoria è incline a riprodurle nell’ordine delle esperienze precedenti, l’immaginazione è libera di «trasporre e cambiare le sue idee», riaggregandole «nella forma che più le piace». Se l’immaginazione è più libera della memoria, ciò non vuol dire però che operi senza regole: essa è comunque soggetta all’azione di quella che H. definisce una «dolce forza», analoga in qualche modo alla gravitazione newtoniana, che porta le idee a congiungersi secondo i principi della somiglianza, della contiguità e della causalità. Queste associazioni danno luogo a «relazioni filosofiche» che servono a ordinare il mondo della conoscenza e che possono essere ricondotte a due grandi categorie, quelle che dipendono interamente dalla relazione fra idee e quelle che, implicando la causalità, rinviano all’esperienza. Di qui la distinzione dei ragionamenti umani in tre specie, a seconda che si fondino sulla conoscenza, su prove o su probabilità. La conoscenza è la certezza che nasce dal confronto fra le idee e caratterizza i ragionamenti matematici, mentre le argomentazioni basate sulla relazione di causa ed effetto si distinguono in prove, quando sono completamente libere da dubbi, e probabilità, quando sussistono ancora incertezze.
Al di fuori dei ragionamenti matematici, tutte le attività della mente ruotano intorno alla relazione causale, che assume così un ruolo determinante, perché da essa dipende la possibilità di andare oltre le impressioni attualmente percepite, istituendo quelle regolarità di collegamento tra le nostre esperienze passate e presenti e gli eventi futuri che sono alla base non solo dei nostri comportamenti pratici, ma anche della conoscenza scientifica. Se il problema dei filosofi è stato essenzialmente quello di giustificare o fondare razionalmente la relazione causale, il compito dell’analista della mente è quello di ricostruirne i meccanismi psicologici che ne sono all’origine. Il primo passo consiste nel rintracciare le componenti empiricamente osservabili della relazione: contiguità, successione e congiungimento costante tra i fenomeni denominati causa ed effetto. Ma l’elemento che caratterizza la relazione è la connessione necessaria tra i due fenomeni, e questa non è il prodotto né dell’esperienza né della ragione. La convinzione che un determinato fenomeno si ripresenterà immancabilmente in circostanze simili è il risultato di un procedimento, che H. chiama credenza (belief), mediante il quale l’immaginazione, sorretta dall’abitudine, trasmette la vivacità dell’impressione presente all’idea che richiama ciò che è stato costantemente esperito. Tale procedimento, messo a fuoco nell’analisi della relazione causale, rappresenta lo sviluppo coerente di quel primato del sentire sul pensare posto con la distinzione tra impressioni e idee e sottolinea il ruolo preminente dell’immaginazione rispetto alla ragione nella costruzione del mondo dell’esperienza. Quel procedimento diventerà nel Trattato la «massima generale della natura umana», in base alla quale rendere conto delle credenze naturali, da quella nell’esistenza dei corpi esterni a quella nell’identità personale, la cui stabilità è affidata unicamente alla costanza dei processi psicologici che a esse danno luogo.
In etica H. si inserì criticamente nella disputa tra i teorici che derivavano dalla ragione le distinzioni morali, riducendole a relazioni fra idee, e i sostenitori dell’egoismo, che fondavano la morale sull’interesse personale. Accolse da Hutcheson l’idea che i giudizi di approvazione e di disapprovazione morale dipendono da una forma di sensibilità, il moral sense, ma non ne condivise la collocazione in un quadro finalistico e provvidenzialistico, impegnandosi in una complessa analisi delle motivazioni all’agire. Al centro di questa analisi sono le passioni, le emozioni e i sentimenti, che partecipano della natura vivace e immediata delle impressioni, e la simpatia, che nel mondo morale svolge una funzione analoga a quella esercitata dalla credenza nella strutturazione dell’esperienza conoscitiva. Come la credenza, la simpatia è un principio di trasmissione che trasforma in qualcosa di sentito da noi la percezione dei sentimenti altrui, e la sua spontaneità sta a dimostrazione della natura disinteressata dei nostri giudizi morali. E come per la relazione causale, il giudizio morale non ha riscontro in una qualità oggettiva che la ragione possa individuare, ma coincide con il sentimento di approvazione o disapprovazione che essa suscita nel nostro senso morale. Nel campo della morale riesce così ancor più confermato il primato del sentire che caratterizza l’analisi della conoscenza. La ragione ha un suo proprio ruolo nel mettere a fuoco il rapporto tra mezzi e fini dell’azione, ma da sola non è sufficiente come motivazione all’agire: essa «è, e deve solo essere, schiava delle passioni». Non si tratta di una concessione all’irrazionalismo, tanto meno di un rifiuto di considerazioni di utilità. Ma, se «l’utilità è soltanto una tendenza a un certo fine», il calcolo razionale delle conseguenze utili o dannose di un’azione sarebbe del tutto sterile se il fine ci fosse indifferente, se non fosse cioè sorretto dalla sensibilità per la felicità degli uomini, da quella simpatia su cui si basa la socievolezza umana e che dà luogo ad aggregazioni sempre più includenti, dove accanto alle virtù naturali, che regolano le relazioni che riguardano la sfera personale, si evolvono via via le virtù artificiali, ovvero gli obblighi e le regole da cui dipende la stabilità della società civile. Sono i temi che H., una volta abbandonato l’ambizioso progetto sistematico del Trattato, avrebbe sviluppato nella Ricerca sulla morale, nei saggi politici ed economici, dove i risultati raggiunti in sede teorica saranno messi a confronto con un’esperienza storica e istituzionale sempre più comprensiva; una ricerca che avrà un suo punto d’eccellenza nella Storia d’Inghilterra con la ricostruzione del processo attraverso il quale la società inglese giunse a liberarsi delle strutture feudali.
Pubblicando il Treatise H. scelse di lasciare prudentemente da parte alcune argomentazioni che toccavano direttamente questioni religiose, ma ciò non valse a evitare che l’opera fosse tacciata di miscredenza: chi espresse quel giudizio era ben consapevole di quanto la dissoluzione scettica della pretesa di fondare su basi razionali la credenza nell’io e nel mondo esterno finisse con il coinvolgere anche le verità della teologia. Più tardi, nel rielaborare la prima parte del trattato, aggiunse due sezioni sui miracoli e sulla provvidenza in uno Stato futuro, mentre la trattazione complessiva del problema religioso è affidata ai Dialoghi sulla religione naturale e alla Storia naturale della religione. I due scritti, pur così diversi tra di loro, si completano a vicenda, rispecchiando in maniera esemplare l’atteggiamento filosofico di Hume. Due sono le questioni che la religione pone all’analista: quella del suo fondamento razionale e quella della sua origine nella natura umana. Affrontando nei Dialoghi la prima questione, H. mostra insuperabili le confutazioni dello scettico della possibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio e di conoscere i suoi attributi, sia nelle forme della classica prova a priori sia in quelle ‘sperimentali’ dei teologi naturali basate sull’ordine dell’Universo. Ma di fronte allo scacco della ragione, è la diffusione stessa del sentimento religioso a imporre la questione della sua origine. Nella Natural history of religion, questa è individuata in un bisogno emotivo dell’uomo che, nel timore delle cause ignote degli eventi, cerca protezione nel soprannaturale. Non è un istinto originario a muovere il sentimento religioso, altrimenti la sua diffusione non ammetterebbe eccezioni (e testimonianze di viaggiatori ci parlano di popoli senza religione) e si manifesterebbe ovunque con le stesse modalità, come avviene per tutti gli impulsi primari. E proprio la complessa fenomenologia della credenza religiosa si pone al centro della ricerca di H., a partire dal politeismo dei popoli primitivi per giungere all’affermazione del monoteismo e al teismo filosofico, seguendo un processo di progressiva razionalizzazione dell’originario bisogno di sicurezza che non è comunque in grado di impedire sempre possibili ricadute nell’idolatria e nella superstizione.
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