DAVANCINO (Davanzino) di Giovanni
Di lui non abbiamo alcuna notizia, se non che è indicato come l'autore del cantare trecentesco toscano Il Bel Gherardino da due postille del cod. Magliab, VIII, 1272 e che in una di esse è definito "lo più tristo garzone". Non esiste tuttavia nessuna testimonianza della sua attività, sicché qualche studioso ha attribuito al Pucci la composizione del cantare, che viene oggi considerato per lo più anonimo.
La novella del Bel Gherardino, scritta certamente da autore toscano, godette nel suo tempo di vasta notorietà, tanto che il Boccaccio allude nel Corbaccio a personaggi di essa come se fossero familiari ai lettori contemporanei: "L'arebbe dato il cuore d'avanzar di fortezza non che Marco Bello, ma il Bel Gherardino che combatté con l'orsa". Questa indicazione costituisce l'unico terminus ante quem della composizione dell'opera, che va quindi datata intorno alla metà del secolo e non verso la fine, come suggerisce la data del codice. L'unico ragguaglio interno che si può desumere dallo stesso cantare riguarda la giovinezza del suo autore, che in due passi fa ammenda della sua inesperienza, avvertendo anche il lettore delle difficoltà connesse con il suo esordio: "Con ciò sia cosa che questo cantare / sia dei primi ch'io mai mettessi in rima / però vo' far perfetto incominciare" (cant. I, str. II, vv. 1-3); "Signori e buona gente, voi sapete / che in prima è l'uom discepol che maestro / ... Però s'io fallo non mi riprendete / che di tal arte non son ben maestro" (cant. II, str. II, vv. 5-6). Per il resto i clichés e le stilizzazioni forinulistiche impediscono di cogliere particolari utili a definire la genesi dell'opera e a caratterizzarne il suo autore. Questi si rifugia infatti nelle convenzioni di repertorio sia negli incipit devoti, sia nella tecnica del rimando alla fine degli episodi e nelle chiuse sia, più in generale, nell'orditura e nei topoi narrativi.
La novella in ottave del Bel Gherardino (divisa in due cantari) appartiene al genere avventuroso, che mescolava erotismo e fiaba secondo archetipi narrativi codificati nei secoli precedenti nella Francia settentrionale. Concordanze di situazioni sono state infatti individuate con il Graelent e con il Lanval di Maria di Francia e soprattutto con la saga di Parthenopeus de Blois, di cui ripete non poche scene fondamentali. Tutti questi modelli hanno influito sulla composizione del Bel Gherardino o direttamente o, più verosimilmente, come sostiene il Balduino, in mamera mediata, attraverso volgarizzamenti e tradizioni orali. Di "carte" che avrebbero fornito la materia della sua trattazione l'autore fa talvolta menzione: "E uno grande orso (ciò dicon le carte) / assalì Marco Bel subitamente" (cant. I, str. 12, vv- 3-4); "Davagli un colpo, se 'l cantar non erra / che fu per lui si pessimo e mortale" (cant. I, str. 14, vv. 4-5); ma il riferimento è topico nella poesia popolare e in questo caso pare soprattutto giustificare l'inverosimiglianza del meraviglioso, che deve essere reso credibile dall'allusione ad una fonte. Il Bel Gherardino conserva l'impianto e non poche sequenze narrative dei suoi modelli francesi; ma esso, costruito per lo svago di un uditorio indotto ("Sicch'a costor, che mi stanno a ascoltare / piaccia e diletti dal piede alla cima", cant. I, str. II., vv. 5-6), ha un ritmo più veloce degli originali e risulta privo di quei particolari rituali e cerimoniali e delle complicazioni psicologiche che potevano essere accetti a un lettore colto.
Il cantare narra le gesta di Gherardino, nobile giovane romano, che, dopo la morte del padre, dilapida tutto il patrimonio in "cortesie" ed è infine costretto ad andare alla ventura, accompagnato dal fido scudiero Marco Bello. Giunto alle porte di un favoloso palazzo, Gherardino è affrontato successivamente da un serpente e da un orso, dei quali risulta vincitore dopo aspra contesa e, quindi, è introdotto nel castello fatato, dove, assieme all'amico viene ristorato con vivande prelibate da invisibili servi e ospitato con gran magnificenza. A notte, una dama si introduce nel suo letto e lo induce all'amore: costei è la Fata Bianca, signora del castello, con cui egli trascorre tre mesi tra i notturni piaceri amorosi e i lieti intrattenimenti del giorno. Ma la nostalgia della sua contrada avvince il giovane cavaliere, che ottiene dalla dama il permesso di partire e il dono di un guanto che esaudisce tutti i desideri. Gherardino tuttavia non riesce ad ottemperare al divieto della fata di rivelare la virtù del guanto prodigioso e, dopo aver comunicato alla madre il suo segreto, ritorna nell'antica condizione di povertà. Deciso a ritrovare l'amica, Gherardino, proprio quando sta per ricongiungersi a lei, viene condotto da una tempesta fino al porto di Alessandria. Qui è in un primo momento imprigionato; ma ben presto, grazie alla sua destrezza, diventa servitore del sultano e amico della regina che si è invaghita di lui. Intanto viene bandito un torneo, il cui vincitore sarà lo sposo della Fata Bianca che, dopo avere invano cercato l'amante, si è rassegnata alla sua scomparsa. Sia il sultano sia Bel Gherardino si recano alla giostra; il re pagano compie molte prodezze e sta per risultare vincitore, ma nell'assalto decisivo Gherardino ha il sopravvento. Triplici nozze concludono felicemente il cantare: oltre a quelle dei due amanti principali, vengono infatti celebrati gli sponsali di Marco Bello con una sorella della fata e perfino quelli della vedova del sultano che, ormai libera del fastidioso marito, si unisce a un giovane nobile.
Il cantare, che al Levi (I cantari..., p. 28) parve "una delle opere più fresche ed affascinanti del Trecento", ricalca, assieme ai suoi esemplari francesi, uno schema strutturale che si riscontra nel "racconto di fiaba" e ha, fra i vari segmenti narrativi, il suo momento più drammatico nel divieto e nella sua infrazione. Molti altri elementi della catena narrativa (partenza dell'eroe, castello incantato, furtività dell'amore, violazione del giuramento) corrispondono alla scansione di questo tipo di racconto; come pure è inevitabile, per la centralità del motivo del coniugio tra un umano e una creatura dagli arcani poteri, il riferimento alla favola classica di Amore e Psiche, in cui tuttavia l'eroina e non l'eroe sottostà, a causa della sua condizione mortale, a prove e peregrinazioni. Ma è impossibile stabilire i veicoli e i modi di trasmissione e di assimilazione della leggenda. Le uniche reminiscenze sicure sono sul piano testuale quelle desunte dal poema dantesco, utilizzato peraltro, come dagli altri canterini, come un vero e proprio repertorio di citazioni (così nel cantare I, str. II: "Di lunga vide un nobile castello / ch'era cerchiato d'altissime mura", vv. 2-3) senza volontà di rielaborazione artistica. Il Bel Gherardino tuttavia, pur nel rispetto dei formulari popolareggianti, è immune da rozzezza e scurrilità. Il tono stilisticamente sostenuto, che ben si addice ad "una romana storia", discende probabilmente anche dagli echi lontani degli originali francesi; ma la féerie e l'avventura (che non è mai militare come nel Parthenopeus) sono ricondotte ad una temperie borghese: l'aristocratica liberalità nel tener "corte", nel circondarsi di "molti donzelli", nel "convitare" "cavalier e mercatanti" è la causa della rovina di Gherardino, che non corre alla ventura in cerca di gloria o per palesare la sua virtù, ma per rimediare alla miseria. Egli è, in un certo senso, fraterno a molti fortunati giovani di ingegno del Decameròn che, anche quando si muovono in uno spazio magico, conservano equilibrio e razionalità e volgono le occasioni a loro vantaggio. E a quest'humus proprio di Firenze e della sua civiltà urbana rimanda la perspicuità della lingua, non carica di soverchi idiotismi, e l'abilità del verseggiare avvertibile nell'impiego disinvolto dell'ottava.
Edizioni. La prima edizione del cantare fu pubblicata da F. Zambrini (Cantare del Bel Gherardino. Novella cavalleresca in ottava rima, Bologna 1867), che usufruiva del cod. Magliab. VIII, 1272; lo stesso autore modificò più tardi questa edizione filologicamente assai scorretta, senza però mutare la precedente data. E. Levi ripubblicò Il Bel Gherardino nel Fiore di leggende. Cantari antichi, Bari 1943 pp. 5-28, emendando le molte sviste del suo predecessore, grazie anche alla nuova lezione che gli forniva (almeno per le prime 28 ottave del primo cantare) il cod. II, IV,163 della Bibl. naz. di Firenze. Le strofe 29 e seguenti del I cantare e il Il cantare sono invece conservate nel cod. Venturi Ginori Lisci 3 (nell'Archivio privato Venturi Ginori), che è stato tenuto presente nelle loro edizioni da D. De Robertis (in Studi di filologia italiana, XXVIII [1970], pp. 110-33) e A. Balduino (Cantari del Trecento, Milano 1970, pp. 73-99).
Fonti e Bibl.: G. Boccaccio, Opere in versi, Corbaccio..., a cura di P. G. Ricci, Milano-Napoli 1965, p. 528; F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secc. XIII e XIV, I, Bologna 1884, coll. 212 s.; G. Casati, Diz. d. scrittori d'Italia, II, Milano s. d., p. 31; E. Levi, Icantari leggendari del Popolo italiano, in Giornale stor. d. letter. ital., LXV (1914), Suppl., pp. 26-36; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1933, pp. 587 ss.; V. Branca, Il cantare trecentesco e il Boccaccio di Filostrato e del Teseida, Firenze 1936, p. 53; M. Ferrara, Ilcod. Venturi Ginori di rime antiche, in La Bibliofilia, LII (1950), pp. 60, 80; G. Mariani, Il Morgante e i cantari trecenteschi, Firenze 1953, passim; E. Pasquini, Il codice di F. Scarlatti, in Studi di filologia italiana, XXII (1964), p. 513; E. Ragni, Cantari, in Diz. critico d. letter. ital., I, Torino 1973, pp. 484 s.