DANZA
Danzare l’identità. Storia e memoria della danza. Sconfinamenti. Bibliografia
I linguaggi della d. contemporanea che possiamo osservare sulle scene internazionali sono molteplici e in continua trasformazione, e tuttavia alcuni temi o approcci alla pratica e alla teoria della d. sembrano ricorrere con più frequenza e con più forza di altri. In particolare, nell’ultimo decennio è andata profilandosi una generazione di coreografi interessati a indagare il tema dell’identità, individuale o collettiva, sia essa culturale, etnica, nazionale, o di genere. Altri artisti, mossi dal desiderio di approfondire la conoscenza delle tradizioni coreutiche da cui provengono, creano spettacoli che intrecciano i discorsi della storia con i percorsi della memoria e in cui si fa riferimento in modo più o meno esplicito a opere di d. del passato, ai maestri che le hanno tramandate e agli allievi che le hanno ereditate. Per altri ancora la questione più urgente da affrontare è il ripensamento dei concetti stessi di d. e coreografia e l’esplorazione di nuove soluzioni rappresentative che tendono a sconfinare nel campo della performance.
Danzare l’identità. – Un’opera paradigmatica della ricerca in corso attorno al tema dell’identità è zero degrees (2005), frutto della collaborazione tra i danzatori e coreografi Akram Khan (nato nel 1974 in Inghilterra da famiglia di origine bengalese), e Sidi Larbi Cherkaoui (nato ad Anversa nel 1976 da padre marocchino e madre fiamminga). Lo scultore Anthony Gormley (v.) ha firmato costumi e scenografia, composta da pochissimi elementi, mentre un quartetto d’archi e percussioni esegue dal vivo le musiche del compositore Nitin Sawhney (nato a Rochester nel 1964 da famiglia di origine indiana). Il nucleo tematico dello spettacolo consiste nel resoconto in tre episodi di un viaggio in treno compiuto da Khan in compagnia del cugino lungo il confine tra Bangla Desh e India. La narrazione dei fatti si alterna a sessioni danzate in cui Khan e Cherkaoui mescolano elementi di derivazione indiana e contemporanea. L’impianto coreografico è quello tipico del kathak, una tradizione coreutica diffusa nel Nord dell’India e in Bangla Desh e in cui convergono influenze hindu e musulmane di origine persiana. Nei loro virtuosismi tecnici e nell’esecuzione di gesti delle mani codificati (mudras), precisione, velocità e grazia sono al servizio di una spiccata musicalità che traduce in movimento i ritmi matematicamente complessi di cui è intessuta la partitura musicale. Due manichini, realizzati in tessuto flessibile dai calchi dei corpi dei due danzatori, fungono da testimoni silenziosi del racconto nonché da alter ego dei protagonisti che li spostano e trascinano per tutto lo spazio scenico. Kahn afferma che il grado zero (zero degrees) evocato dal titolo è quello delle zone di transizione delle nostre identità. In particolare l’episodio della perdita del passaporto funge da metafora dell’esistenza, in quanto possederlo o meno sancisce la nostra identità ufficiale e determina la nostra presenza o assenza per gli altri, oltre che l’appartenenza a dimensioni nazionali, etniche e culturali. L’episodio della scomparsa di un passeggero a bordo del treno e del ritrovamento finale di un corpo inerte fa riflettere, invece, sul passaggio dalla vita alla morte. Il faticoso attraversamento di questi due Paesi solleva infine questioni cruciali in merito all’identità diasporica, che da una prospettiva postcoloniale è pensata come l’esito di un legame complesso e in costante trasformazione tra più dimensioni culturali, linguistiche e/o religiose tutte parimenti fondanti e determinanti.
Il tema dell’identità è anche al centro di alcune opere del danzatore e coreografo Jérôme Bel (n. 1964), esponente di punta della d. concettuale francese. Bel è partito dal concetto di soggettivazione per dare agli artisti l’opportunità di dire qualcosa di sé, dei propri lavori e della propria idea di d. in una serie onomastica di spettacoli in cui il titolo coincide con il nome del/dei protagonista/i. In Véronique Doisneau (2004), commissionatogli dall’Opéra di Parigi, mette in scena un lungo monologo dell’omonima danzatrice, sujet, ovvero membro del corpo di ballo della compagnia e che solo occasionalmente interpreta ruoli minori da solista. Prossima al pensionamento, Doisneau racconta la sua carriera e la sua passione squarciando con pacata sincerità il velo che avvolge il mondo del balletto, e rivelando agli spettatori la dura realtà del lavoro di una ballerina, le sue frustrazioni, le fatiche e le delusioni. Questi momenti narrativi sono inframmezzati da dimostrazioni pratiche di brani che Doisneau ha interpretato nel corso della sua carriera, talvolta con gioia e passione, ma spesso sopraffatta dalla noia e dall’esasperazione, come nell’adagio del secondo atto del Lago dei cigni durante il quale la coreografia prevede che il corpo di ballo stia immobile a fare da contorno alle esibizioni virtuosistiche delle étoiles. Bel ha definito questo spettacolo come un documentario teatrale e coreografico che decostruisce provocatoriamente i meccanismi che regolano la presenza del performer e in particolare l’identità evanescente della ballerina accademica, e invita lo spettatore ad assumersi la responsabilità degli aspetti meno piacevoli che rendono possibile la rappresentazione scenica.
Storia e memoria della danza. – Molti degli artisti che lavorano attorno al tema della trasmissione della storia e della memoria della d. sono mossi dal desiderio di interrogare il passato e ripensare alle tradizioni coreutiche di cui sentono di essere eredi o dalle quali, al contrario, desiderano emanciparsi perché, così come sono riportate dalla storia ufficiale o tramandate oralmente dai ‘maestri’ risultano estranee. Nei loro spettacoli il processo di rimemorazione del passato si affianca spesso alla necessità di produrre una nuova documentazione storica per scrivere e riscrivere sulle scene una delle molte storie possibili della danza. Per stabilire un rapporto con il passato alcuni fanno ricorso a citazioni di opere omaggiandone il creatore e la sua poetica, evocando movenze degli interpreti o, al contrario, ridimensionandone se non rinnegandone i ruoli. Altri incastonano elementi di tecnica coreutica o sequenze
coreografiche provenienti da opere altrui in lavori che presentano al pubblico come radicalmente nuovi. In linea generale questi spettacoli tendono a rovesciare quanto è stato tramandato per via istituzionale e riportano in superficie pratiche e visioni della d. meno canoniche, arrivando a mettere in discussione il concetto stesso di originalità.
Per rendere omaggio a una celebre opera coreografica della modernità, Le jeune homme et la mort (1946) di Roland Petit, la coreografa spagnola Olga de Soto (n. 1970) ha creato un video-performance-documen ta rio dal titolo Histoire(s) (2004) frutto di lunghe riflessioni su chi designa la posterità dell’opera coreografica, su come si radica nella memoria collettiva un lavoro del passato e su come è possibile individuarne le tracce. De Soto ha tentato di ricostruire lo spettacolo a partire dai ricordi del pubblico che aveva assistito alla ‘prima’ grazie alle interviste fatte a otto spettatori dell’epoca di età compresa tra gli 80 e i 90 anni. L’eredità del balletto di Petit è restituita così attraverso i ricordi e le emozioni, ma anche attraverso i vuoti di memoria, gli oblii e le rimozioni che in molti punti non coincidono tra loro e che contraddicono in parte anche la versione del pezzo tramandata ufficialmente, sfumando le certezze della storia. In scena, de Soto e un danzatore spostano di continuo alcuni schermi su cui è proiettato il video, risultato da un ‘montaggio coreografico’ delle interviste, mentre il celebre brano musicale di Johann Sebastian Bach, utilizzato nella versione originale, è inserito nelle pause tra un ricordo e l’altro. Le parole, le intonazioni e i volti funzionano come elementi metonimici della dimensione sensoriale, affettiva ed emotiva dell’esperienza danzata, volutamente assente in quest’opera per rivivere unicamente nell’immaginazione dello spettatore.
Il performer e coreografo tedesco Martin Nachbar (n. 1971) ha firmato un pezzo, Urheben Aufheben (2008) che continua a stimolare dibattiti su questi temi anche grazie al fatto che si trasforma a ogni riallestimento. I due verbi che compongono il titolo alludono al concetto di autorialità e all’idea di raccogliere, ma anche di sospendere qualcosa, e sono riferiti al senso dell’operazione di Nachbar, ovvero recuperare un pezzo del passato rimettendone in questione l’autorialità. Nachbar pensa alla coreografia come a un sistema di archiviazione corporea e dunque a un processo che non si limita a custodire, ma che nell’agire modifica rivivificandola un’opera. In Urheben Aufheben parte dal desiderio di imparare e poi rimettere in scena un pezzo della celebre danzatrice e coreografa tedesca Dore Hoyer, morta suicida a causa delle difficoltà incontrate nel secondo dopoguerra dalla sua arte e più in generale dalla tradizione da cui proveniva, l’Ausdruckstanz (d. di espressione). Utilizzando una lavagna mobile per fissare alcune parole chiave e riassumere schematicamente le traiettorie del suo pensiero, Nachbar struttura il pezzo come una conferenza-dimostrazione in cui racconta al pubblico le sue esplorazioni stimolate dalla visione di Affectos humanos, il filmato del 1967 del ciclo di cinque coreografie di Hoyer create nel 1962, e, in seguito, dall’incontro, anche questo ripreso in video, con la sua assistente, ufficialmente autorizzata a trasmetterne il patrimonio. La proiezione di questi filmati si affianca ai brani che Nachbar interpreta personalmente e sono funzionali a comunicare la distanza critica che egli pone tra sé e l’opera che sta rivisitando. Allo stesso scopo, sottolinea a parole la sua totale estraneità a quella tecnica coreutica e il fatto che le sue caratteristiche fisiche sono inadatte a incorporare i pezzi di Hoyer. Così facendo disattende le aspettative del pubblico che pensava di assistere a una ricostruzione filologica. Al contrario, Nachbar pone l’accento sull’approccio soggettivo alle ricerche d’archivio e ai molti modi possibili per dialogare con il passato.
Sconfinamenti. – Fin dagli anni Sessanta del Novecento la collaborazione tra esponenti delle arti visive e performative ha rimesso in discussione le specificità dei singoli linguaggi artistici, dei concetti di d. e coreografia, e dei ruoli e delle competenze tecniche tradizionalmente richieste a un artista. Affiancando documenti relativi a performance, happenings e opere coreografiche che hanno fatto storia a committenze ad artisti contemporanei, la mostra intitolata Move: choreographing you, allestita nel 2011 presso la Hayward Gallery di Londra, ha fatto il punto sulla storia degli sconfinamenti tra queste dimensioni della rappresentazione e offerto nuove chiavi di lettura per gli esempi più recenti di tale tendenza. Tra questi spiccano, per la complessità concettuale, le sperimentazioni del coreografo statunitense William Forsythe (n. 1949) che, dopo avere diretto con successo il Ballett Frankfurt per circa tre decenni, nel 2005 ha inaugurato una nuova fase della sua carriera fondando The Forsythe Company. Si tratta di una struttura agile con 16 danzatori, pensata per favorire le collaborazioni con altri artisti e produrre lavori che spaziano dalla performance alle installazioni, dal film ai media. Forsythe, da un lato, si interroga su come possiamo interagire fisicamente con l’ambiente circostante usando i nostri corpi come strumento per esperire e apprendere, e dall’altro, partendo dal principio che d. e coreografia sono due pratiche distinte e che la coreografia sia indipendente dal corpo umano, analizza alcuni principi coreografici anche in assenza di un interprete per rimettere in discussione i concetti di corpo, spazio e movimento. Allo scopo ha creato una serie di ‘oggetti coreografici’, ovvero dei modelli di potenziali transizioni da uno stato all’altro in uno spazio qualsiasi. Nowhere and everywhere at the same time (2005) è stato presentato per la prima volta in un edificio abbandonato della High Line di New York, e successivamente riproposto in spazi diversi tra cui la Turbine Hall della Tate Modern di Londra (2009), l’Arsenale di Venezia in occasione dell’VIII Festival internazionale di d. contemporanea di Venezia (2012) e, in una nuova versione, presso il Folkwang Museum di Essen (2013). Questa installazione coreografica è costituita da 40 pendoli appesi a sottili fili metallici oscillanti sotto la spinta dei movimenti del danzatore Brock Labrenz, che esplora la forza di gravità e le potenzialità cinetiche di questa sorta di labirinto in costante trasformazione e che richiede complesse strategie di pensiero e di azione.
Gli sconfinamenti da un linguaggio artistico all’altro e l’esplorazione del concetto di coreografia sono tra gli stimoli principali anche per Maria Ribot (n. 1962), detta La Ribot, danzatrice e coreografa spagnola residente in Svizzera. Per ogni nuova fase progettuale La Ribot si dà nuove regole e individua nuovi materiali con cui lavorare o oggetti da trasformare in uno spettacolo di danza. In Walk the chair (2010), un’opera concepita proprio per la mostra Move: choreographing you, le protagoniste sono una cinquantina di sedie pieghevoli di legno disposte in tutto lo spazio e sulle quali sono incise una serie di citazioni di autori disparati, da Isadora Duncan a Roland Barthes. Il tema che accomuna queste frasi è il movimento e, più indirettamente, la nozione di partecipazione e il ruolo del pubblico. Le sedie e le citazioni stimolano il visitatore a cimentarsi in un preciso esercizio coreografico: per decifrare le citazioni riportate sulla seduta, sullo schienale oppure sui piedi delle sedie, ciascuno può scegliere di spostarle, aprirle, girarle e capovolgerle e, infine, trasportarle altrove. La Ribot definisce queste sedie dei tesori perché la ditta madrilena che le fabbricava non esiste più e perché le ha già utilizzate in numerose occasioni facendole diventare una presenza ricorrente e familiare. La posa in cui si presenta al pubblico, ovvero seduta chinata in avanti, con le gambe tese e la testa rivolta verso il basso, cita infatti Hacia donde volver los ojos (1994), una delle sue celebri Piezas distinguidas. A riprova dei molti punti di tangenza tra i percorsi presentati fin qui va ricordato che Walk the chair nasce anche con l’intento di citare esplicitamente le molte opere coreografiche e installazioni d’arte del passato in cui le sedie hanno avuto un ruolo cruciale come, per es., il celebre Café Müller (1978) di Pina Bausch. Ma mentre nel pezzo di Bausch le sedie erano parte di una scenografia agìta dai danzatori perché diventasse un elemento performativo, arrivando a invadere e trasformare lo spazio scenico, qui la loro presenza è percepita dai visitatori come una sfida che li porta a essere gli inconsapevoli protagonisti dell’evento.
Lungo queste e altre direzioni le ricerche condotte dai danzatori e coreografi contemporanei proseguono intessendo un dialogo attivo e stimolante con la realtà di cui so no espressione e che al tempo stesso arricchiscono e mettono in discussione.
Bibliografia: Corpo sottile. Uno sguardo sulla nuova coreografia europea, a cura di S. Fanti, Milano 2003; A. Lepecki, Exhausting dance. Performance and the politics of movement, London-New York 2006; G. Siegmund, Abwesenheit. Eine performative Ästhetik des Tanzes. William Forsythe, Jérôme Bel, Xavier Le Roy, Meg Stuart, Bielefeld 2006; Knowledge in motion. Perspectives of artistic and scientific research in dance, ed. S. Gehm, P. Husemann, K. von Wilcke, Bielefeld 2007; Planes of composition. Dance, theory and the global, ed. A. Lepecki, J. Joy, London-New York 2009; Move: choreographing you. Art and dance since the 1960s, ed. S. Rosenthal, London-Cambridge (Mass.) 2011. Si veda inoltre la collana Dance for word - Dance forward. Interviste sulla coreografia contemporanea, curata da S. Franco, Palermo 2004-2011.