Dante
Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio, o giugno, 1265, l’anno prima della battaglia di Benevento, che segna la distruzione della parte ghibellina in Italia. Di famiglia guelfa, cresce in anni segnati da dinamismo economico, crescita demografica e urbanistica, espansione mercantile di Firenze in Europa e nel Mediterraneo, forte sviluppo della cultura volgare. Si forma alla scuola del notaio Brunetto Latini, di cui criticò poi il municipalismo linguistico, e compie il suo apprendistato lirico sotto la guida del suo ‘primo amico’ Guido Cavalcanti. La sua prima opera pubblicata, nel 1294 circa, è la Vita nova, un prosimetro che, raccogliendo liriche d’amore e organizzandole entro un tessuto narrativo ed esplicativo in prosa, trasfigura l’amore per Beatrice, abbandonando la matrice cortese, in un’esperienza sublimante, decisiva per tutta la storia letteraria del poeta. Ma pochi anni più tardi, con le canzoni ‘petrose’, Dante crea un’esperienza linguistica e stilistica ad essa antitetica.
Nel 1295 entra in politica, in una fase di crescente tensione con il papa Bonifacio VIII. Si schiera coi guelfi bianchi, che tentano di difendere l’autonomia del Comune dalle ingerenze papali. Ma nel novembre 1301 Carlo di Valois, inviato dal papa a Firenze come ‘paciere’, consegna il potere ai guelfi neri. Dante viene condannato e bandito nel gennaio, e poi definitivamente nel marzo, 1302, e si trova in esilio a far fronte comune con gli antichi nemici ghibellini fuorusciti. Trascorre il 1302 e l’inizio del 1303 fra Arezzo, il Casentino, e la Romagna. Fra il marzo 1303 e il giugno 1304 è a Verona, ospite di Bartolomeo della Scala.
In questi due anni fa larga esperienza di luoghi, costumi, reggimenti politici e parlate padane, fra Romagna, Lombardia e Veneto. Forse prima della decisiva sconfitta della Lastra, 20 luglio 1304, si distacca da quella che definì «la compagnia malvagia e scempia» dei fuorusciti, e fa «parte per sé stesso» (Par. XVII, 62 e 69). Probabilmente (Tavoni: in corso di stampa) si trasferisce allora a Bologna, dove era al potere un regime guelfo bianco, e dove è da ritenere che abbia composto il De vulgari eloquentia. Da Bologna fu probabilmente costretto a fuggire, lasciando interrotto il trattato, all’inizio del 1306, con il rovesciamento del regime cittadino a vantaggio dei neri.
Nell’ottobre 1306 è in Lunigiana presso il marchese Moroello Malaspina, capo dei guelfi neri toscani. Compone l’Inferno (che infatti è un libro essenzialmente guelfo, oltre che essenzialmente toscano) forse nel 1307-1308, fra Lunigiana, Casentino e Lucca. Può darsi che si collochi attorno al 1309 il soggiorno parigino di cui parla Boccaccio nel Trattatello.
Da Parigi potrebbe essere rientrato alla notizia della discesa in Italia dell’imperatore Enrico VII, che potrebbe aver incontrato a Milano nel gennaio 1311, e a sostegno del quale scrive le Epistole V-VII. Dante è di nuovo ‘imperiale’: quella rigenerazione dell’Italia intorno a una nuova Curia, sul modello di quella benemerita di Federico II, che nel De vulgari eloquentia era presentata come una prospettiva utopica, essenzialmente culturale, ora sembra diventata, di colpo, una prospettiva politica reale e immediata. Ma Enrico VII vaga per l’Italia in modo inconcludente e nell’agosto 1313 muore.
Nei due anni e mezzo della sua spedizione in Italia Dante soggiorna probabilmente a Pisa, roccaforte ghibellina in Toscana, e presso i conti Guidi, leali all’imperatore, in Casentino. Sembrerebbe verosimile che la Monarchia, il trattato che teorizza l’autonomia e parità del potere imperiale rispetto a quello papale, sia stato scritto in questo periodo, piuttosto che nel 1317 o 1318. Il Purgatorio, composto in questi anni, è segnato da un orizzonte più ampio, italiano ed europeo, e anche la lingua riflette questa diversa visuale.
Dopo la morte di Enrico VII Dante abbandona definitivamente la Toscana e ripara a Verona presso Cangrande della Scala, vicario imperiale in Italia, dove pubblica, probabilmente nel 1314, le prime due cantiche della Commedia e si dedica alla composizione della terza. Il Paradiso, distaccato dalla passione municipale dell’Inferno, e anche ormai da qualunque speranza politica, si estende in una dimensione teologica che ne cambia anche profondamente la lingua.
Forse nel 1318 o 1319 Dante lascia Verona a si trasferisce a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta, dove porta a termine il Paradiso e intrattiene con il maestro bolognese Giovanni del Virgilio la corrispondenza poetica latina delle Egloghe. Muore a Ravenna nel luglio, o agosto, 1321.
Dante merita pienamente il titolo di ‘padre’ della lingua italiana. Anzitutto perché in tutta la sua opera, ma soprattutto nella Commedia, ha talmente potenziato la giovane lingua italiana da lasciare in eredità agli scrittori che sono venuti dopo di lui uno strumento che permetteva di parlare di tutto, mentre, come l’aveva ricevuta lui dai predecessori, era capace di parlare solo di poche cose. È stato calcolato che il 90% del lessico fondamentale dell’italiano in uso oggi (cioè il 90% delle 2000 parole più frequenti, che a loro volta costituiscono il 90% di tutto ciò che si dice, si legge o si scrive ogni giorno) è già nella Commedia. Ma, oltre al lessico fondamentale, Dante ha ‘conquistato’ alla lingua italiana moltissime parole specialistiche, dalla filosofia all’astronomia alla morale, ecc., costituendo la base del lessico intellettuale. E ha talmente strutturato e irrobustito la sintassi, rendendola capace di argomentazioni complesse, da gettare le fondamenta perché un giorno l’italiano potesse sostituire il latino come lingua di cultura.
Ma Dante è il ‘padre’ della lingua italiana anche nel senso che, dopo di lui, la lingua italiana, la lingua letteraria di tutti gli italiani, poteva essere solo il fiorentino. È stato Dante, con la Commedia, a scrivere un’opera talmente superiore a tutto quanto era stato scritto fino ad allora in un qualunque volgare italiano, da ipotecare una volta per tutte il futuro della nostra lingua letteraria.
La fortuna della Commedia fu subito immensa. A dieci anni dalla morte dell’autore la produzione in serie di copie del poema, da parte di officine scrittorie organizzate come industrie, raggiunse livelli sconosciuti. Gli oltre 800 manoscritti superstiti parlano di un successo unico nella storia del libro prima dell’invenzione della stampa.
Infine, Dante fu il primo a teorizzare la lingua volgare, nel De vulgari eloquentia e nel primo libro del Convivio, con una lucidità senza pari né nella cultura italiana né in altre. Il suo influsso sulla lingua letteraria posteriore, dal Trecento a oggi, è stato imprescindibile, a cominciare da quello esercitato su ➔ Francesco Petrarca (ancorché da questi negato: Santagata 1969; Trovato 1979), cioè sull’altro padre fondatore della letteratura italiana, che un famoso saggio di Contini (1970b) pose come iniziatore di una linea linguistico-letteraria alternativa a Dante, l’una e l’altra perduranti fino al Novecento: Dante iniziatore della linea realistica, plurilinguistica, sperimentale, espressionistica; Petrarca iniziatore della linea antirealistica, monolinguistica, retorica, classicistica. Ma Dante non fu mai veramente imitato, perché aveva scritto un’opera assolutamente atipica, inclassificabile e quindi inimitabile. Uno stuolo di imitatori invece avrebbe riprodotto indefinitamente il canzoniere di Petrarca.
L’endemico carattere retorico, antirealistico e antitecnico della ➔ lingua letteraria italiana dipende dal prevalere del modello petrarchesco su quello dantesco, in sintonia con il tipo di letterato che si riproduce nella civiltà delle corti e perdura per tutti i secoli della sudditanza italiana alle potenze europee, Francia e Spagna, fino all’Illuminismo.
Dante scrive in fiorentino, dall’inizio alla fine della sua carriera: in altri termini, il sistema fonologico, morfologico, sintattico che si desume dalle sue opere – pur con le cautele imposte dalla mancanza di autografi e dalla varia tradizione di esse (cfr. § 4) – coincide sostanzialmente con il fiorentino documentario della seconda metà del Duecento - inizi Trecento (Ambrosini et al. 1978; Baldelli 1978; Manni 2003: 79-184 e 337-71; cfr. anche la base dati DanteWeb).
Questa fondamentale coincidenza è alterata, nella poesia giovanile, dall’influsso della lingua poetica, la cui tradizione si era formata a partire dalla scuola siciliana, o meglio a partire dalla toscanizzazione dei poeti siciliani attestata dai tre canzonieri superstiti della poesia duecentesca (cioè i mss. V e P, fiorentini, e L, pisano: cfr. I Canzonieri 2000-2001). Così, per es., nelle liriche più arcaiche troviamo i tipi verbali siciliani aggio «ho» e saccio «so» e provenzalismi come le serie in -ore (dolzore, riccore), -aggio (coraggio «opinione», paraggio «pari»), -anza (dottanza «timore», orranza «onore», sicuranza, ecc.).
Sicilianismi e provenzalismi, che pullulavano nella poesia dei siculo-toscani, e particolarmente del caposcuola detestato da Dante, Guittone d’Arezzo, si riducono drasticamente nella poesia di Dante stilnovista e nella Vita nova, lasciando una lingua più unitaria e fusa, e più fiorentina. Nella lirica della Vita nova dominano le parole tipiche dello Stilnovo (Boyde 1979: 203-261): i sostantivi donna, amore, core, occhi, pietà, anima, mente, spirito, cielo, morte, pensiero, viso; gli aggettivi gentile, dolente, novo, dolce, ecc., cioè il tipo di parole che nel De vulgari eloquentia (II, vii, 2-5) Dante definì pexa «pettinate», per la loro scorrevolezza fonica, come è ben rappresentato in una canzone come Donne ch’avete intelletto d’amore o nel famosissimo sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, a proposito del quale Contini (1970a) mise in guardia dall’illusione di capire immediatamente, come se il sonetto «fosse stato scritto ieri», indotta appunto da parole il cui significato sembra trasparente ma non lo è, perché in sette secoli è cambiato: gentile significa in realtà «nobile»; onesta significa «decorosa, composta», in senso estetico; e pare significa «appare», con forte impatto visivo.
Nella tenzone con Forese Donati, che si inserisce nel filone comico-realistico inaugurato da Rustico Filippi, si sciorina invece lessico concreto e basso (foro, stecco, uncino, ecc.), doppi sensi triviali (nido «organo sessuale femminile»), insomma uno sperimentalismo di segno antitetico a quello della Vita nova. E nelle rime ‘petrose’, influenzate dal trobar clus di Arnaut Daniel, uno sperimentalismo ancora diverso, e cioè ‘tragico’, ma aspro e dissonante, come nell’incipit programmatico della canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro.
Nelle rime dottrinarie, poi, composte parte a Firenze parte nei primi anni dell’esilio, e destinate a costituire la base, con 14 canzoni commentate in altrettanti libri in prosa, del Convivio, operazione di ‘filosofia laica’ in volgare, Dante persegue un programma di ampliamento lessicale e rafforzamento sintattico dell’organismo poetico. Abbandonato il lessico rarefatto della dulcedo stilnovistica, la poesia filosofica richiede una «rima aspra e sottile», tipo: «Questo è, secondo che l’Etica dice, / un abito eligente / lo qual dimora in mezzo solamente», ecc.
Dante vuole rendere la stanza di canzone capace di sviluppare una vera argomentazione filosofica. Boyde (1979: 203-261) ha misurato l’incremento di complessità sintattica che caratterizza le poesie posteriori alla Vita nova, e il miglior autocommento a questa tensione poetico-filosofica che si traduce in profondità e ampiezza sintattica è il brano del De vulgari eloquentia (II, vi, 7) dedicato alla «supprema constructio», per formare la quale Dante invoca l’esempio non solo dei grandi poeti ‘tragici’ latini, ma anche dei più alti prosatori latini.
La prosa del Convivio, rispetto a quella «fervida e passionata» della giovanile Vita nova, nella quale Dante «molte cose, quasi come sognando, già vedea», è «temperata e virile» (Conv. I, 1, 16): abbandona il periodare narrativo-contemplativo per adottare una testualità e una sintassi argomentative, di stampo sillogistico, aristotelico-scolastico. Il lessico del Convivio, pieno di latinismi scientifici, si apre alle più varie discipline, dalla geometria (triangulo, quadrangulo, pentangulo, ortogonio e angulo rettilineo), alla medicina (omori venenosi contrarii, patire «digerire», febricante), all’astronomia (eclipsi, e ricalcando in volgare le spiegazioni etimologiche di termini greci: «lo quale chiamano molti Cristallino, cioè diafano o vero tutto trasparente», o nel «cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso»), alla filosofia (abito, o la coppia ragione «principio esplicativo generale» / cagione «causa effettiva») (Mazzucchi 1995).
Nella sintassi Segre ha notato l’altissima frequenza di periodi a progressione ascendente, che iniziano con una congiunzione seguita immediatamente da una proposizione subordinata prolettica, a cui ne seguono altre, che accumulano ragioni e circostanze logicamente accessorie, ‘ascendendo’ verso la principale collocata in posizione finale: «una specie di festone di cause ed effetti, che è la riproduzione nella sintassi del processo dimostrativo del sillogismo» (Segre 1974: 217). A volte, raggiunto l’apice con la principale, il periodo prosegue con altre subordinate, che equilibrano il movimento ascendente della prima parte con quello discendente della seconda.
Di problematica collocazione nel ‘percorso linguistico’ di Dante sono il Fiore, rielaborazione del Roman de la rose, e il connesso Detto d’Amore, testi anonimi autorevolmente attribuitigli da Contini, che tende a considerarli opera giovanile, e che esibiscono, innestati su base fonomorfologica fiorentina, uno straripante numero di francesismi: «Nel giardin me n’andai molto gicchito [umile] / per dotta [paura] di misfar [contravvenire] a quel crudele» (Vanossi 1979; Barański & Bayde 1997; Cella 2003).
La Commedia segna una discontinuità con le opere precedenti rispetto alla teoria degli stili (cfr. § 6), perché Dante abbraccia ora una radicale idea di commistione degli stili e dei registri linguistici. L’amplissima escursione di contenuti, di sentimenti, di tipi di discorso che convivono nel poema «a cui ha posto mano e cielo e terra» impongono di mettere a frutto tutte le risorse linguistiche e stilistiche dell’artista maturo. Il risultato è una lingua che «appare quasi un miracolo inconcepibile»; «si arriva alla convinzione che quest’uomo abbia con la sua lingua riscoperto il mondo» (Auerbach 1956).
Per darne un minimo assaggio, mettiamo a confronto due momenti antitetici: il canto tipicamente ‘comico’ dei barattieri (Inf. XX) e il linguaggio di Beatrice nel Paradiso. Nel primo troviamo un lessico estremamente concreto e realistico, incisivo ed espressivo: prima il lessico tecnico della manutenzione delle navi nei cantieri di Venezia (arzanà, terzeruolo, artimon, con le azioni del rimpalmare, ristoppare, rintoppare); poi il lessico delle parti del corpo, di per sé anti-liriche: l’omero e l’anche del diavolo, i piè e il nerbo del dannato; poi il lessico della cucina, con i cuoci e i lor vassalli, gli inservienti, che «fanno attuffare in mezzo la caldaia / la carne con li uncin», con esibizione di lessico materiale in funzione degradante ed espressionistica. Con l’accompagnamento sonoro dei nessi consonantici ‘folti’ (cfr. sopra) sgagliarda, ghermito, addentar, e le parole in rima graffi : raffi «uncini» : accaffi «arraffi» (verbo dialettale fiorentino); balli : vassalli «sguatteri» : galli «galleggi».
Il linguaggio di Beatrice, all’opposto, è fatto di lessico immateriale, luminoso: nomi che designano l’animo e i suoi moti (animo, mente, pensier, intelletto, affetto, amore, disire, podere); il volto umano, le sue parti ‘nobili’ e le sue espressioni: viso nel senso di «volto», volto, occhi, sorriso; la luce e i suoi fenomeni: luce, lume, specchio, fulgore e aspetto, vista, intento «obiettivo dello sguardo», viso nel senso di «vista»; bellezza e piacere nel senso di «bellezza»: il piacere etterno, cioè la «bellezza di Dio». Lunghissimi brani sono dedicati a monologhi di spiegazione cosmologica, etica, filosofica e teologica. All’opposto, l’impressionante realismo della Commedia è dato anche dalla capacità mimetica di riprodurre nel parlato dei personaggi la loro personalità; mimesi che si esplica soprattutto ma non solo nell’Inferno.
L’onnipotenza linguistica della Commedia è ciò che fonda la tradizione letteraria italiana su basi incomparabilmente più ampie, forti e profonde di ogni altra tradizione letteraria nazionale. Il seguito della storia linguistico-letteraria italiana (cfr. § 2) ridimensionò poi moltissimo la portata di questo exploit iniziale.
Mentre il lessico, la sintassi e in parte la morfologia delle opere volgari di Dante sono sostanzialmente sicure, la veste grafico-fonetica e in qualche misura morfologica è problematica, perché non ci è rimasto un solo autografo di Dante e la tradizione delle sue opere è molto varia, vasta e accidentata (Ciociola 2001), e dall’esilio in poi si è costituita in ambienti settentrionali che hanno ibridato la presumibile veste linguistica degli originali in modi difficilmente districabili.
Sulla lingua della Vita nova e della Commedia si sono avute negli ultimi quindici anni accese discussioni. Michele Barbi, nella sua magistrale edizione critica della Vita nova (1907; 19322), si era attenuto alla veste fonetica dei testimoni toscani giudicati più attendibili e l’aveva resa in ortografia moderna, perché, ignorando quale fosse l’usus scribendi di Dante, non aveva ritenuto le varie grafie dei copisti meritevoli di essere conservate. L’edizione curata da Guglielmo Gorni nel 1996 alterò profondamente questi principi e questo assetto, attirandosi forti critiche sia di metodo (Trovato 2000; Carrai 2007) sia di opportunità culturale (cfr. la discussione con M. Santagata in «Rivista dei libri» 3 marzo 1977, pp. 14-17), per lo schermo di grafie latineggianti o arcaiche (ymaginatione, puncto, scripte) frapposto al lettore comune.
Della Commedia Giorgio Petrocchi aveva dato un’edizione «secondo l’antica vulgata» (19942), cioè sulla base di 27 mss. anteriori alla sistemazione editoriale data al testo da Boccaccio, che risultavano divisi in una famiglia α fiorentina e una famiglia β settentrionale; e quanto alla veste linguistica aveva deciso, sulla linea del Barbi, di dare «una fiducia sempre ‘critica’ e ragguagliata al vario comportamento degli altri testi» (ivi, vol. 1°, p. 416) al più antico ms. fiorentino conservato, il ms. Trivulziano 1080, datato 1337; il quale risolveva anche di per sé il problema dell’ammodernamento grafico, tramandando «un testo leggibilissimo» (p. 420).
Se l’edizione curata da Antonio Lanza (1996) incrementa a dismisura tale fiducia, presentando un «testo critico secondo i più antichi manoscritti fiorentini», l’edizione di Federico Sanguineti (2001) riduce i mss. utili alla costituzione del testo a soli 7, che restano divisi nella famiglia α fiorentina e nella famiglia β settentrionale, ma in cui l’unico rappresentante di β è il ms. Urbinate latino 366 della Biblioteca Vaticana. Esso dunque assurge a un credito testuale altissimo, rappresentando da solo metà della tradizione; e Sanguineti lo assume anche, benché sia emiliano o emiliano-romagnolo, come ms. di riferimento per il colorito linguistico, «espungendone i tratti antifiorentini imputabili al copista». Per quanto, con questa operazione, non si intenda attingere l’irrecuperabile originale, ma solo lo stato più alto della tradizione esistente, un testo che nel primo canto presenta scempiamenti sistematici delle doppie (camin, smarita, rinova, abandonai, matino, aquista, s’atrista, s’amoglia, trarotti, alor), doppie ipercorrette (doppo), e protonica per i (redir, delitoso), venesse, luoco, so’ «sotto», ha suscitato forti perplessità. Anche su questo aspetto si attendono i risultati del cantiere aperto da Trovato 2007.
Data la mancanza di autografi, occorre tralasciare ogni illazione circa la grafia, e per quanto riguarda la veste fonomorfologica ricordare la necessità di «distinguere tra ciò che, essendo garantito dalla rima, risale di sicuro all’originale e ciò che è solo verosimile o probabile, perché dipende dalle scelte del moderno editore, operate in base a ipotesi, magari ben ragionate, ma pur sempre ipotesi» (Stussi 2001: 231).
Ci limiteremo quindi a osservare che l’adozione del sistema fonomorfologico fiorentino si può considerare nell’insieme sicura, a parte l’influsso della lingua poetica nella lirica soprattutto giovanile, nelle opere scritte prima dell’esilio (cfr. § 3); e che ciò vale ancora a maggior ragione per la Commedia, nel senso di un’accettazione piena e senza remore del linguaggio naturale, fatta salva la piena libertà di alternare allotropi popolari e dotti; ma che resta ben difficilmente comprensibile se qualcuno dei numerosissimi tratti padani che, per ovvia ibridazione, pervadono la tradizione settentrionale del poema possa eventualmente essere originario.
L’esigenza di una sintassi complessa diventa pressante nella composizione delle rime dottrinarie, come riflesso nella teorizzazione del De vulgari eloquentia (II, vi), e nella prosa del Convivio. La Commedia mette pienamente a frutto queste esperienze (Schwarze 1970; Ambrosini et al. 1978) e dispiega una sintassi di ampiezza e complessità crescenti dalla prima alla terza cantica: l’Inferno è la cantica più drammatica, intessuta di dialoghi concitati, e lascia quindi poco spazio all’argomentazione distesa; questa si amplia nel Purgatorio, traducendosi in un’estensione ‘orizzontale’, paratattica, del periodo, e nel Paradiso, traducendosi in uno sviluppo ‘verticale’, ipotattico: un doppio ampliamento che arriva a conferire al volgare pari capacità sintattica del latino.
L’intera Commedia e parte del Convivio sono interrogabili per tipi di proposizione, gradi di subordinazione, caratterizzazione sintattica dei personaggi, oltre che per marche grammaticali, nel sito DanteWeb.
Sarà apparso evidente nel ‘percorso linguistico’ dell’autore (§ 3) l’incessante sperimentalismo stilistico di Dante. Al culmine di tutte le esperienze anteriori alla Commedia sta la riflessione metalinguistica e metastilistica del De vulgari eloquentia. Il trattato, strettamente solidale al Convivio, intende valorizzare la poesia dottrinaria di Dante e, alle spalle di questa, tutta la tradizione lirica ‘alta’, dalla scuola poetica siciliana ai bolognesi guidati da Guido Guinizelli agli stilnovisti fiorentino-pistoiesi (Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia) culminanti in Dante stesso. Questi doctores eloquentes, che distaccandosi dai loro volgari municipali hanno attinto il volgare illustre, sono l’avanguardia della lingua italiana che un giorno sarebbe diventata la lingua di una rinata curia imperiale, cioè lo strumento e il simbolo della rigenerazione civile e politica dell’Italia.
Questa teoria, con la quale Dante intende convertire la propria eccellenza nella lirica volgare in titolo di merito politico, punta tutto sul volgare più alto, definito illustre (cioè che illumina i volgari inferiori), cardinale (cioè che guida i volgari inferiori come il cardine guida il movimento della porta), aulico (cioè proprio del palazzo dell’imperatore) e curiale (cioè proprio dell’insieme di persone e funzioni che incarnano il governo intorno all’imperatore). E punta tutto sullo stile più alto, detto tragico, in contrapposizione allo stile medio-basso, detto comico: una coppia di termini che arriva a cristallizzarsi nell’età di Dante al termine di un lungo percorso iniziato in età imperiale con l’abbandono delle rappresentazioni teatrali delle tragedie latine e la loro sostituzione con declamationes da parte di poeti, nelle quali dunque confluivano come in un unico genere tragedie e poemi epici. Il De vulgari eloquentia poi pone un terzo stile, quello elegiaco, come il più basso, problematicamente definendolo, non in termini formali ma tematici, come «stile degli infelici»: II, iv, 5-6).
Il De vulgari eloquentia, dunque, si pone all’interno della dottrina classica e medievale della separazione degli stili: Dante prescrive che il volgare illustre, lo stile tragico, e il genere metrico più alto, la canzone, debbano essere riservati ai tre magnalia, gli argomenti sommi che soli sono degni di essi (II, ii, 7-8): cioè la salus (poesia epica), la venus (poesia d’amore), la virtus (poesia dottrinaria).
Poco dopo aver abbandonato in tronco il De vulgari eloquentia Dante si getta nella composizione del poema, che poggia su fondamenti teorici impliciti opposti: non la separazione ma la commistione degli stili. Questa disposizione mentale è la condizione del suo straordinario realismo linguistico, della sua ricettività a 360 gradi, del suo saper trovare le parole per aderire, con la messa a fuoco più nitida, a qualunque piega della fenomenologia del reale.
Perché egli abbia chiamato il suo poema comedìa – in opposizione alla tragedìa di Virgilio: «... e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro» (Inf. XVI, 128); «... e così ’l canta / l’alta mia tragedìa in alcun loco» (Inf. XX, 113); «Così di ponte in ponte, altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura» (Inf. XXI, 2) – risultò ostico ai contemporanei. Una spiegazione possibile è che comico abbia un senso sostanzialmente residuale: tutto ciò che non è tragico (Barański 1993). Un’altra più specifica è che comico includa il senso di satirico, cioè il senso, molto calzante con la zona dell’Inferno in cui ricorre la parola, di poesia militante, denuncia nominativa, al modo di Orazio, Persio e Giovenale, delle colpe dei potenti (Tavoni 1998). Sembra certo comunque che comedìa costituisca una indicazione di genere del poema, non il suo titolo, così come tragedìa non è il titolo dell’Eneide (Casadei 2009).
Conviene concentrarsi sul lessico della Commedia, che ha esercitato un influsso sulla storia della lingua italiana incommensurabile con quello delle opere precedenti (circa i dantismi, cfr. anche supra, scheda 1).
La Commedia si apre, senza remore derivanti da pregiudizi retorici, al lessico fiorentino quotidiano e popolare, esibendo parole che il De vulgari eloquentia declassava come «puerili» (mamma e babbo), come «selvatiche» (greggia), come «scivolose» e «squallide» (femina e corpo), come «municipali» (manicare «mangiare» e introcque «intanto»). Parole basse, plebee, idiomatiche, come grattare, porcile, sterco, tigna; oscene come puttana, merda, fiche; e accusate in rima a scopo espressivo come incrocicchia : nicchia : picchia, scuffa : muffa : zuffa, si concentrano nell’Inferno, e soprattutto in Malebolge, la zona di massima comicità del poema; ma ancora nel XXVII del Paradiso S. Pietro inveisce contro il suo successore che «fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza» (vv. 25-26).
Al polo opposto, nella lingua della Commedia entrano molti ➔ latinismi, che raggiungono il massimo dispiegamento nel Paradiso, in corrispondenza delle tematiche filosofiche e teologiche, ma pervadono anche l’Inferno, dal «secreto calle» di memoria virgiliana del X canto fino al basso Inferno, messe in rilievo in rime espressioniste con parole quotidiane come azzurro : curro (latinismo per «carro») : burro, sepe «siepe» : epe (latinismo per «fegato, addome») : pepe; mentre nel Paradiso abbiamo rime latineggianti compattamente ‘alte’, come colubro «serpente» : rubro «rosso» : delubro «tempio». Un aspetto particolare è rappresentato dalle parole rimaste nell’uso comune in italiano moderno con un significato indebolito, mentre Dante le usa in un senso molto più forte e fisico, vicino al valore originario che avevano in latino, come pare (già visto al § 3) «appare», affetto «passione», molesto «estremamente gravoso, insopportabile», offendere, in cui è ancora vivo il valore etimologico di «urtare contro, colpire» (Tavoni 2001).
Anche le parole scientifiche, che avevano fatto la loro apparizione nel Convivio, dilagano, dall’astronomia (emisperio, epiciclo, meridiano, orbita, plenilunio, ecc.) alla geometria (circunferenza, quadrare), alla medicina (complessione, idropico, oppilazione, quartana). Un grecismo dottissimo come tetragono è entrato nell’uso proverbiale a partire dall’espressione «tetragono ai colpi di fortuna», e questo è uno dei numerosi esempi della forza con cui la Commedia ha impresso una circolazione generale alle voci delle più varie provenienze in essa confluite. E non solo grecismi come archimandrita, baràtro (anche questo entrato nell’uso comune, con spostamento dell’accento), ma anche ➔ arabismi, desunti dalle traduzioni scientifiche latine, come alchìmia, cenìt «zenit».
C’è poi, accanto ai latinismi, l’altro grande serbatoio: i gallicismi. Le formazioni poetiche, di origine provenzale-siciliana, che dopo gli esordi giovanili erano state espunte dalla poesia stilnovistica, ricompaiono in forze nell’onnivora Commedia, dove alcune voci più frequenti si scrollano l’originaria connotazione tecnico-lirica e grazie a Dante diventano parole di uso generalissimo, come gioia e noia (la quale, come molesto, ha un significato più forte in Dante che in italiano moderno).
Il «contributo dell’esilio alla lingua di Dante» (Nencioni 1989) fu cospicuo in molti sensi, e particolarmente in un limitato ma vistoso numero di lemmi dialettali, come la forma affermativa bolognese sipa «sia, sì», il ‘lombardo’ mo’ «ora», il lucchese o lombardo issa o istra «ora». Parole evocative, «odeporiche», cioè con un’aura di viaggio, secondo la definizione di Nencioni, come il sardismo donno «signore» (e già nel De vulgari eloquentia, per stigmatizzare i sardi che scimmiottavano i latini, Dante aveva utilizzato il sostantivo dominus). Evocativo è il francesismo alluminare, in «quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi» (Purg. XI, 81), cioè la miniatura. E sommamente informativo è il francesismo gibetto «forca», perché il suicida che «fece gibetto a sé delle sue case» (Inf. XIII, 151) è un mercante fiorentino che, fallito, s’impiccò a Parigi dentro la propria maison de commerce.
Infine, la diffrazione del lessico materiale dantesco nei commenti; dove i fiorentinismi urbani o rustici di Dante, o altre sue voci comunque peculiari, vengono tradotte in ➔ geosinonimi (Franceschini 2008) – tipo ramarro → rogio (nel pisano Buti), ligoro (nello pseudo-Boccaccio); maciulla → gràmola (nel bolognese Lana); veneziano arzanà → terzanà (in Guido da Pisa: diverso esito della stessa voce araba), ecc. – che testimoniano l’attecchire nel territorio italiano del testo fondante della lingua italiana.
Il De vulgari eloquentia (§ 6) è un trattato linguistico di ambizione universale, che prende le mosse dalla definizione di che cosa è il linguaggio umano in confronto alla comunicazione degli angeli e degli animali, passa poi alla storia linguistica dell’umanità a partire da Adamo, si restringe quindi al quadro etno-geo-linguistico dell’intera Europa, poi focalizza l’ambito linguistico e letterario romanzo e tutta la dissonante fenomenologia dei volgari municipali dell’Italia, adibendo in successione fonti filosofico-teologiche e di esegesi biblica; infine, sullo sfondo di questa ‘Italia dialettale’ di cui è il primo esploratore, addita la linea luminosa dei poeti volgari illustri, e di lì parte per costruire una teoria filosoficamente fondata e politicamente orientata della poesia e letteratura volgare.
Di questo gioiello teorico, paragonabile per eccezionalità al ‘miracolo’ linguistico della Commedia, rileviamo solo alcuni concetti fondamentali. Idea centrale, di cui Dante rivendica orgogliosamente l’originalità (I, ix, 7), è quella del mutamento linguistico, che, egli dice, passa inavvertito perché è lentissimo. In effetti le lingue grammaticali come il latino, di cui si conservavano testimonianze antiche, non mostravano di essere mutate nel tempo (e da qui egli ricava infatti l’idea dell’immutabilità del latino, dovuta alla sua artificialità), mentre delle lingue volgari non esistevano testimonianze scritte antiche e quindi non si poteva sapere se erano mutate.
Dante lo afferma, presentando questa come una scoperta, sulla base della constatazione che le lingue d’oc, d’oïl e di sì hanno moltissime parole in comune. Dunque, argomenta, devono discendere da un unico idioma babelico. Se originariamente erano una sola lingua, e oggi sono tre lingue diverse, significa che si sono differenziate nel tempo e nello spazio. Questa geniale argomentazione mostra come il modello babelico della divisione delle lingue non funzioni affatto come un pregiudizio teologico, ma come un elemento di informazione pervenutoci dal lontano passato e valorizzato all’interno di una ricerca conoscitiva profondamente razionalista.
Il rapporto fra latino e volgare viene interpretato in termini di opposizione fra due lingue ontologicamente diverse: il volgare esempio della locutio vulgaris, la facoltà naturale del linguaggio, connaturata all’essere umano e a lui solo, fondata sull’uso; il latino esempio della locutio secundaria, detta anche gramatica, forma di espressione artificiale inventata dai gramatice inventores o positores, sulla base del comunis consensus multarum gentium, al fine di creare lingue sottratte all’inevitabile mutamento delle lingue naturali nel tempo e nello spazio (I, i, 2-3; I, ix, 10-11). Secondo questa idea, che Dante teorizza filosoficamente ma che, nel suo nucleo intuitivo, è da ritenersi appartenente al senso comune linguistico del suo tempo, non sono i volgari che noi chiamiamo romanzi a derivare dal latino, ma è il latino che è stato artificialmente costruito, nella sua razionale e permanente struttura fono-morfo-sintattica, a partire dai materiali lessicali forniti dai volgari; e una certa particolare somiglianza del latino al volgare di sì attribuisce a questo un titolo di privilegio (I, x, 2). A questo proposito, la presunta discrepanza che in passato era stata rilevata fra un’idea ‘esperantistica’ del latino, che sarebbe questa del De vulgari eloquentia, e un’idea invece del latino come «lingua nostra» degli italiani (Purg. VII, 17), probabilmente non sussiste (Tavoni 2010), nel senso che il latino per Dante è stato artificialmente costruito, a differenziazione già avvenuta dell’idioma babelico progenitore delle lingue d’oc, d’oïl e di sì, «per comune consenso» solo di queste tre genti (cioè non anche delle genti germaniche e slave su cui si estende il latino come lingua di cultura dell’Europa occidentale).
Impossibile sottovalutare l’audacia concettuale del giudizio che la locutio vulgaris, in quanto naturale, è più nobile della locutio secundaria, in quanto artificiale (I, i, 4), anche se questo giudizio, essendo rimasto il trattato sconosciuto per due secoli, non ha potuto esercitare alcun influsso sulla promozione e legittimazione del volgare alle quali Dante intendeva destinarlo.
Straordinariamente precoce è la rassegna dei volgari d’Italia che Dante persegue nei capp. x-xv del I libro, fondandosi su un misto di rilevazioni ‘sul campo’, direttamente esperite nei suoi pellegrinaggi di esule, e di attestazioni scritte, talvolta decisamente letterarie, come la registrazione del siciliano popolare accanto a quello aulico nel Contrasto di Cielo d’Alcamo (I, xii, 6); o la canzone in improperium del volgare marchigiano del fiorentino Castra (I, xi, 4): testimonianze che retrodatano gli albori della cosiddetta poesia dialettale riflessa addirittura alle origini duecentesche della tradizione italiana. Ovviamente Dante non costruisce questa sua ‘Italia dialettale’ sulla base di criteri dialettologici ante litteram, ma sulla base della geografia fisica e politica del suo tempo, e sulla base di giudizi di valore e disvalore di carattere letterario o politico-culturale. Questi lo portano a valorizzare il siciliano per merito della civiltà poetica aulica fondata da Federico II (I, xii); a svalutare i volgari delle città toscane in quanto segno aborrito di municipalismo (I, xiii); e a dare la palma al volgare bolognese (I, xv) perché probabilmente era su Bologna che Dante intendeva investire il proprio futuro, tanto da costruire in funzione della centralità di Bologna, che si trova al confine fra le due aree e quindi in condizione di contemperarne gli opposti eccessi, la dicotomia fra volgari lombardi esageratamente aspri e volgari romagnoli esageratamente effeminati (II, xiv), che è ben difficile che sia stata ricavata dai dati empirici (Tavoni: in corso di stampa).
Il De vulgari eloquentia riemerse, ad opera del letterato vicentino ➔ Gian Giorgio Trissino, negli anni Venti del Cinquecento, e irruppe nelle discussioni sulla ➔ questione della lingua infuocandole, come opera ritenuta da tutti (se autentica) posteriore alla Commedia, e dunque come il presunto testamento linguistico di Dante: nel quale testamento l’autore avrebbe sconfessato il fiorentino e dichiarato di aver scritto in lingua comune italiana ovvero ‘cortigiana’ (curialis). Il comportamento assurdo del Trissino, che presentò i contenuti del testo, ma non il testo stesso, nel dialogo Il Castellano del 1524, e pubblicò non il testo latino, ma solo una propria traduzione, peraltro presentata come opera di un altro, nel 1529 (bisognò aspettare il 1574 perché il fuoruscito fiorentino Iacopo Corbinelli pubblicasse a Parigi l’editio princeps), alimentò i peggiori sospetti sull’autenticità del testo, e favorì polemiche secolari totalmente fuori fuoco rispetto al significato autentico del trattato.
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