ISELLA, Dante
Nacque a Varese l’11 novembre 1922, da Umberto e da Maria Martignoni, sesto figlio di una famiglia della nascente borghesia imprenditoriale, impegnata in «un’azienda di trasporti […] soprattutto a base di cavalli» (intervista [2006], in Alias, 2 settembre 2012, p. 6), attività nei primi tempi circoscritta e pionieristica, come rievocato ne I cavalli degli Isella (Milano 1986), poi, dal dopoguerra, accresciuta nelle dimensioni e nel volume degli affari.
Il luogo di nascita impresse un suggello forte sulla sua vita: 'lombardo', vissuto in una terra di frontiera fra Italia e Svizzera. Così, in versi famosi, lo ritrasse Vittorio Sereni (A un distributore, da Gli strumenti umani del 1965): «Subito fuori da Mendrisio, al bivio / per Varese. / “Non ci siamo mai visti, ma / ci conosciamo, – disse – sono Isella”. / O azzurra fermezza di occhi di re / di Francia rimasti con gioia in Lombardia...».
Visse dapprima a Varese, nella casa di famiglia (quella ricordata ne La casa della memoria, Milano 2003), poi a Casciago, sulle Prealpi che affacciano sui laghi, di fronte al Monte Rosa, «una specie di lake district» (intervista cit., 2012, p. 6). Qui abitò con la moglie, Elsa Bortoluzzi, e con la figlia Silvia; rimasto vedovo, si risposò con Annamaria De Grandi e si divise fra la casa di Casciago e un appartamento milanese.
Compì gli studi superiori presso il liceo ginnasio Cairoli di Varese, frequentando poi la facoltà di lettere di Milano; ben presto, però, la bufera della guerra lo condusse lontano: dopo l’8 settembre 1943 passò la frontiera con la Svizzera e nel gennaio 1944 giunse a Friburgo. Qui avvenne l’incontro con l’unico suo maestro riconosciuto, Gianfranco Contini, che dal 1938 era ordinario di filologia romanza presso quella Università: «esperienza […] esplosiva, fondamentale» (Un anno degno di essere vissuto, 2009, p. 35), per il valore dello studioso, certo, ma anche per l’impatto con una straordinaria etica del lavoro, la stessa che poi contraddistinse Isella. A Friburgo incontrò amici che tali rimasero per la vita: Giorgio Orelli, Luciano Erba, Romano Broggini, Adriano Soldini, e, appena un po’ più anziano, Giansiro Ferrata; durante l’anno passato in Svizzera, davvero «degno di essere vissuto», cominciò a lavorare alla tesi di laurea su La lingua e lo stile di Carlo Dossi, che venne poi discussa a Firenze nella primavera del 1947 con Attilio Momigliano e Bruno Migliorini (pubbl., Milano-Napoli 1958).
Dopo 14 anni divisi – non senza fatica – fra il lavoro nell’azienda familiare e lo studio, approdò alla carriera universitaria con un incarico al magistero di Parma; nel 1966 iniziò a insegnare a Catania come ordinario e nel 1967 arrivò alla facoltà di lettere e filosofia di Pavia, dove rimase per dieci anni. Nel 1972 assunse un incarico presso il Politecnico federale di Zurigo; nel 1977 lasciò la cattedra italiana e mantenne quella svizzera sino al 1988. Fu accademico della Crusca dal 1988, dei Lincei dal 1997.
Nel 1962, con Niccolò Gallo, Geno Pampaloni e Vittorio Sereni fondò Questo e altro, rivista che guidò per i due anni della sua esistenza. Diresse, sin dai suoi esordi nel 1966, assieme a Maria Corti, d'Arco Silvio Avalle e Cesare Segre, la rivista Strumenti critici; nel 2001 fondò I quaderni dell’Ingegnere. Testi e studi gaddiani che seguì sino alla sua morte. Diresse i «Classici italiani» di Mondadori dal 1961 al 1993 e, dal 1978, la collana di «Testi e strumenti di filologia italiana» della Fondazione Mondadori; con Giorgio Manganelli diede vita, nel 1987, presso la casa editrice Guanda, alla collana di classici della Fondazione Pietro Bembo, che diresse prima con Giovanni Pozzi e poi con Pier Vincenzo Mengaldo.
Gli interessi culturali di Isella furono vasti e molteplici: filologo testuale, innanzitutto, in senso ampio, sulle orme di Contini, che volle sempre e seppe farsi critico e interprete dell’opera edita. Ma anche storico della lingua, commentatore raffinato di classici e storico della letteratura; nonché più che un dilettante nella storia dell’arte, specie quella lombarda del Seicento. Riconosciuto maestro d'una intera generazione di studiosi che operarono (e operano) fra l’Italia e la Svizzera, i due poli del suo studio e poi del suo insegnamento universitario.
Le linee di ricerca fondamentali nella sua attività possono essere individuate innanzitutto nella particolare attenzione ai processi variantistici, anche all’interno di ricostruzioni filologiche di tipo stemmatico, come nel caso del Giorno di Parini: un interesse che, con il progredire degli anni e degli studi, si fece sempre più definito e metodologicamente strutturato, sino a costituirsi in una disciplina in qualche modo autonoma, la 'filologia d’autore', di cui Isella fu riconosciuto maestro.
Proprio a un’edizione di questo tipo, quella dei Promessi sposi manzoniani, lavorò sino agli ultimi giorni della sua vita: dell’opera, prevista in sei volumi, fece in tempo a vedere stampati i primi due, riservati al Fermo e Lucia. A differenza di Contini, non fu invece un teorico della filologia: la sua esigenza sistematica nacque sempre da casi concreti, illustrati e raccolti in un volume metodologicamente fondamentale, Le carte mescolate (Padova 1987; II ed. accr., Le carte mescolate vecchie e nuove, a cura di S. Isella Brusamolino, Torino 2009).
L’altro polo centrale dei suoi studi fu la cultura lombarda, intesa sia nel senso di una letteratura che si esprime in dialetto e non in lingua (dialetto che si connota subito come intensamente espressivo: si pensi soprattutto all’edizione di Carlo Maria Maggi, poi a quella capitale di Carlo Porta, sino al Novecento di Delio Tessa), sia nel senso di 'lombardità' in accezione più ampia di quella geografica, come valore culturale ma anche, e soprattutto, etico. I nomi che si possono ricordare, oltre a Manzoni e Parini cui abbiamo fatto cenno, sono soprattutto quelli di Carlo Dossi, Carlo Emilio Gadda e Vittorio Sereni, più un milanese d’adozione come Eugenio Montale, di cui Isella diede edizioni memorabili.
A questa 'linea lombarda' furono dedicati i tre fondamentali volumi di storiografia letteraria, pubblicati presso Einaudi – I lombardi in rivolta: da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda (Torino 1984), L'idillio di Meulan: da Manzoni a Sereni (ibid. 1994) e Lombardia stravagante: testi e studi dal Quattrocento al Seicento tra lettere e arti (ibid. 2005) –, che consentono di leggere gli stretti rapporti che Isella seppe individuare fra i suoi autori preferiti, consolidatisi nel lavoro sulle grandi edizioni da lui curate; sui testi, cioè, critici o commentati, cui riservò comunque la sua maggiore attenzione.
Il primo autore sul quale soffermarsi è Dossi di cui, dopo avergli dedicato la tesi di laurea, Isella curò l’edizione delle Note azzurre (Milano 1956; I-II, ibid. 1964), un amore di gioventù, ribadito con la pubblicazione delle Opere presso Adelphi (ibid. 1995), preceduta dall’edizione degli Amori (ibid. 1977). L’edizione del 1995 – un’edizione critica attenta alla variantistica d’autore, secondo il nuovo metodo filologico che risaliva, almeno, al 1983 della prima edizione gaddiana – si configurò come un recupero integrale dell’esperienza dello scrittore, inserito, cosa che ancora non accadeva nel volume del 1958, nell’alveo di una tradizione eticamente e culturalmente lombarda, o secondo le parole di Isella nei Lombardi in rivolta, nel «foglio “Lombardia”» della «nuova carta della letteratura italiana» (intervista, 2012, p. 5).
La scelta di Dossi come argomento per la tesi era nata anche dall'impossibilità di accedere ai materiali manoscritti di Carlo Porta conservati presso la Biblioteca Trivulziana di Milano; a guerra finita, questo studio divenne possibile. I risultati non si fecero attendere: nel 1954 uscì una prima edizione del solo testo critico, cui si affiancò, nel 1957, la pubblicazione in tre tomi completa di apparato, apparsa nella «Biblioteca di Studi superiori» (Firenze, La Nuova Italia) diretta da Contini. Il testo si presentò agli occhi dei lettori profondamente mutato rispetto alla veste tradizionale: restaurata la lingua e, soprattutto, ricostruite le aggregazioni testuali che Porta aveva affidato ai suoi quaderni manoscritti. Ancora due anni e al testo critico si affiancò il ricco commento, dapprima per Ricciardi (Milano-Napoli 1959), poi per i «Meridiani» Mondadori (Milano 1975; in ed. aggiornata e rivista, ibid. 2000). Ma quella verso Porta fu davvero una 'lunga fedeltà': riscoperta e attribuzione (secondo una metodologia che non sarebbe certo dispiaciuta a Roberto Longhi) del giovanile e sconosciuto Lava piatt del Meneghin ch’è mort (Milano-Napoli 1960); edizione delle Lettere (ibid. 1967); nonché, per Il Saggiatore, il Ritratto dal vero di Carlo Porta (Milano 1973). Per chiudere con Carlo Porta. Cinquant’anni di lavori in corso (Torino 2003), in cui il sottotitolo dice più di tante parole sulla coerenza intellettuale dello studioso.
Tuttavia, il lavoro di Isella su Porta non può essere circoscritto alle pur splendide edizioni: la valutazione letteraria del dialetto milanese rimane forse l’acquisizione più importante di questa stagione di studi. Il dialetto portiano non ha nulla di 'naturale', non è mimetico della realtà ma la interpreta: esistono vari livelli al suo interno, sovrapposizioni e frizioni fra lingua e dialetto, fra latino e dialetto, fra francese e dialetto. In una parola, si tratta di quell’universo stilistico che il critico definì il pastiche portiano, frutto di un’operazione autoriale di alto livello.
Nella galassia degli scrittori in milanese amati da Isella spicca anche la figura di Carlo Maria Maggi. Mentre Porta non era certo un 'fantasma' della nostra storia letteraria, Maggi lo era, mal servito da edizioni pessime, che risalivano ai primi anni del Settecento (morì del 1699). Dopo il Teatro milanese per Einaudi (Torino 1964) e le Rime milanesi (dapprima in Studi secenteschi, VI [1965], pp. 67-264, e quindi in volume: Pistoia 1985, Parma 1994, Milano 2006), smise di esserlo, e divenne anzi un precedente importante della poesia portiana per l’impiego di un dialetto sfaccettato, che si sviluppa lungo le gerarchie della scala sociale, dal grado zero della 'naturalità' sino alle commistioni con l’italiano del cosiddetto 'parlar finito'. Fondamentale anche la tensione etica che Isella individuò nei testi di Maggi, dove il dialetto rappresenta l’espressione autentica di un mondo di profonda moralità; un passo più avanti e siamo già alla satira pariniana e alla dicotomia fra un mondo nobiliare inetto e depravato e un polo positivo rappresentato dagli incorrotti, magari un po’ idealizzati, costumi del popolo lombardo.
A fianco di questi veri monumenti della filologia di Isella si possono raggruppare altri lavori, a partire dallo studio dei sonetti di Lancino Curzio scritti in improperium di Baldassarre Taccone, mediocre poeta della corte di Ludovico il Moro, primo suo assaggio in direzione della cultura quattro-cinquecentesca (Lo sperimentalismo dialettale di Lancino Curzio e compagni, in In ricordo di Cesare Angelini: studi di letteratura e filologia, a cura di F. Alessio - A. Stella, Milano 1979, pp. 146-159), ma anche voce importante che inaugura, con fondamentali nuove acquisizioni, l’ultimo dei volumi saggistici, Lombardia stravagante: testi e studi dal Quattrocento al Seicento tra lettere e arti (Torino 2005). E poi l’edizione del tardo cinquecentesco Giovan Paolo Lomazzo (Rabisch, ibid. 1993), i Sonetti di Fabio Varese, «il Villon di Porta Ticinese» vissuto fra Cinque e Seicento (2002, in ed. fuori commercio), per approdare al pieno Seicento della Sposa Francesca di Francesco De Lemene pubblicata presso Einaudi (Torino 1979) e chiudere infine con l’edizione commentata di Delio Tessa (ibid. 1988), che gli restituì finalmente il suo posto fra i grandi del Novecento e dell’espressionismo.
La 'lombardità', ovviamente, non è veicolata solo dal dialetto e infatti Isella dispiegò la sua perizia anche su scrittori in italiano. Parini e Manzoni, dunque, e poi via via sino al Novecento. Nomi grandi o sommi, ma anche autori all’apparenza minori, funzionali però all’individuazione di una linea culturale alternativa alla dominante 'fiorentinocentrica' della nostra letteratura e, soprattutto, della nostra storiografia letteraria. Si tratta di studi che risalgono in parte all’insegnamento pavese della fine degli anni Sessanta, con l’eccezione di un’opera un tempo attribuita a Donato Bramante, Le antiquarie prospettiche romane, lunga descrizione in terzine delle meraviglie architettoniche di Roma, composta alla fine del Quattrocento da un artista rimasto anonimo, un «prospettivo milanese dipintore». Qui la competenza filologica di Isella si fuse con l’esperienza di storico dell’arte di Giovanni Agosti: il loro operare congiunto consegnò alla collana dei classici della Fondazione Bembo (Parma 2004) uno dei suoi volumi giustamente più celebri: edizione e commento di un’opera in testimonianza unica, gravemente corrotta nell’unica stampa sopravvissuta, redatta in una lingua ibrida fra italiano e dialetto, piena di allusioni, anche criptiche, all’antiquaria dell’epoca.
Ma i caposaldi della filologia di Isella su testi lombardi in italiano furono, senza dubbio, i lavori su Parini e quello su Manzoni (più Gadda, ovviamente). L’indagine sulla tradizione del Giorno, che si tradusse prima nell’Officina della «Notte» e altri studi pariniani (Milano-Napoli 1968), quindi nell’edizione critica dell’intero poemetto (nei «Documenti di filologia», ibid. 1969), costituì il primo studio di ampie dimensioni sulle redazioni plurime. I risultati conseguiti, specie in rapporto alle condizioni del testo prima del suo intervento, furono ineccepibili: il poemetto pariniano venne affidato ai lettori nella sua forma di opus in fieri, in cui alle prime due parti, concluse e pubblicate nel 1763 (Mattino) e 1765 (Mezzogiorno), si giustappone una seconda redazione degli anni Novanta scandita in quattro parti: Mattino, Mezzogiorno, Vespro e Notte, mai portata a compimento, e fondata sul rifacimento delle prime due sezioni e sulla stesura ex novo delle ultime due (frutto di uno sdoppiamento della progettata, ma non realizzata, Sera). Sulle ragioni storiche e ideologiche del fallimento del progetto, Isella (Diagramma pariniano, in Strumenti critici, I [1966], 1, pp. 34-41) scrisse pagine di un'intensità e una profondità difficili da dimenticare: non l’insoddisfazione, in fondo narcisistica, dell’autore che agogna alla perfezione motivò lo scacco del Giorno, ma al contrario la volontà di misurarsi, sempre e comunque, con le domande che una società in continuo – e drammatico – divenire poneva al poeta.
Un decennio scarso più tardi, sempre per Ricciardi, Isella realizzò l’edizione critica delle Odi (Milano- Napoli 1975) fondata sulla princeps curata nel 1791 da Agostino Gambarelli. Ai testi presenti nella silloge Isella aggiunse tre odi, composte fra il 1792 e il 1795: A Silvia, Alla Musa e Per l’inclita Nice. Il cammino di Isella a fianco del 'suo' Parini si concluse assai tardi, quarant’anni dopo gli esordi, con l’edizione delle giovanili Poesie di Ripano Eupilino per i classici Guanda (Parma 2006).
Rispetto al cantiere di Porta o a quello di Parini, il lavoro sui Promessi sposi del terzo dei «gran lombardi» potrebbe apparire un interesse limitato all’ultimo tratto della sua vita; in realtà Isella sin dalla fine degli anni Settanta, in seminari universitari rimasti mitici, si occupò dei notevoli problemi posti dalla formalizzazione degli autografi manzoniani, specie là dove il Fermo e Lucia e i Promessi sposi convivono, materialmente, sugli stessi fogli, ovvero sino al capitolo ottavo. E la realizzazione dell’apparato del Fermo e Lucia da lui diretto (I-II, a cura di B. Colli - P. Italia - G. Raboni, Milano 2006) segnò, nella filologia d’autore, un punto al di là del quale pare difficile arrivare: non solo, infatti, Isella applicò a Manzoni la capitale distinzione fra varianti 'evolutive' e 'innovative' maturata nei saggi pariniani, ma soprattutto seppe dispiegare tutte le conquiste del lavoro su Gadda iniziato negli anni Ottanta. Il raggruppamento delle varianti in unità complesse, ben più ampie del singolo intervento, consentì di leggere il sistema rielaborativo nel suo complesso e permise anche, a differenza di quando accadeva con l’edizione di Fausto Ghisalberti del 1954, di sceverare ciò che pertiene ancora al Fermo da quanto invece fa già parte dei Promessi sposi.
Agli inizi degli anni Ottanta Isella inaugurò pubblicamente il più importante, forse, dei suoi 'cantieri', quello gaddiano; l’interesse per l’autore, tuttavia, risale almeno al 1971, anno del suo primo corso pavese su Gadda (dedicato al Cahier d’études del 1924-25). Dopo la curatela delle prime opere apparse presso Adelphi (Le bizze del capitano in congedo, 1981; Il tempo e le opere, 1982), l’edizione, presso Einaudi, del Racconto italiano di ignoto del Novecento (ovvero il materiale raccolto nel Cahier, Torino 1983) segnò un punto di svolta: le dinamiche testuali dell’inedito costrinsero infatti Isella a elaborare un modello di apparato fino a quel momento mai sperimentato, che potesse formalizzare la complessità della scrittura dell’autore, in cui allo sviluppo del testo narrativo si intrecciano di continuo, e sulle stesse pagine, riflessioni di carattere strutturale. A ciò si aggiunga che il Racconto, come molto del Gadda studiato da Isella e da altri sulla sua scia, è un 'non finito', non nel senso che all’opera sia mancata l’ultima revisione, ma nel senso ben più profondo di un progetto che fallisce, di un'ipotesi di romanzo destinata a naufragare.
Il lavoro su Gadda, oltre a svilupparsi ulteriormente con l’edizione di Un fulmine sul 220 (Verona 1994; poi, alla luce di nuovi materiali, Milano 2000), ovvero il 'cartone' inedito da cui poi si staccherà l’Adalgisa, permise a Isella di coordinare un gruppo di studiosi giovani e meno giovani, tutti coinvolti nella memorabile impresa del 'tutto Gadda' pubblicato presso Garzanti nei «Libri della Spiga» fra il 1988 e il 1993. Tale edizione rappresentò qualcosa di diverso dal semplice allestimento di opere complete: sotto la guida di Isella, infatti, iniziò uno scavo sistematico del 'continente', per gran parte sommerso dello scrittore (regesto delle lettere, censimento delle carte autografe e così via), un lavoro enorme che, con la recente scoperta degli archivi di Arnaldo Liberati, può considerarsi ancora ben lontano dalla sua conclusione.
Il lavoro su Gadda probabilmente permise a Isella di affrontare sotto una diversa prospettiva il problema del testo del Partigiano Johnny, già pubblicato in edizione critica, assieme alle altre opere di Beppe Fenoglio, presso Einaudi (Torino 1978), sotto la guida di Maria Corti. Isella, nella sua edizione dei Romanzi e racconti («Biblioteca della Pléiade», ibid. 1992) non solo spostò in avanti di un decennio l’elaborazione del romanzo, da lui ricondotto alla metà degli anni Cinquanta, ma soprattutto individuò nel testo una sorta di cantiere, alla maniera appunto di quelli gaddiani: un romanzo incompiuto da cui via via l’autore staccò blocchi narrativi che confluirono altrove (per esempio in Primavera di Bellezza).
Il 'caso Gadda' riconduce nell'ambito novecentesco in cui, al lavoro filologico, come quello dispiegato nell’edizione critica di Sereni pubblicata nel 1995 nei «Meridiani» Mondadori, si accompagna quello di commento ai testi, soprattutto nel caso dell’amatissimo Montale. Isella non approntò il testo critico del poeta, perché già esisteva l'edizione del 1981, curata da Contini e Rosanna Bettarini per Einaudi, ma ciò non rese certo meno importante il suo intervento: la cura dispiegata per acclarare ogni allusione, ogni riferimento storico o letterario si modellò sui memorabili commenti allestiti da Contini o da Domenico De Robertis per i grandi autori delle nostre origini. Testi, che apparivano imperscrutabili (come alcuni delle Occasioni, Torino 1996, o di Finisterre, ibid. 2003), cessarono di essere 'ermetici' (né mai, del resto, lo erano stati in senso storico). Una volta spiegati ritornarono a essere quello che spesso è la grande poesia: difficile, mai oscura.
Morì a Milano il 3 dicembre 2007.
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La (parziale) bibliografia degli scritti di Isella è comparsa nel catalogo della mostra realizzata a Zurigo (aprile-giugno 1988): I Libri di D. I., a cura di P. De Marchi - G. Pedrojetta, Milano 1993.
Isella non pubblicò mai le sue memorie e fu piuttosto parco nella rievocazione personale, almeno in forma scritta: l’intervento più noto rimane Un anno degno di essere vissuto, nota al testo di G. Pinotti, Milano 2009 (dedicato al periodo friburghese), cui si possono accostare le interviste radiofoniche realizzate per la Radio Televisione della Svizzera italiana (RTSI), a cura di M.G. Rabiolo, liberamente consultabili nel sito http://www.rtsi.ch/trasm/isella/default.htlm. A queste si possono aggiungerne alcune cartacee: quella realizzata da P. Italia (in Soglie, 2000, n. 1, pp. 58-61) o quella riproposta in Alias del 2 settembre 2012 (rilasciata in origine a RAI-RadioTre nel giugno 2006).
Due numeri monografici di rivista sono stati dedicati alla sua eredità intellettuale: quello del 2008 di Letteratura e dialetti: D. I. studioso di letteratura dialettale, con interventi di P. Bongrani, R. Martinoni, F. Milani, P. Gibellini e C. Martignoni; e quello del maggio 2009 di Strumenti critici, a cura di F. Gavazzeni - C. Martignoni, che raccoglie gli atti della giornata di studi D. I. e la filologia d’autore, Pavia… 2008, con interventi di P.V. Mengaldo (apparso anche, in forma leggermente diversa, in Lingua e stile, 2008, pp. 293-299), O. Besomi, F. Gavazzeni, P. Bongrani, P. Gibellini, N. Ebani, F. Milani, G. Raboni, B. Colli, C. Riccardi, N. Reverdini, G. Castellani, L. Orlando, C. Martignoni.
Si vedano, inoltre: P. Bongrani, I tesori della «Lombardia stravagante», in Giorn. stor. della letteratura italiana, 2006, n. 603, pp. 435-453; G. Baldassarri, D. I., Giovanni da Pozzo, in Studi tassiani, 2007, vol. 55, pp. 7-14; P. Gibellini, D. I., filologia come etica, in Ermeneutica letteraria, 2008, n. 4, pp. 9 s.; S. Carrai, La filologia di D. I., in Filologia italiana, 2009, n. 6, pp. 9-20; C. Genetelli, D. I. e Gianfranco Contini, una lunga fedeltà, in Ermeneutica letteraria, 2011, n. 7, pp. 99-115. Di rilievo anche alcuni contributi apparsi sui quotidiani a ridosso del 3 dicembre 2007, quali il ricordo di Cesare Segre nel Corriere della sera, quello di Paolo Mauri in la Repubblica e quello di Alberto Casadei ne l’Unità.