Dante Alighieri, Opere minori: Egloge - Introduzione
Nonostante l'innegabile loro marginalità nell'ambito della produzione dantesca, le due egloghe presentano vari e notevoli motivi d'interesse, che hanno stimolato negli ultimi due secoli l'attenzione di un grande numero di studiosi. Basti pensare all'immagine che esse ci offrono di un Dante approdato, nell’“ultimo rifugio" ravennate, ad un porto di serena meditazione, tra le cure affettuose di amici e cultori fedeli; alla sorprendente disponibilità (sia pure intinta di cortese, un po' distaccata e, in fondo, evasiva benevolenza) che esse ci attestano verso un'iniziativa come quella del maestro bolognese Giovanni del Virgilio, mirante ad aprire un dibattito su un tema i cui termini erano già da tempo definitivamente chiariti e risolti nella mente del poeta; alla singolarità dell'operazione "umanistica" che riportava in vita il genere bucolico nei suoi schietti connotati virgiliani, denunciando un vistoso divario fra la lingua e la struttura classicheggianti di questi esametri ed i caratteri formali di medievalità degli scritti latini in prosa.
All'epistola delvirgiliana (I), contenente la richiesta di un carmen vatisonum, cioè di un poema latino di stile alto e d'argomento epico, tale da meritargli la lode e gli onori dei dotti e da permettergli di uscire dal ristretto cerchio di un rapporto esclusivo (e ambiguo e rischioso) con gli incolti lettori di poesia volgare, Dante rispose dunque con un'egloga (II); «fu indotto a ciò forse da un intento polemico, allo stile alto dell'epica contrapponendo quello umile dell'egloga ... ; o vide nell'egloga il genere più consono allo stile di una "tenzone"; o, raccogliendo la sfida, intese rispondere con un testo latino che avesse una sua dignità e completezza, nell'ambito di un genere ben definito» (MARTELLOTTI).[1] Certo il travestimento bucolico gli forniva un utile schermo, consentendogli di proiettare la propria condizione ed il proprio sentire in un'aura sospesa fra l'elegante giuoco letterario e la favola, di smorzare gli effetti così delle iperboliche lodi rivolte al suo dotto corrispondente come della polemica e della ripulsa. Poiché d'una ripulsa si trattava, benché mitigata dal pretesto del timore per i rura ignara deorum: egli non avrebbe rinunciato ai comica verba ed alla varia materia del suo autentico poetare, attendendosi proprio da esso il diritto di fregiarsi del nome che più dura e più onora.
Nella sua replica (III) Giovanni del Virgilio dimostrò d'aver bene inteso il proposito di Dante, abbandonando la proposta del poema epico. Dopo aver innalzato un inno di grata ed amorosa lode al restauratore della poesia pastorale, anzi al Virgilio redivivo, ed aver risposto con un caldo augurio al sospiro dell'esule verso la patria ingrata, si limitò a rivolgergli un invito a trascorrere, festeggiato ed onorato, i giorni dell'attesa nel suo ospitale antrum.
La seconda egloga dantesca (IV), meno compatta ma più mossa ed ariosa nelle immagini e nella versificazione rispetto alla prima, segna (indipendentemente dall'esattezza della notizia secondo la quale il poeta sarebbe morto prima d'aver potuto inviarla a Giovanni) la conclusione del dialogo, il definitivo distacco dall'episodio delvirgiliano. L'immagine truce e spaventosa di Polifemo, introdotta a motivare più saldamente il rifiuto opposto all'invito affettuoso, dà maggiore risalto alla pittura della quiete idillica e della venerazione di cui Dante gode nella Ravenna di Guido Novello (Iolla).
Le proposte di datazione oscillano, per il carme delvirgiliano, tra l'inizio del 1319 e la metà del 1320 (è probabile che Dante non si sia stabilito a Ravenna prima del febbraio 1320; d'altro lato il carme non può essere posteriore alla sconfitta di Cangrande sotto le mura di Padova, cioè al 25 agosto: PADOAN); per la seconda egloga di Dante, tra il secondo semestre del 1320 e la metà del 1321. Se si dà credito alle glosse dello Zibaldone Laurenziano (Egl. ad Muss., 228-9: «Nam postquam magister Ioannes misit Danti eclogam illam "Forte sub irriguos" etc. stetit Dantes per annum ante quam faceret "Velleribus Colchis" et mortuus est ante quam eam micteret ... »), Dante avrebbe scritto il componimento conclusivo negli ultimi mesi della sua vita, oltre un anno dopo aver ricevuto l'egloga delvirgiliana. La stagione in cui questa gli pervenne sembra chiaramente denotata nei primi versi della sua risposta (Velleribus Colchis ...): dunque la tarda primavera del 1320 (REGGIO). Non pare infine dubbio che l'egloga di Giovanni sia posteriore almeno ai primi giorni del settembre 1319 (cfr. il commento a III, 1-9).
L'autenticità di questa corrispondenza poetica, già da taluno revocata in dubbio, ha recentemente subito un massiccio attacco, condotto lungo molteplici direzioni e con argomenti spesso suggestivi, ad opera di A. Rossi, del quale si indicano qui gli scritti più strettamente pertinenti alla questione: Dante, Boccaccio e la laurea poetica, in «Paragone», 150 ( 1962), pp. 3-41; Il carme di Giovanni del Virgilio a Dante, in «Studi danteschi», XL (1963), pp. 133-278; Boccaccio autore della corrispondenza Dante-Giovanni del Virgilio, in «Miscellanea storica della Valdelsa», LXIX (1963), pp. 130-72; "Dossier" di un'attribuzione, in «Paragone», 216 (1968), pp. 61-125. Nell'ultimo di questi saggi il Rossi registra e discute le reazioni degli studiosi, generalmente negative. L'ipotesi di una falsificazione boccacciana, in realtà, non regge ad un esame approfondito, né si vede chi altri, prima del Boccaccio, avrebbe potuto nutrire l'intenzione ed avere la capacità di costruire un congegno così perfetto.[2]
Questo lavoro avrebbe dovuto giovarsi dell'apporto diretto di Guido Martellotti, che lo avrebbe certo reso assai migliore e nell'impianto e nei particolari. Se varie circostanze hanno vietato al Martellotti di dare opera alla progettata collaborazione, non gli hanno però impedito di offrirmi con signorile discrezione utili consigli e suggerimenti; dei quali cordialmente lo ringrazio.
NOTA AL TESTO
Sulla tradizione manoscritta si veda G. Folena, La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in Atti del Congresso internazionale di studi danteschi, I, Firenze, Sansoni, 1965, pp. I sgg., alle pp. 36-9. Qui basterà ricordare che essa dipende in gran parte, e forse totalmente, da esemplari rinvenuti dal Boccaccio (ma in seguito scomparsi) e da copie di sua mano, una delle quali, fondamentale ai fini della costituzione del testo, ci è stata conservata nel famoso Zibaldone Laurenziano XXIX 8 (L). In essa sono presenti alcune varianti coeve. Qualche tempo dopo aver trascritto il testo della corrispondenza il Boccaccio vi introdusse altre varianti e lo corredò di numerose note; le une e le altre sembrerebbero dovute a collazione con un altro esemplare, dal quale il Certaldese dovrebbe aver tratto anche il testo dell'egloga delvirgiliana al Mussato con le relative glosse.
Principali edizioni: PH. H. WICKSTEED- G. E. GARDNER, Dante and Giovanni del Virgilio, Westminster, A. Constable, 1902 (con apparato critico, traduzione e commento); Dantis eclogae, Ioannis de Virgilio carmen et ecloga responsiva, testo, commento, versione a cura di G. ALBINI, Firenze, Sansoni, 1903 (ristampata con mutamenti e aggiunte, ridotto l'apparato critico alle sole lezioni di L, a cura di G. B. PIGHI, Bologna, Zanichelli, 1965).
Segue sostanzialmente l'edizione dell'Albini, discostandosene soprattutto nell'ortografia, quella curata da E. PISTELLI in Opere di Dante, per la Società Dantesca Italiana, Firenze, Bemporad, 1921. L'edizione commentata di G. LIDÒNNICI, Dante e Giovanni del Virgilio, in «Giornale dantesco», XXIX (1926), pp. 141 sgg., riproduce testo e glosse di L.
Il testo qui adottato si fonda complessivamente (anche nell'ortografia) su quello del Pistelli, recuperando però in qualche caso lezioni del citato Zibaldone Laurenziano.[3] Da questo codice ho tratto anche un buon numero di glosse, inserendole nel commento senza ripetere di volta in volta l'indicazione della fonte.
Il lettore troverà una perspicua ed utile discussione dei maggiori problemi suscitati dall'interpretazione delle Egloghe in G. REGGIO, Le Egloghe di Dante, Firenze, Olschki, 1969, con ampia bibliografia. Si vedano inoltre G. MARTELLOTTI, Egloghe, in Enciclopedia dantesca, II, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970, pp. 644-6; A. VALLONE, Dante, Milano, Vallardi, 1971, pp. 430-2; e, soprattutto per la traduzione, G. B. PIGHI, La corrispondenza poetica di Dante e Giovanni del Virgilio, in «Convivium », XXXIV (1966), pp. 318-33.
Per le scarne notizie in nostro possesso intorno a Giovanni del Virgilio[4] e per la relativa bibliografia vedi ora G. MARTELLOTTI, Giovanni del Virgilio, nella cit. Enciclopedia dantesca, III, 1971, pp. 193-4.
Urbino 1975
NOTE
[1] L'ipotesi, da me appena adombrata in " Italia medioevale e umanistica", XIV (1971), p. 29, nota 5, che l'idea d'indossare la veste di Titiro potesse anche essere stata suggerita a Dante da 1, 8 pandum delphyna movebis, veniva contemporaneamente (infatti il mio articolo fu redatto nella seconda metà del 1970) formulata con maggior convinzione da M. PASTORE STOCCHI nella voce Davo dell'Enciclopedia dantesca (II, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970, pp. 322-3). Mi si permetta di aggiungere che la sostanziale identità delle argomentazioni addotte indipendentemente dal Pastore Stacchi e da me (pp. 29-31) a proposito di Davo, e soprattutto a difesa della lezione movebis, ne rafforza la credibilità.
[2] Su ciò mi sia consentito rinviare alle considerazioni da me svolte in "Italia medioevale e umanistica ", cit., pp. 25-56.
[3] I, 8 (cfr. il commento): movebis, di prima mano, contro movebit; I, 23: ora (nel senso di vocem) contro ore; 1, 45: a, di prima mano, contro ad; 11, 17: erat contro eat. A parte il primo passo, valgano per gli altri le considerazioni svolte dall'Albini nel suo commento.
[4] Il suo insegnamento pubblico a Bologna è documentato per gli anni 1322-1323; indi passò a Cesena. Non si hanno sue notizie posteriori al 1327. Connessi con l'attività di maestro sono due commenti ovidiani (Expositiones e Allegorie) e un'Ars dictaminis. La sua produzione poetica (in esametri e distici elegiaci) comprende, oltre alla corrispondenza con Dante e ad alcuni testi di minor interesse, la «tenzone» con un ser Nuccio (Ranuccio) marchigiano intitolata Diaffonus, un epitafio di Dante e un 'egloga indirizzata ad Albertino Mussato.