Dante Alighieri, Opere minori: Dante e il «Buon Barbarossa» ossia Introduzione alla «Monarchia» di Dante
1. - Dopo quanto ebbi a scrivere intorno a La «Donatio Constantini» e Dante, negli «Studi danteschi» del Barbi (XXVI, 1942, e ripubblicato con variazioni nel volume Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1944, pp. 109-48), e dopo quel che più tardi ho aggiunto nel volume Dal «Convivio» alla «Commedia», Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo,1960, pp. 238-57, sento oggi il bisogno di ritornare su alcuni punti intorno ai quali è stata richiamata da diverse parti la mia attenzione.
Negli studi precedenti, com'è noto, io omettevo di proposito di soffermarmi sui problemi che riguardano la formazione dello stato temporale della Chiesa durante il periodo di Liutprando e di Astolfo, fino agli accordi stipulati fra papa Stefano II e Pipino a Quierzy-sur-Oise (754). Nei documenti che riguardano sia le trattative sia gli accordi stessi si parla di restituzione, richiesta con insistenza dal Papato e accettata solennemente dal re dei Franchi, della città di Roma, delle terre e castella del cosiddetto Ducato romano, dell'Esarcato di Ravenna e del corridoio che univa l'uno all'altro attraverso l'Umbria, così all'ingrosso.
È questo concetto di restituzione che ora mi par necessario chiarire; il che farò sulla scorta di un'ottima indagine condotta da Ottorino Bertolini, che le sue affermazioni ha perfettamente documentato nello studio Il problema delle origini del potere temporale dei papi nei suoi presupposti teorici iniziali: il concetto di «restitutio» nelle prime cessioni territoriali (756-757) alla Chiesa di Roma.[1].
L'idea di restituzione, com'è evidente, presuppone quella di un dominio preesistente che qualcuno abbia usurpato. Ed egualmente pare evidente che non si tratti nel nostro caso del semplice possesso di beni patrimoniali acquistati eventualmente dalla Chiesa per compra e vendita o avuti per semplice donazione, e soggetti perciò al superiore dominio politico dello Stato in cui si trovano. Così, ad esempio, san Gregorio Magno, che pur ebbe a lottare strenuamente con gli imperatori di Bisanzio per la loro invadenza nell'esercizio della funzione spirituale e del governo della Chiesa, anche per mezzo di vescovi aulici a loro devoti, non negò mai la sovranità e la piena indipendenza dell'Impero, secondo la dottrina gelasiana che ormai da tempo regolava i rapporti tra l'istituto ecclesiastico e quello imperiale. Urti ve ne furono certo; ma si cercò di eliminarli con temperamenti e transazioni, suggeriti via via dalle circostanze e dal senno. E il fatto stesso che patrimoni ecclesiastici si formassero e s'andassero sempre più allargando in diverse parti d'Italia e costituissero quello che ad un certo momento si disse il «Patrimonium beati (o sancti) Petri», non creò motivo di conflitto se non quando questo fatto acquistò un significato politico. Conflitti tra l'autorità ecclesiastica e quella statale ve ne furono certamente, dicevo, ed assai gravi, anche prima, nonostante fosse in vigore ancora il saggio principio gelasiano che regolava i rapporti fra i due massimi istituti. Com'è possibile stabilire in pratica una precisa linea di demarcazione fra i poteri dello Stato e quelli della Chiesa che si esercitano da ambe le parti sugli stessi sudditi e nello stesso territorio, ma con intenti non sempre concordi? Pare che alcuni storici non si rendano ben conto di questa difficoltà, sussistente anc'oggi e non facile a superare, se non per via di transazioni provvisorie, accettate dalle parti m contrasto per evitare il peggio, cioè per necessità contingenti.
Ad ogni modo il conflitto politico non tardò a manifestarsi apertamente quando i Bizantini, cacciati dal Ducato romano, dall'Esarcato e dalla Pentapoli, non esercitavano più su questi che un dominio nominale che i Longobardi ormai disconoscevano. Liutprando e Astolfo s'adopravano a incorporare le terre tolte ai Bizantini nel loro regno, manifestando l'ambizioso disegno di estendere questo a tutta l'Italia. «Per la prima volta» c'informa il Bertolini «nelle due lettere scritte da Gregorio III nel 739 e nel 740 a Carlo Martello, per reiterare le richieste d'aiuto contro Liutprando e contro il suo nipote e collega sul trono Ildeprando, compare, a indicare il popolo romano, la locuzione "populus peculiaris (peculiaris populus) Sanctae Dei Ecclesiae, b. Petri, Ecclesiae b. Petri" ...».
E ancora: «"Sanctae Dei Ecclesiae Romanus populus mihi commissus"; e "populus meus peculiaris", "populus meus Romanus mihi a Deo commissus in hac vita", è chiamato dal principe degli Apostoli il popolo romano, nel disperato appello rivolto a Pipino, ai suoi figli, al popolo franco, verso la fine del febbraio 756, quando la Città Eterna da quasi due mesi languiva sotto la stretta dell'assedio di Astolfo; appello che Stefano II e la Chiesa di Roma ponevano in bocca allo stesso S. Pietro. L'identica locuzione, con l'identico riferimento al popolo romano, si ripete nelle altre due lettere in quel gravissimo frangente scritte, una da Stefano II a Pipino, l'altra da Stefano II e dai Romani a Pipino, tra il marzo e il 26 aprile 757, per informarlo degli avvenimenti svoltisi in Italia dopo l'improvvisa morte di Astolfo. Dal principe degli Apostoli gli abitanti di Roma sono inoltre chiamati "oves dominicae", "oves dominici gregis rnihi a Deo commissi, videlicet populus Romanus", e Roma dichiarata "civitas ista Romana nobis a domino Deo commissa"...».[2]
Il Bertolini poi dimostra che di questa particolare condizione nei riguardi del Papato non godeva soltanto la popolazione di Roma, ma altresì quelle del Ducato romano, del Ducato di Spoleto e dell'Esarcato di Ravenna già caduto o in procinto di cadere nelle mani dei Longobardi,[3] la restituzione delle quali il Papato richiedeva con insistenza, e sarà decisa da Pipino con la solenne Promissio Carisiaca del 754, e sancita dalla pace di Pavia del giugno 755.[4] Il dominio temporale della Chiesa era ormai un fatto compiuto sotto la protezione del regno franco.
Ma su quali princìpi giuridici poggiava esso? Anche su questo punto il Bertolini ha gettato molta luce,[5] dimostrando la perfetta aderenza del linguaggio usato dagli scrittori del patriarchio Lateranense col linguaggio biblico cui erano abituati, specialmente del Nuovo Testamento, ma soprattutto col «pasce agnos meos,... pasce oves meas» rivolto da Cristo a Pietro (loann., 21, 15-7; cfr. Matth., 16, 19). Ad usare siffatto linguaggio essi erano incoraggiati dalla vetusta tradizione che faceva di Pietro il fondatore della Chiesa di Roma cui ormai s'attribuiva il primato su tutte le Chiese cristiane. Evidentemente nei testi evangelici non c'è niente che esplicitamente obblighi a scorgervi significati che vadano oltre la missione spirituale e religiosa di Pietro e dei suoi successori in rapporto al governo della Chiesa, che non è un «regnum de hoc mundo». Ma la storia dell'esegesi biblica, non meno di quella del Corano, sta là a documentare l'avvedutezza e sottiglianza dei teologi nell'ingegnarsi di trarre da testi sacri tutto quello che, premeva ad essi di far passare per volere di Dio o per dogma di fede, anche quando non lo era affatto, come nel caso dell'opinione sugli antipodi, condannata da papa Zaccaria nella lettera a san Bonifacio, del 1 maggio 748.
Tutte le locuzioni tratte dalla Bibbia, ossia, in sostanza, il «pasce oves meas» detto da Gesù a Pietro, e la stessa idea del buon pastore che s'affanna a ritrovare le pecore smarrite, perdute o rapite e a chiederne la «restituzione», non s'ispirano a norme giuridiche quali erano quelle del diritto umano fondato su leggi scritte o su consuetudini aventi valore di leggi, dettate dal vincitore al vinto, oppure concordate tra le parti in conflitto che avessero finito col ritenere reciprocamente vantaggioso temperare interessi contrastanti; no, il linguaggio tenuto da Gregorio III a Carlo Martello, che pareva fare il sordo, era nuovo e politicamente sconcertante, anche perché l'effettivo Patrimonium beati Petri, al momento dell'occupazione longobarda, non coincideva né con l'intero Ducato romano né con tutta Roma, e tanto meno col territorio di tutto l'Esarcato di Ravenna. Ma nel 751 un fatto nuovo era accaduto tra i Franchi. Col consenso di papa Zaccaria, Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello, riusciva a farsi eleggere unico re della Francia, e l'ultimo re merovingio spariva relegato in un monastero. Il legato papale lo unse re, rinnovando il rito con cui Samuele aveva consacrato Saul re d'Israele, per volere divino, rito già accolto un tempo dai re visigoti e dipoi dagli anglosassoni. Successo a Zaccaria, papa Stefano II, di fronte alla minaccia delle nuove conquiste di Astolfo, ritentò con maggior successo di ottenere dal nuovo re dei Franchi quello che Gregorio III non era riuscito ad ottenere da Carlo Martello. Il momento era propizio ed egli non se lo lasciò scappare. Alla fine dell'estate del 753 era giunto a Roma un messo che recava una iussio imperiale di Bisanzio, nella quale Costantino V sollecitava Stefano II ad incontrarsi con Astolfo in qualità di suo diretto intermediario per la restituzione delle ultime conquiste longobarde da rimettere nelle mani dei funzionari imperiali; ma poco dopo giunsero a Roma anche i messi di Pipino che invitavano il papa a recarsi in Francia. E questi, che l'invito attendeva, non perse tempo. Ai primi di gennaio 754 era a Ponthion, ove cominciarono lunghe e delicate trattative con Pipino che papa Stefano non aveva mancato certo di informare della iussio imperiale e della difficoltà dei negoziati con l'astuto re longobardo. Ma anche Pipino da parte sua non doveva esser del tutto tranquillo. La sua incoronazione a unico re di tutta la Francia era un fatto troppo recente, perché non vi fossero malcontenti. Di lì a poco venne a sapere che suo fratello Carlomanno, già maggiordomo d'Austrasia e ritiratosi dalla lotta politica, ora, abbandonata l'abbazia di Montecassino per impulso di Astolfo, s'adoprava per far fallire gli accordi del papa con Pipino. Ma questi procedette con grande cautela. Anzi tutto, il 1 marzo adunò a Braine-sur-Vesle i notabili di Francia che l'avevano eletto re, per assicurarsi della loro fedeltà nella guerra ch'egli stava conducendo contro Astolfo; indi proseguì le sue trattative segrete con Stefano II nel palazzo regio di Quierzy-sur-Oise (Carisiacum Palatium), cioè intorno alla Pasqua che nel 754 cadeva il 14 aprile. La Promissio Carisiaca, più che un documento «stilato e parafrasato» in forma diplomatica, come si direbbe oggi, sembra essere il perfetto accordo a cui papa e re giunsero alla fine delle loro trattative di Quierzy, ciascuno, s'intende, mirando a raggiungere il proprio scopo. Quale fosse la sostanza della Promissio Carisiaca è facile intuire dai fatti che si svolsero a breve distanza di tempo. In cuor suo il papa dovette esultare del raggiungimento dei suoi intenti. Il re franco lo assicurava della restituzione a lui, come a successor di san Pietro, dei beni del Ducato romano, dell'Esarcato di Ravenna e della Pentapoli, con pieni diritti non solo religiosi, ma altresì civili e politici. Del diritto dei Bizantini su di essi non si parlò più. Pipino alla sua volta s'impegnava a fondo nella guerra contro Astolfo, fino al riconoscimento e all'esecuzione dell'accordo di Quierzy, che doveva aprire ai Franchi, in un prossimo futuro, la via alla conquista del regno longobardo, che sarebbe stato incorporato all'impero di Carlo Magno. Alla Promissio Carisiaca Stefano II volle fosse data solenne consacrazione il 28 luglio 754, col rinnovamento del rito biblico, già compiuto dal legato di papa Zaccaria nel 751. Stefano II in persona, con la certezza che un fatto nuovo era sul punto di compiersi, per volere divino, nella storia del Papato, nella chiesa dell'abbazia di Saint-Denis, ove aveva preso dimora, pose con le sue mani sul capo di Pipino la corona dell'unico regno dei Franchi, e rinnovò per la seconda volta il rito con cui Samuele aveva unto (di mala voglia però) Saul a re d'Israele e campione di Iahvè. Associati al rito sacro erano con Pipino i figli Carlo e Carlomanno, e il papa minacciava di scomunica i grandi che avessero tentato di eleggere un re d'altra discendenza. Padre e figli ebbero il titolo di patrizi romani. Un nuovo stato politico si estendeva così a diagonale fra Ravenna e il mar Tirreno che bagnava le sponde del Ducato romano; uno stato fondato unicamente su un teologico diritto divino dedotto dal pasce oves meas del Vangelo, ma che non aveva a difesa di questo diritto altra arma che quella spirituale della scomunica, mentre a rintuzzare le aggressioni occorrevano armi temprate di buon metallo. Di qui la necessaria alleanza conclusa a Quierzy nel 754 tra il fondatore della dinastia carolingia e il fondatore del potere temporale della Chiesa. Il primo metteva la sua spada al servizio del secondo; e questi lo proclamava l'«Unto di Dio», intangibile perché posto sotto l'egida del volere divino, finché, s'intende, avesse mantenuto i suoi impegni come «advocatus Ecclesiae».
Non m'importa di sapere se Stefano II previde l'avvenire tempestoso che la Promissio Carisiaca preparava alla vita della Chiesa (quante volte m'è parso udire la sua voce gemente che sembrava venire da non so quale dci tre regni dell'aldilà [Par., XXI, 91-102] e diceva: «Vous l'avez voulu, George Dandin, vous l'avez voulu»!), e se lo stesso Pipino e più ancora i suoi successori fossero pienamente e interamente soddisfatti di sentirsi, al pari di Saul, controllati nella loro politica dal nuovo Samuele. Ho voluto rievocare questa fondamentale pagina di storia unicamente per intendere il pensiero di Dante. Il quale, per altro, mostra d'ignorare del tutto gli eventi svoltisi fra il 751 e il 754. E ciò è tanto più notevole in quanto egli ritiene che alla formazione del Patrimonium della Chiesa e alla pretesa di un dominio di questa in temporalibus avesse contribuito la donazione di Costantino, di cui non negò mai la storicità, ma della quale era convinto che il vicario di Dio avesse falsato il significato, attribuendosi, contro lo spirito e la lettera del Vangelo, un dominio sovrano contrario alla pia intentio del donatore e al volere divino (Mon., III, X, 13-7): sì che, secondo il pensiero di Dante, era da augurarsi che quella donazione in base alle leggi imperiali fosse ormai da revocare (Mon., II, X, 1-3).[6]
Ora, nei documenti relativi ai fatti anteriori al 755, al documento pseudo-costantiniano mai è fatta allusione, anzi essi sembrerebbero escluderlo.
La prima volta che Dante accenna all'intervento dei Franchi contro i Longobardi è nella Monarchia, III, X, 18-9; e lo fa in modo molto confuso, influenzato da quell'emerito confusionario che è fra Tolomeo da Lucca, il quale continuò il De regimine principum di san Tommaso (III, capp. 10 e 18), come aveva ben visto il Witte; perché è proprio il domenicano lucchese che fa incoronare imperatore Carlo Magno da papa Adriano, mentre a Costantinopoli imperava Michele, anzi che Irene. Caratteristica di fra Tolomeo è poi, in particolare, la conseguenza che dal fatto tiravano coloro che ragionavano come lui: «Propter quod dicunt quod omnes qui fuerunt Romanorum Imperatores post ipsum [scilicet Carolum], et ipsi advocati Ecclesie sunt et debent ab Ecclesia advocari: ex quo etiam sequeretur illa dependentia quam concludere volunt» (Mon., loc. cit.). Tolomeo infatti lo informava (cap. 18): «Adrianus ... imperium in personam magnifici principis Caroli a Graecis transtulit in Germanos; in quo facto satis ostenditur, qualiter potestas imperii ex iudicio papae dependeat». Al che Dante risponde secco: quella translatio fatta da papa Adriano, non fu fatta da lui a norma del diritto, ma anzi fu da parte sua un' «usurpatio iuris», la quale «non facit ius», perché diritto, per Dante, è solo quello che è conforme al volere divino (Mon., II, ii, 4-5).
Ma su Carlo Magno Dante ritorna anche nel poema. Prima di tutto in lnf ., XXXI, 16-8, per ricordare la «dolorosa rotta» di Roncisvalle, «quando / Carlo Magno perdé la santa gesta» contro i Saraceni, nel 778. La storia di quel fatto gli era nota dalla Chronica di Turpino e dalla Chanson de Roland. Né v'erano nell'evento altri motivi che potessero frenare l'ardore della sua fantasia di poeta e della sua fede di cristiano. Vien poi l'accenno a lui nel canto VI del Paradiso (vv. 94-6). Qui riappare in pieno la confusione delle notizie in base alle quali la lotta fra il Papato e gli ultimi re longobardi sarebbe per Dante una lotta essenzialmente religiosa: «E quando il dente longobardo morse l la Santa Chiesa ...». Dai tempi di Liutprando in poi la lotta fra i Longobardi e il Papato assume un carattere prevalentemente politico quale si era ormai rivelato dagli accordi di Quierzy, come abbiamo già avuto occasione di vedere sull'ottima scorta del Bertolini. Falso è poi che nel 773 Carlo Magno, soltanto re dei Franchi, abbia potuto combattere contro i Longobardi, «sotto le ali» dell'aquila imperiale. Soltanto frate Tolomeo poteva mettergli in testa questa bizzarra idea. La quale, oltre che bizzarra per lo storico, era poi per Dante una usurpatio iuris da parte del papa, fosse questo Adriano I oppure Leone III, perché nessun papa al mondo può fare ciò che è contrario al manifesto volere di Dio: «Usurpatio iuris non facit ius»! Ingenuo!
E tuttavia la colpa di Adriano non offusca la simpatia che Dante dimostra per Carlo Magno, in quanto questi ad altro non intese che a soccorrer la santa Chiesa, morsa dal dente longobardo, come campione della fede di Cristo. E come campione della fede, Carlo Magno è collocato, insieme a Giosuè, a Giuda Maccabeo, a Orlando, a Guglielmo d'Orange, a Renoardo, a Goffredo di Bouillon e a Roberto Guiscardo, tra gli spiriti beati «che giù, prima / che venissero al ciel, fuor di gran voce, l sì ch'ogni musa ne sarebbe opima» (Par., XVIII, 28-48); ma nel cielo di Giove, tra gli spiriti che in un grado superiore di beatitudine s'ingigliano all'emme, per formare l'immagine dell'Aquila, c'è posto, si, per Costantino, ma non per Carlo Magno. È una cosetta che non tutti i commentatori fanno rilevare. Se il duro giudizio usurpatio iuris non facit ius opera come colpa solo su papa Adriano, al credere di Dante, non sarebbe però giusto che Carlo Magno se ne avvantaggiasse nella beatitudine eterna.
2.- Ma anche per l'evento dell'incoronazione di Carlo Magno a imperatore da parte di Leone III, nella notte di Natale dell'8oo, nessun documento storico c'induce a supporre che fosse tirata in ballo la donazione di Costantino. Anzi, tutto quello che sappiamo parrebbe cospirare a farcelo escludere. In quel momento sedeva sul trono imperiale di Bisanzio, non l'imperatore Michele, ma l'imperatrice lrene. Fanatica avversaria dell'iconoclastia, essa, sebbene
anzianotta, dicono fosse un'ammiratrice di Carlo Magno (il quale del resto era sui cinquantotto anni, cioè più anziano di lei di circa un decennio) e che gli mandasse in dono simbolico la «tunica inconsutile «di Cristo (loann., 19, 23). Nella Gallia ve n'era già una, donata dall'imperatrice sant' Elena ad Agritius vescovo di Treviri; e a Treviri è poi rimasta in seguito. Nel 1844 fu esposta a un pubblico d'oltre un milione di devoti. Ma pare che Gesù n'avesse un'altra, parimente inconsutile, di ricambio; però leggermente più corta e più stretta; più attillata, insomma. E questa appunto Carlo Magno, appena l'ebbe ricevuta da Irene, fece trasportare il 13 agosto dell'800 nel monastero femminile di Argenteuil, presso Parigi, ed ivi fu conservata fino alla rivoluzione francese.[7] Il breve idillio accarezzato da Carlo e Irene (se è vero quello che nella Chronica, v, 31, narra Ottone di Frisinga, che prende la notizia da Frutolfo) suscitò la più viva reazione a Costantinopoli, con la definitiva cacciata della terribile imperatrice; e Niceforo, che le successe, riprese la guerra coi Franchi per il dominio dell'Italia. Potrebbe darsi che proprio durante la guerra franco-bizantina, o poco dopo, qualcuno, in Francia o nell'Italia devota a Carlo Magno e al Papato, non esitasse a elaborare il falso che va sotto il nome di Donatio o Constitutum Constantini. Ma non può affermarsi con certezza, perché nessun documento di questo periodo vi fa sicuro riferimento prima delle Costituzioni pseudo-isidoriane, altro falso fabbricato intorno alla metà del secolo IX. Il che, per certe somiglianze, ha indotto taluno a prospettare la possibilità che la falsa Donatio costantiniana sia uscita dalla stessa fucina di quelle. E per ciò che riguarda la stesura del documento, la cosa è certamente pensabile. Ma se si guarda al contenuto della Donatio, credo che essa debba farsi risalire a quel complesso movimento di falsi che abbraccia la leggenda della visione d'Eliopoli, cui si ricollega lo pseudo-Dionigi nell'Epistola ad Polycarpum, la diffusione di false reliquie e le arbitrarie deduzioni teologiche con le quali si era giunti agli accordi di Quierzy nel 754. Lo spirito che collega tutti questi fatti è lo stesso. Il falso della Donatio si ricollega al falso della visione d'Eliopoli, e il ragionamento con cui lo pseudo-Costantino, dopo aver citato il Tu es Petrus e il Tibi dabo claves (Matth., 16, 18-9; Constitutum, § 10), giustifica la sua immensa donazione a papa Silvestro, col dire che «ubi principatus sacerdotum et christianae religionis caput ab imperatore caeleste constitutum est, iustum non est, ut illic imperator terrenus habeat potestatem», è identico a quello con cui Stefano II a Quierzy chiese a Pipino la restituzione dei domini longobardi, non ai Bizantini, ma a sé come a successore di san Pietro cui Cristo aveva detto pasce oves meas. La stessa disinvoltura con la quale il falsario del Constitutum pone in bocca a Costantino il racconto immaginario della sua lebbra e della sua miracolosa guarigione per mezzo del battesimo conferitogli da papa Silvestro, non supera l'impudenza dello pseudo-Dionigi (chi fosse costui non s'è mai saputo) che nel secolo V scrive la sua Epistola ad Polycarpum, vissuto nel secolo I, e lo esorta ad avvicinare Apollofane (nome inventato), e a ricordargli quando, insieme a lui (cioè a Dionisio Areopagita qual egli si finge d'essere!), vide la leggendaria eclisse d'Eliopoli nelle più stravaganti circostanze che si possano immaginare.[8]
Voglio dire, insomma, che ci sarà bene stato un momento in cui uno sconosciuto teologo falsificò il documento pseudo-costantiniano (un po' prima delle Costituzioni pseudo-isidoriane); ma quello che conta è che la Donatio non è un falso isolato e inconsueto, giacché è conforme a uno spirito pseudo-apologetico che da tempo aveva preso ad inquinare la letteratura cristiana del Medioevo. Il fatto più grave è che questo falso sia poi riuscito a farsi accogliere in solenni raccolte di sacri canoni e ad essere usato come documento autentico, e peggiore ancora è il tentativo di giustificarlo con argomenti teologici.
Fra i quali pareva che il più assurdo fosse quello attribuito al grande nepotista Sinibaldo de' Fieschi, ossia a Innocenzo IV. Questi, infatti, sulla fine del 1245 interpretava la «donatio» di Costantino a Silvestro come una «resignatio» dell'autorità imperiale, «qua foris antea [cioè prima di farsi cristiano] illegitime utebatur», al sommo monarca costituito sulla terra da Cristo. Ma questa teoria teologica, già combattuta da Uguccione da Pisa, che scriveva la sua Summa super Decreto intorno al 1192, era presa tale e quale dalla lettera che Leone IX, intorno al 1053, dettava al cardinale Umberto de Silva Candida, diretta a Michele Cerulario patriarca di Costantinopoli e a Leone metropolita di Acrida (Migne, P. L., CXLIII, col. 752), come ci fa sapere l'informatissimo Domenico Maffei.[9] Il che apparirà meglio dal confronto col testo di Innocenzo IV :[10]
Leone IX Innocenzo IV
tantum apicem coelestis dignitatis in beato Petro et in eius vicariis prudentissimus terrenae monarchiae princeps Constantinus intima consideratione reveritus, cunctos usque in finem saeculi successuros eidem Apostolo in Romana sede pontifices, per beatum Silvestrum non imperiali potestate et dignitate , verum etiam infulis et ministris adornavit imperialilms, valde indignum [il Constitutum diceva semplicemente:
«iustum non est»] fore arbitratus terreno imperio subdi quos divina maiestas praefecit caelesti .. .
verum idem Constantinus, per fidem Christi catholice incorporatus ecclesie, illam inordinatam tyrampnidem, qua foris antea illegitime utebatur, humiliter ecclesie resignavit, in cuius resignationis memoriale signaculum et plenum rationis mystice sacramentum relicta ab eo scematis principalis insignia pro venerabili anteriorum patrum similitudine retinemus, et recepit intus a Christi vicario, successore videlicet Petri, ordinatam divinitus imperii potestatem …
A parte alcune sfumature, il concetto che Costantino, fatto cristiano, riconobbe la sua soggezione, anche come imperatore, al successore di san Pietro, è identico; ed è esattamente quello già espresso dal falsario della Donatio, anzi è quello di Stefano II, della restitutio a san Pietro dei domini sottratti dagli ultimi re longobardi all'Impero bizantino in Italia. Ma Stefano Il non accenna mai ad una restituzione da parte di Costantino; anzi, diciamo pure che egli mostra di non conoscere il Constitutum.
Al quale non s'accenna neppure in occasione dell'incoronazione e «unzione» (Liber Pontificalis, Vita Leonis, cap. 24) di Carlo Magno a imperatore. Come sappiamo, più tardi questa cerimonia fu interpretata come una «translatio imperii a Graecis in Germanos». In quel momento, questo concetto però non affiora. Evidentemente, papa Leone III pensò piuttosto a ricostituire l'unità imperiale dell'Occidente, che dopo la deposizione di 'Romolo Augustolo era stato aggregato all'Oriente, per farne una solida base alla lotta religiosa e politica contro i Bizantini. Sebbene in quel momento l'imperatrice Irene sembrasse favorire i disegni del papa e del rinnovato «Sacro Romano Impero ll, sparita costei dalla scena politica, i Bizantini non parevano aver nessuna voglia d'assecondare i disegni papali; e lo si vide subito con l'ascesa al trono di Costantinopoli di Niceforo e quindi, nell'811, di Michele, e più ancora con la guerra, scoppiata nell'805, tra Carlo Magno e i Bizantini mal disposti a rinunziare al dominio sull'Italia. La Donatio Constantini parrebbe avere lo scopo preciso di persuadere questi ultimi che la rinunzia all'autorità imperiale sull'Occidente era stata decisa da Costantino a favore di papa Silvestro per le ragioni che Leone IX e poi Innocenzo IV troveranno indicate nel testo della stessa Donatio in modo esplicito. Quella di Costantino fu una rinunzia (restitutio, resignatio) a favore di san Pietro e dei suoi legittimi successori di un potere (potestas) mal detenuto da lui prima di convertirsi al cristianesimo, e un riconoscimento della superiorità del potere sacerdotale su quello terreno. Il falsario poteva nutrir fiducia di successo, confidando sulla generale ignoranza della storia di eventi accaduti cinque secoli prima, e assai meno noti che non al tempo del Valla.
A dir vero, però, il Papato andò assai cauto nel fare uso del falso pseudo-costantiniano, finché esso non fu inserito dal Paucapalea nel Decretum di Graziano. Domenico Maffei, nel volume citato, tenendo conto delle più recenti indagini critiche, ha dedicato un ampio capitolo all'uso e all'interpretazione della Donatio da parte di Graziano e dei canonisti, dal Paucapalea a Guido da Baisio, arcidiacono bolognese, che intorno al 1300 scrisse il Rosarium seu in Decretorum volumen commentaria. È un capitolo ricco di notizie e di interessanti osservazioni, che mette in evidenza la moderazione di alcuni «decretisti», che, ligi evidentemente al principio gelasiano della reciproca indipendenza della Chiesa in spiritualibus e dell'Impero in temporalibus, interpretano la Donatio in senso puramente patrimoniale, ed escludono ogni idea di subordinazione politica dell'Impero al Papato, salva sempre, s'intende, la «reverentia» che gl'imperatori debbono, come cristiani, al pontefice. Tale, ad esempio, Uguccione da Pisa, che nella Summa super Decreto, scritta fra il 1188 e il 1192 (I, dist. 22, c. I, ad vocem celestis), riferita l'opinione di quei che sostenevano «quod imperator habet potestatem gladii a papa», e che Costantino «resignavit beato Silvestro gladium, ostendens non legitime se usum fuisse gladii potestate nec legitime se habuisse, cum ab ecclesia non receperit» (che è, come abbiamo visto, l'opinione di Leone IX e, più tardi, di Innocenza IV), s'affretta ad aggiungere: «Set in hac questione ego aliter sentio sicut invenies dictum infra, di. XCVI, duo». Sì che bene ha fatto il Maffei a collocarlo nel filone dualistico della scienza canonistica classica», che, egli dice, «è filone rappresentato da voci numerose e di alta autorità».[11]
Come si spiega questo fatto, se s'ammetta l'autenticità del Constitutum che parla chiaro? A me pare che non possa spiegarsi se non con la reazione dei glossatori bolognesi discepoli di Imerio, i quali ispirarono al Barbarossa il disgusto ch'egli provò nel II55 per aver letto in Laterano l'insolente iscrizione apposta alla pittura che rappresentava Lotario III inchinato nel 1133 dinanzi a Innocenza II:
Rex venit ante fores, iurans prius Urbis honores:
Post homo fit papae,
«Homo papae», l'Imperatore romano, «del divo Giulio erede, successor di Traiano», coronato dalle mani del papa, quasi suo vassallo! L'affresco del Laterano è stato studiato da M. Maccarrone,[12] il quale, come al solito, pretenderebbe di persuaderei che il Barbarossa aveva torto d'indignarsi, quasi che l'idea del vassallaggio dell'Impero alla Chiesa non fosse affiorata in Leone IX, cento anni prima. E di vassallaggio appunto era parso al Barbarossa che intendesse Adriano IV nella lettera che questi gli aveva scritto il 20 settembre 1157, affidandola ai due messi papali alla dieta imperiale a Besançon. Le proteste suscitate dalla lettura del documento papale tra i partecipanti alla dieta si convertirono in un vero tumulto quando uno dei due messi, che alcuni vorrebbero fosse proprio Rolando Bandinelli (il futuro Alessandro III), osò chiedere, audacemente, da chi dunque se non dal papa avesse ricevuto la potestà imperiale Federico Barbarossa. Lo stesso imperatore, presente, dovette adoprarsi a calmare gli animi e a impedire che il messo papale fosse ucciso dal conte, palatino Ottone di Wittelsbach! In quell'occasione l'Hohenstaufen rispose al pontefice con la lettera del I’ottobre di quell'anno, la quale dimostra l'ascendente che sul suo animo esercitava l'insegnamento che i primi glossatori bolognesi di Diritto civile avevano ricevuto da Imerio, il grande maestro che, sulla soglia del secolo XII, aveva richiamato lo studio del Corpus iuris civilis alle sue fonti classiche. Scriveva tra l'altro il Barbarossa al papa:
Cumque per electionem principum a solo Deo regnum et imperium nostrum sit, qui in passione Christi filii sui duobus gladiis necessariis ad regendum orbem subiecit, curnque Petrus apostolus hac doctrina mundum informaverit [I Petri, 2, 17]: «Deum timete, regem honorifìcate», quicumque nos imperialem coronam pro beneficio a domno papa suscepisse dixerit, divinae institutioni et doctrinae Petri contrarius est et mendacii reus erit. Quia vero hactenus honorem ac libertatem aecclesiarum, quae iamdiu indebitae servitutis iugo depressa est, a manu Egyptiorum studuimus eripere et omnia eis dignitatum suarurn iura conservare intendimus, universitatem vestram super tanta ignominia nobis et imperio condolere rogamus, sperantes, ne honorem imperii, qui a constitutione Urbis et christianae religionis institutione ad vestra usque tempora gloriosus et imminutus extitit, fidei vestrae indivisa sinceritas tam inaudita novitate, tam presumptuosa elatione imminui patiatur; sciens, omni ambiguitate remota, quod martis periculum ante vellemus incurrere, quam nostris temporibus tantae confusionis obprobrium sustinere.[13]
Questa coraggiosa dichiarazione del «buon Barbarossa» (peccato che i nostri dantisti non ardiscano ricordarla a proposito di Purg., XVIII, 119) dovrebbe essere stampata in testa al terzo libro della Monarchia di Dante, tanto il pensiero di questo collima col pensiero di quello. Ed è il pensiero dei glossatori bolognesi del Corpus iuris civilis e perfino di qualche «decretista», come appunto Uguccione. Proprio per questo alla seconda dieta di Roncaglia, del novembre 1158, nell'atto di rivendicare le regalie usurpate all'Impero, il «buon Barbarossa» volle l'assistenza dei giuristi bolognesi, per avvalersi della loro competenza su quello che le leggi emanate da Giustiniano avevano stabilito. A Roncaglia ben quattro discepoli di Imerio, il grande maestro che riconducendo lo studio del diritto romano alle sue pure fonti sta, sulla soglia del secolo XII, quale iniziatore del più importante aspetto dell'umanesimo classico, resero testimonianza ai diritti dell'Impero nella persona del Barbarossa. I loro nomi sono riuniti nel noto epigramma col quale si finge che lo stesso Imerio morente li presenti a chi gli chiedeva di indicare il suo successore, secondo la narrazione di Ottone Marena:[14]
Bulgarus os aureum, Martinus copia legum, Mens legum Ugo, Iacopus id quod ego.
Ma sembra che da quest'orecchio qualche storico non ci senta; ad esempio, Michele Maccarrone,[15] il quale prospetta i fatti narrati tenendo conto solo del giudizio della Curia papale.
Certo, l'amico Arsenio Frugoni[16] ha ragione di notare che la lettera di Wezel al Barbarossa del 9 marzo 1152, in cui la donazione costantiniana è dichiarata mendacium e fabula heretica, attesta «una completa alleanza tra le istanze di riforma religiosa e la più esasperata coscienza del diritto imperiale di Roma»; ma gli storiografi del Barbarossa, come Ottone di Frisinga, Goffredo da Viterbo e Gerhoh di Reichersberg, per negare l'autenticità della Donatio, ricordano il fatto storico che Costantino stesso, prima di morire, divise l'impero fra i suoi tre figli, e ad uno toccò l'Italia con Roma; e altrettanto fece Teodosio il Grande fra i suoi due figli. Era un argomento che avrebbe dovuto tagliare la testa al toro. Ma dopo c'era stata di mezzo la Promissio Carisiaca e più tardi era venuta l'incoronazione di Carlo Magno da parte di Leone III, e non molto dopo un ignoto teologo senza scrupoli per la gloria di Dio aveva confezionato il Constitutum pseudo-costantiniano, nella persuasione che l'argomento del pasce oves meas avesse bisogno della conferma di un fatto positivo. E il fatto positivo, inventato dalla ferace fantasia di quel teologo, fu proprio quello che tagliò davvero la testa al toro; e la Donatio entrò con Innocenza III «decisamente nel linguaggio papale», come ben dice il Maffei.[17]
Il quale tuttavia ritiene che «anche con Innocenza III il privilegio costantiniano non assurge ad argomento per l'affermazione della dipendenza dell'imperatore dal papa, del dominio su tutto l'impero d'Occidente». Sfido io: non ne aveva bisogno, poiché aveva trovato qualcosa di meglio, nel testo di Geremia, 1, 10:
«Ecce constitui te hodie super gentes et super regna, ut evellas et destruas et disperdas et dissipes et aedifices et plantes», che egli applica al sommo pontefice della Chiesa Romana, «quem in beato Petro sibi vicarium [Rex regum et Dominus dominantium] ordinavit» (Migne, P. L., CCXV, coll. 277-80). Nel pasce oves meas detto da Cristo a san Pietro è contenuto tutto quello che Dio commise a Geremia! Quando è così, che bisogno c'era della Donatio di Costantino? E tuttavia era utile a sapersi che «vir Constantinus egregius imperator, ex revelatione divina per beatum Silvestrum fuit a lepra in baptismo mundatus, Urbem pariter et senatum cum hominibus et dignitatibus suis, et omne regnum Occidentis ei tradidit et dimisit» (Migne, P. L., CCXVII, coll. 481-2), come aveva detto Leone IX. Però Dio era stato più esplicito con Geremia, che pure non era papa.
Ma nonostante l'argomento storico addotto da Ottone di Frisinga, da Goffredo da Viterbo e da Gerhoh di Reichersberg, anzi che mettere in dubbio l'autenticità del Constitutum attribuito a Constantino, i «civilisti» bolognesi preferirono non discutere la questione se esso fosse autentico o apocrifo, e parvero dapprima non fare molta attenzione alle varie interpretazioni che ne davano i canonisti. Soltanto quando il Papato cominciò a trarre dalla Donatio le più audaci conseguenze politiche (e ciò assai prima di Innocenza III, come ci attesta Ottone di Frisinga nel Chronicon, IV, 3, e come risulta dalla protesta del Barbarossa per l' «inaudita novità» di Adriano IV, che questi più tardi s'adoprò invano a chiarire), i civilisti parvero accorgersi che da parte dei canonisti si affermavano cose insolite cui conveniva opporsi. Discutere dell'autenticità del documento pseudo-costantiniano era in quel momento piuttosto difficile, sia perché il falsificatore aveva fatto abilmente sparire ogni traccia della sua personalità, del luogo e del tempo nel quale aveva compiuto il falso, sia perché, mentre essi tacevano, i canonisti ormai da un pezzo ne avevano vantata l'origine costantiniana come sicura, sia infine perché da altre parti si sapeva dell'editto di Milano e che Costantino aveva con donativi e concessioni favorito la Chiesa (cfr. i donaria immensa di cui parlavano Graziano, che pure ignora il Constitutum,[18] e il Chronicon di Ottone di Frisinga, loc. cit.). Perciò i civilisti, senza attardarsi sulla questione dell'autenticità della Donatio, ne impugnano la validità, come appare dalla glossa all'Authentica, I, t. 6 «Quomodo oporteat», ad vocem conferens generi, oppure ne danno un'interpretazione patrimoniale quale non era certo quella di Leone IX, di Gregorio IX, d'lnnocenzo IV e dei decretalisti che ad essi tennero bordone.
Il primo posto fra i glossatori del Corpus iuris civilis che reagirono vigorosamente alla politica di supremazia papale sull'Impero spetta certamente ad Accursio, come il Maffei ha dimostrato con sicura conoscenza delle fonti e con cauta circospezione nell'interpretarne il pensiero.[19] Se qualche dubbio resta nel pensiero d'Accursio circa la validità della Donatio costantiniana, esso se mai parrebbe riguardare i beni donati dal punto di vista dell'uso che la Chiesa poteva farne (cfr. anche Dante, Mon., II, x, 1-3); ma egli non sembra averne alcuno per quel che concerne la iurisdictio sovrana su di essi, ciò che Dante ripete (Mon., III, X, 16) con l'espressione «inmoto semper superiori dominio [scilicet Imperii], cuius unitas divisionem non patitur». Allo stesso modo Azzone, in una glossa siglata al Digesto, aveva detto: «Falsum ergo dicunt qui predicant eam [scilicet Romam] esse sub papa»; ed Ugolino: «apparet ergo civitatem romanam imperatoris esse non pape».[20]
Trascurata dai civilisti la questione dell'autenticità e limitata la discussione al problema della validità giuridica del documento costantiniano, quei che avevano interesse a ritenerlo pienamente valido, sì da poterne trarre tutte le più ardite conseguenze politiche che ormai ne traevano Gregorio IX e Innocenzo IV, dovevano ridere sotto i baffi, vedendo che anche questi buoni civilisti, dopo tutto, erano «brava gente» e facilmente addomesticabili. E ciò il Maffei dimostra con lusso di citazioni, specialmente su un particolare che interessa un punto della Monarchia dantesca.[21]
3.- Questo punto, che ritengo non ben capito dal Ricci nella sua «Edizione Nazionale», pubblicata sotto gli auspici della Società Dantesca Italiana,[22] riguarda coloro che «Maxime fremuerunt et inania meditati sunt in romanum Principatum qui zelatores fidei cristiane se dicunt» (Mon., II, X, 1-3). Chi siano costoro è facile indovinarlo.
lvi s'accenna, a mio parere, ad un argomento intorno al quale civilisti e canonisti si son soffermati spesso, come il Maffei ci ha fatto sapere, mettendolo in piena luce: voglio dire l'argomento della possibilità di una revocatio certis de causis da parte dell'Impero delle donazioni fatte alla Chiesa. Non starò qui a ripetere quelle che, secondo Dante, erano a suo tempo le disposizioni della Chiesa nei riguardi dell'Impero e che, a suo giudizio, rendevano revocabili, non solo la donazione di Costantino pur fatta con «pia intenzione» (Mon., II, XI, 8; cfr. III, X, 16-7), cioè «forse con intenzion sana e benigna» (Purg., XXXII, 138; Par., XX, 56), che tuttavia «fé mal frutto» (Par., xx, 56), non però per colpa di Costantino, ma altresì tutte le donazioni imperiali dopo di quella prima.
Intorno all'argomento della «revocatio» il Maffei ci fornisce notizie veramente preziose, che riassumerò brevemente. Alano Anglico, ma di scuola bolognese, ci ha lasciato alcune glosse al Decretum di Graziano già studiate da A. M. Stickler. Di queste glosse di Alano esistono più redazioni. La prima pare composta intorno al 1192, e sarebbe di poco posteriore alla Summa super Decreto di Uguccione. In questa prima redazione il «decretista» inglese s'ispira, al pari del Pisano, al più schietto dualismo per ciò che concerne i rapporti fra il potere spirituale e quello temporale. Invece nella seconda redazione, che pare vada assegnata al 1202 circa, e in opere successive, Alano «si sarebbe ... fatto portatore di princìpi decisamente ierocratici», proclamati da Innocenzo III in poi. Tanto nella prima, quanto, e meglio ancora, nella seconda redazione, «si trova chiaramente formulato uno dei due problemi di fondo posti dalla Donazione, precisamente quello della sua revocabilità da parte dei successori dell'imperatore donante», secondo il noto principio giuridico «par in parem non habet imperium».[23]
Più oltre[24] il Maffei, sulla scorta dello Stickler, parlando di Damaso canonista di scuola bolognese e del suo allievo Paolo Ungaro, riferisce com'essi, fra il 1210 e il 1220, trovassero qualche difficoltà ad accordare col detto principio giuridico la irrevocabilità delle donazioni imperiali, il che li portava a dubitare della validità del Constitutum costantiniano.
Ma più importante su questo argomento è quanto il Maffei ci fa sapere di un altro canonista, anch'esso della scuola bolognese, Giovanni Teutonico, in una glossa al Decreto (dist. 63, in margine al privilegium Ludovicianum). Questo canonista, che glossa Graziano fra il 1216 e il 1217, è in fondo un sostenitore dell'indipendenza dei due poteri secondo il principio gelasiano e si guarda bene dall'affermare apertamente la dipendenza dell'imperatore dal papa; tuttavia, ad assicurare l'irrevocabilità delle donazioni imperiali alla Chiesa, tira fuori un'affermazione di Giustiniano, che non è propriamente una legge, bensì un concetto che, mentre vuoi giustificare la larghezza delle donazioni imperiali alla Chiesa, in realtà viene introdotto proprio nel momento in cui Giustiniano mostra la sua decisa volontà di legiferare, come i suoi predecessori, sui beni ecclesiastici, dei quali l'imperatore Leone aveva decretato l'inalienabilità. Il divieto di alienare o commutare i beni ecclesiastici noceva in certi casi al bene pubblico; perciò Giustiniano decreta di recare alcuni temperamenti alla costituzione di Leone, concedendo (Auth., II, tit. I, 1. Sinimus)la permutazione di taluni beni ecclesiastici, dietro eguale o anche maggiore compenso, evidentemente per togliere ogni sospetto alle autorità ecclesiastiche, ch'egli rassicurava coll'affermazione che a lui, cui Dio aveva dato il dominio di tante cose, era facile dare anche di più di quel che veniva tolto alle santissime chiese, «in quibus» diceva «optima mensura est donatarum eis rerum immensitas».
«Immensitas» nello spazio e nel tempo. Chi legge potrebbe sospettare che Giustiniano avesse avuto voglia di far dell'ironia. Non così i canonisti. Questi anzi, a quanto pare, posero tutta la consueta sagacia a discettare tra loro e coi civilisti su questa «legge imperiale», per vedere se essa per caso non annullasse quello che Giustiniano nelle Institutiones e nel Codice aveva stabilito intorno alla revocabilità «certis de causis» delle donazioni in generale. A questo concetto della «immensitas» delle donazioni fatte alle «santissime chiese», Dante non fa mai esplicita allusione; e anzi ritiene le donazioni imperiali alla Chiesa non solo revocabili «propter ingratitudinem» verso l'Impero e per malo uso che ne ha fatto il Papato, ma anzi auspica che siano al più presto revocate: «Redeant unde venerunt..». E se mai egli ha fatto attenzione al concetto dell'«immensitas», pensando al «mal frutto», questo deve avergli fatto venire in mente l'«avidissima vorago, ... et quaerendi cupiditate miserrima» qual è l'avarizia per Valerio Massimo (IX, 4, I); sì che presto la fantasia poetica gli raffigurerà questa immensa «cupidigia» nella lupa «di tutte brame / ... carca ne la sua magrezza», nell'antica lupa da lui maledetta per la «fame sua sanza fine cupa», perché «dopo il pasto ha più fame che pria». Del resto l'opinione sfavorevole intorno all'insaziabile brama di ricchezza da parte dell'alto clero, o, come si diceva, dei «lupi rapaci» sotto la veste di pastori, aveva un'abbondante letteratura d'oltre due secoli, diffusa anche nel volgo e nei canti goliardici, tanto che qualcuno aveva insinuato perfino l'allegra etimologia di «papa» dal verbo «papàr» (pappare)!
Ma checché sia di ciò, è certo che a questa «immensitas» della legge Sinimus si appigliarono tutti coloro i quali ritenevano che le leggi di Giustiniano sulla revocabilità delle donazioni «certis de causis» (Inst., II, t. 7, 2 ; Cod ., VIII, t. 56,l. 10) non potessero applicarsi al caso delle largizioni imperiali alla Chiesa. E all'argomento dell' «immensitas» accenna Accursio, nella glossa siglata ad Auth., 1, t. 6, conferens generi;[25]ma questo argomento è poco dopo annullato da uno degli argomenti «quod non», ov'è ricordato il principio giuridico «par in parem non habet imperium», non che da un secondo argomento (perfettamente dantesco) che trae origine dai movimenti riformatori dei secoli XI e XII, come ha ben visto l'amico Frugoni nel suo libro su Arnaldo da Brescia già citato: «item, ne turbetur opus [Dei], si clerici intromittunt se in temporalibus».
A dir vero, Accursio in questa celebre glossa non tratta direttamente del problema della «revocatio», bensì della questione, ben più grave, «numquid habet ... papa temporalem iurisditionem in his que sunt imperii, que constantinus imperator donavit beato silvestro pape». E, come sappiamo, egli la risolveva in senso risolutamente negativo, tenendosi rigidamente entro i termini del diritto civile, disinteressandosi di quel che ai suoi tempi accadeva di fatto: «licet solutio facti ad nos non pertineat, solvimus de iure quod non valuit talis collatio sive donatio, ... quia auxit quantum in eo fuit constantinus vel in aliis; non autem in iurisditione, quia sic posset totum imperium perire». Il diritto romano era stato invece scavalcato dalla Promissio Carisiaca, dall'usurpatio iuris, come la chiama Dante, da parte del papa che incoronò Carlo Magno assoggettandolo alla Chiesa, e dall'interpretazione non solo teorica che della falsa donazione di Costantino davano Leone IX, Gregorio IX e Innocenzo IV, prendendola a norma dei loro rapporti con l'Impero e imponendola con l'arma spirituale della scomunica. Questo il fatto gravissimo e scandaloso per la cristianità. Le osservazioni del Maffei sul pensiero di Accursio sono certamente acute; ma ha pensato egli a questi gravissimi fatti che, mentre annientavano la potenza dell'Impero, rendevano lo studio del diritto su cui poggiava sempre più inutile nel corso degli eventi politici?
Il Papato aveva avuto l'accortezza d'allearsi ai Comuni che vinsero il Barbarossa a Legnano. Ma questi aveva avuto la sua rivincita incorporando il regno normanno di Sicilia all'Impero; ché della Sicilia Federico II fece la base di una rinnovata politica imperiale ispirata a quella del nonno, ma temperata di scaltrezza normanna, la quale irritò Gregorio IX e Innocenzo IV. L'onta di Legnano fu lavata dal nipote del Barbarossa a Cortenuova, e il Carroccio dei Comuni collegati fu mandato, con una superba dedica ammonitrice a testimonianza della sua potenza, a Roma, designata da lui come centro della sua politica da estendere a tutta l'Italia, come dirà Dante, «giardin de l'imperio» e «donna di province». A Palermo, sotto il governo degli «illustres heroes Fredericus Cesar et bene genitus eius Manfredus» (De vulg. el., I, XII, 4), fiorirono nobiltà e rettitudine, si diffuse la filosofia aristotelica, nacque la coscienza nuova del popolo italiano e fu parlata, secondo Dante, la prima lingua italiana che l'esule poeta s'adoprerà a liberare dal «turpiloquio dei dialetti» e a rendere veramente «curiale» e «aulica». Per tutto questo, pareva a Dante che il nipote del «buon Barbarossa» dovesse ritenersi «ultimo imperadore de li Romani» (Conv., IV, III, 6), perché dell'Italia s'era occupato soprattutto, a differenza di Rodolfo, d'Adolfo e d'Alberto che l'avevano trascurata per la Germania.[26] La rivincita che Innocenzo IV aveva riportato su Federico II al concilio di Lione e a Parma, e la vittoria di Urbano IV su Manfredi e Corradino con le forze dell'Angioino, non erano valse a spegnere nell'animo di Dante il ricordo e il rimpianto degli ultimi discendenti del «buon Barbarossa», né ad assicurare al Papato il predominio politico che i decretalisti avevano dimostrato spettargli per diritto divino. I Comuni toscani respinsero la pretesa di Bonifacio VIII che s'adoprava ad assoggettarli alla sua giurisdizione; e Clemente V doveva trasferire la sede papale ad Avignone, per un lungo esilio. Intanto, mentre decadeva il Sacro Romano Impero, una non meno grave decadenza politica subiva nel mondo la Chiesa.
Nei momenti più aspri del conflitto tra Papato e Impero, e specialmente dai tempi di Gregorio IX alla morte di Bonifacio VIII e a quella di Clemente, come la pensano i giuristi bolognesi sulla questione della revocatio della donazione pseudo-costantiniana e delle altre donazioni imperiali? Per me questa ricerca, puramente erudita, non ha oggi proprio nessun interesse né politico né religioso; riguarda un passato che non mi augurerei ritornasse; m'interessa invece moltissimo per intendere il pensiero religioso e politico di Dante, i sentimenti cioè che fremevano nel suo animo, e la natura della sua poesia nel plasmare la materia incandescente di tali sentimenti; insomma, per entrare nel suo mondo, cioè nel suo modo di pensare, di sentire, di reagire al mondo a lui più vicino del quale era disgustato.
Ora i giuristi bolognesi, si civilisti che canonisti, è naturale che non rimanessero insensibili alla lotta fra il Papato e l'Impero, alle varie fasi di essa e agli interessi morali, politici e religiosi di ciascuno di loro in rapporto all'ambiente sociale ove viveva. E questo forse, meglio della logica dei testi glossati, spiega certe incoerenze e «accommodements avec le ciel», che il Maffei ha messo in evidenza e dei quali non c'è da meravigliarsi.
Ma questo non deve certo dirsi di quel canonista portoghese, Joao de Deus, che insegnava a Bologna e che in testa al Liber quaestionum del 1248, quando forse per le vie della città del diritto giungevano gli echi dei primi canti dei Parmensi per la distruzione di Vittoria, prendeva a trattare, più estesamente di Giovanni Teutonico e nel senso di Innocenza IV, la quaestio che ci ha regalato il Maffei,[27] «si imperator vel rex possit revocare donationes et privilegia que antecessores contulerunt». Joao de Deus, da canonista convinto, nella solutio cita anche lui Giustiniano «in Auth., de non alienandis vel permutandis rebus ecclesiast., coll. II, § sancimus [o sinimus], ... ubi dicitur quod in sanctissimis ecclesiis optima mensura est immensitas eis donatarum rerum». Ed aggiunge: «presertim cum imperium plus defendatur orationibus ecclesie quam armis et laboribus corporis ut dicit lex canonizata ...». Il che non esclude però che l'Impero abbia il dovere di difendere la Chiesa con la forza delle armi.
E lo stesso deve dirsi del principe dei decretalisti, l'Ostiense, ossia Enrico da Susa, il «fans iuris», che commentò le decretali di Gregorio IX e d'Innocenza IV. Anch'egli insiste sul concetto dell'immensità delle donazioni fatte alla Chiesa; e quanto alla revocabilità da parte dei successori del donatore, liquida il principio «par in parem non habet imperium» coll'affermazione: «Pro certo dare et auferre puerile est».[28] Veramente le «certae causae» indicate da Giustiniano e da Dante non parrebbero così puerili. Che se la «revocatio» invocata da Dante non è avvenuta subito, è avvenuta egualmente quando è piaciuto a Dio che avvenisse, proprio come Dante sperava, checché ne pensi P. G. Ricci.
Il Maffei dice doversi considerare la protesta levata, nel 1265, da Manfredi contro siffatte dottrine avverse al pensiero di suo nonno e di suo padre, non che d'Accursio, come «il canto del cigno delle reazioni di parte imperiale».[29] Io credo che il vero canto del cigno contro coloro «qui maxime fremuerunt et inania meditati sunt in romanum Principatum» sia invece la Monarchia di Dante, perché questa non s'arresta agii argomenti d'Accursio o alla scettica ironia d'Odofredo, ma s'eleva a un altissimo concetto religioso e figge l'occhio nell'avvenire, fiducioso nel soccorso divino: «Ma prima che gennaio tutto si sverni...»! Gennaio non è ancora tutto svernato, e quante volte m'è accaduto di riudire, di quando in quando, quella sommessa voce velata di lontananza, che pareva venire da non so quale dei tre regni d'oltretomba: «Vous l'avez voulu, George Dandin, vous l'avez voulu»! Quante in dodici secoli di storia!
4.- Ma alla fine del secolo XIII e quando Dante verosimilmente scriveva la Monarchia (fra il 1307 e il 1308, io penso) le diatribe intorno alla revocabilità delle donazioni imperiali alla Chiesa erano entrate in una nuova fase, per merito di Iacopo di Revigny (morto nel 1296) e di Pietro de Belle-Perche o de BellaPertica (morto nel 1308). Quanto al primo, per ciò che riguarda la vicenda delle sue opere e il suo pensiero, aveva già fatto piena luce E. M. Meijers nella «magistrale indagine» sulla quale il Maffei[30] ha richiamato l'attenzione, recando preziose notizie a me ignote nel 1944, quando uscì il mio volume Nel mondo di Dante. Opere già attribuite al Belle-Perche e perfino a Bartolo da Sassoferrato sono state ora restituite dalla critica al Revigny. La novità del pensiero del Revigny consiste in questo, a giudicare dall'ampio passo riportato dal Maffei,[31] che egli pone sul primo piano della discussione un argomento già accennato, un po' confusamente, nella quaestio di Joao de Deus, di cui abbiamo già parlato, quello cioè della praescriptio. Pareva insomma che alcuni dicessero in sostanza: Mettiamo pure che la donazione di Costantino fosse giuridicamente invalida, anzi mettiamo pure che essa fosse il più spudorato dei falsi; ma dal momento che essa era ormai entrata in solenni raccolte di Sacri Canoni e nessuno ne aveva dimostrata in maniera inconfutabile l'invalidità giuridica, anzi neppure la falsità, cosa venite a reclamarne dopo più di trecento anni la revoca? Ormai la donazione costantiniana, vera o falsa, valida o non valida che fosse all'origine, ha il suggello della prescrizione che rende pienamente legittimo il possesso della cosa donata dall'Impero al Papato, e che questo giustamente detiene. - No - risponde Iacopo di Revigny: «Utilitas bene potuit prescribi, sed subiectio non». Che la Chiesa goda ormai per prescrizione del frutto della liberalità imperiale, passi; ma che la prescrizione s'estenda al dominio sovrano, sui territori di cui gode i frutti, questo mai più.[32] E ancora: «Unde de iure divino et humano quidquid est in orbe subiectum est principi: minister dei est et locum dei ... obtinet in terris». E infine (ciò che per un francese parrebbe inaudito): «Hoc dico propter hoc quod quidam dicunt quod francia exempta est ab imperio: hoc est impossibile de iure ... Si hoc non recognoscit rex francie, de hoc non curo».[33]
Con maggior cautela e molte ambagi parla il Belle-Perche, che scriveva durante il conflitto tra Bonifacio VIII e Filippo, ma in sostanza resta fedele anche lui alla dottrina della scuola d'Orléans. E da lui un tempo ritenevo dipendessero Cino da Pistoia e Dante. Per Dante non c'è dubbio. Nella lettera VI «scelestissimis Florentinis intrinsecis», del 31 marzo 1311, scriveva infatti:
primi et soli iugum libertatis horrentes, in romani Principis, mundi regis et Dei ministri, gloriam fremuistis [cfr. Mon., II, i, 3], atque iure prescriptionis utentes, debite subiectionis officium denegando, in rebellionis vesaniam maluistis insurgere? An ignoratis, amentes et discoli, publica iura cum sola temporis terminatione finiri, et nullius prescriptionis calculo fore obnoxia? Nempe legum sanctiones alme declarant, et humana ratio percontando decernit, publica rerum dominia, quantalibet diuturnitate neglecta, nunquam posse vanescere vel abstenuata conquiri; nam quod ad omnium cedit utilitatem, sine omnium detrimento interire non potest, vel etiam infirmari; et hoc Deus et natura non vult, et mortalium penitus abhorreret adsensus (Ep., VI, 5-7).
Quanto a Cino la cosa ora appare più complessa. Nato di famiglia pistoiese di guelfi neri, coprì da giovane cariche pubbliche quale esponente del suo partito che era al potere. Studente di diritto civile a Bologna, egli dovette aver notizia delle idee che intorno all'imprescrittibilità dei signa subiectionis all'Impero giungevano a Bologna dalla scuola d'Orléans. Che cosa egli pensasse allora di questa dottrina non sappiamo. Ma intorno al 1310 egli s'incontrò con Lodovico di Savoia che si recava a Roma per assistere all'incoronazione di Arrigo VII, e, scelto da lui come suo assessore, fu attratto nella sfera del più acceso ghibellinismo, del quale è testimonianza la Lectura super Codice, composta fra il 1312 e il 1314 su corsi tenuti da lui a Bologna[34] in preparazione al dottorato in diritto civile conseguito nel dicembre 1314, quando ormai era fallita l'impresa dell' «alto Arrigo», ed egli, costernato, ne piangeva poeticamente la morte nella canzone Da po' che la natura ha fine posto. Da tutto ciò par difficile potersi sostenere che Dante nell'Epistola VI avesse conoscenza del commento di Cino al Codice. E d'altra parte, ogni volta che Dante accenna alla sua amicizia col Pistoiese lo fa sempre a proposito di rime anteriori al De vulgari eloquentia. Tuttavia non si può escludere un qualche incontro fra i due amici intorno al 1310-1311, cioè nel momento in cui il Pistoiese, abbandonata la parte nera, s'era ormai fatto seguace delle speranze riposte in Arrigo.
E se il Maffei non fosse sopraggiunto con le sue tenaci ricerche a toglierei questa illusione, avremmo volentieri continuato a credere che Cino fosse rimasto fedele sino alla morte alle dottrine da lui professate nel commento al Codice. Invece no: il caro amico Domenico Maffei ci ha tolto definitivamente quella illusione della fedeltà di Cino all'ideale ghibellino che era stato un tempo quello del «buon Barbarossa», di Federico II e di Manfredi.
Ciò che ha condotto il Maffei a questa scoperta sensazionale è stato dapprima un passo della Lectura super Clementinas constitutiones del decretalista Gilles Bellemère (morto nel 1407), del quale ebbe a darci notizia nel breve e stimolante saggio Cino da Pistoia e il «Constitutum Constantinin.»[35]Il Bellemère, discutendo l'argomento della validità giuridica della donazione pseudo-costantiniana, ci dà questa straordinaria informazione: «Ex quibus patet quod ipse chynus in preallegata lege comperit [Codex, VII, 39, 6] tenuisset predictam donacionem non valere, adhuc non sapiens ea que dei sunt [Matth., 16, 23; Marc., 8, 33] tamquam legista merus; tamen postea in fine dierum propria conscientia ductus veritatem agnovit et dictam eius opinionem correxit».
Sulla scorta di questa e di altre citazioni è stato possibile al Maffei identificare l'opera di Cino a cui allude il Bellemère come ad opera scritta dal Pistoiese «in fine dierum», in un'ampia Lectura super Digesto Veteri conservata dal ms. Savigny 22 (Tiibingen, Stiftung Preussischer Kulturbesitz, Depot der Staatsbibliothek) e dall'Urbin. lat. 172 della Biblioteca Vaticana.
Nel brano riportato dal Maffei[36] il pensiero di Cino sulla validità giuridica della Donatio Constantini è l'opposto di quello che egli aveva espresso con grande chiarezza nel commento al Codice. In questo sosteneva, accettando le due tesi della scuola del Revigny e del Belle-Perche, l'invalidità del documento pseudo-costantiniano e l'impossibilità di applicare la prescrizione ai signa subiectionis all'Impero universale; invece nella Lectura super Digesto Veteri fa sue le argomentazioni di Dino del Mugello e di Riccardo Malombra, fautori della ierocrazia papale, e sostiene, con egual chiarezza e decisione che non ammettono dubbio di sorta, la validità giuridica della donazione, fino ad accogliere l'idea della restitutio o resignatio di Leone IX e di Innocenzo IV: «Preterea non donavit [Constantinus] nec alienavit quod simili modo reassignavit ecclesie quod tenebat ab ea cum et quicquid remanserit eius sit».[37]
Ma vi è di più. Tra gli argomenti addotti da Cino a difesa della sua nuova tesi nettamente ierocratica, ve ne sono due, antidanteschi per eccellenza, che meritano speciale rilievo.
Uno, appena accennato, è quello fondato sull'analogia del rapporto tra Chiesa e Impero al rapporto tra anima e corpo: «Item quia [Ecclesia] preest anime que est immortallis incorruptibillis; Imperium preest corpori quod est mortale etc.; et per hoc, quia preest anime, preesse dicitur etiam corpori cum anima trahit [Urbin. lat. trahat] ad se corpus». È un argomento tipico degli ierocratici, sul quale mi sono fermato più volte.[38] Per Dante invece il rapporto tra Impero e Chiesa è fondato sul rapporto fra natura e grazia, fra ragione e fede, fra ordine naturale e ordine soprannaturale, fra vita terrena e vita eterna. Ora l'Impero non limita nella vita terrena la sua azione al «corpo» soltanto, bensì al corpo umano informato di anima razionale, alla beatitudo huius vite alla quale non si perviene solo coll'ingrassare il «corpo», ma «per phylosophica documenta venimus, dummodo illa sequamur secundum virtutes mora/es et intellectuales operando» (Mon., III,XV,8).[39] Troppo spesso, mi sembra, i dantisti dimenticano quella spiritualità filosofica che, fin dai primi capitoli della Monarchia, consiste nell'assicurare pace e concordia tra gli uomini, sì che il «genus humanum simul sumptum» possa in ogni momento realizzare sulla terra, sul piano della natura, indipendentemente dall'azione della Chiesa, tutta la capacità dell' «intelletto possibile» (Mon., I, III, 8). Un altro argomento caro agli ierocratici era quello del Quodcumque ligaveris ecc. detto da Cristo a Pietro (Matth., 16, 19). Cino non manca di riferirvisi, aggiungendo che «ad omnia clausula illa extenditur, alias tota oracio esset falsa quia cum significacio ex universo etc....». Dante invece (Mon., III, VIII) lo liquida elegantemente col richiamo a un paio di regolette delle Summule di Pietro Ispano,[40] che decretalisti e teologi non gli sembrano tenere nel debito conto.
Come si spiega un così radicale abbandono da parte di Cino della sua interpretazione del diritto romano ai tempi in cui egli era al servizio di Arrigo VII e ne rimpiangeva la morte? Forse qualche luce potrebbe gettare sul caso non comune, ma neppure straordinario, quello che Bartolo, il grande Bartolo di Sassoferrato, rispondeva, nei Commentaria in primam Digesti Veteris partem[41]a chi voleva sapere se insomma la donazione di Costantino fosse valida o no. Dopo aver riferito l'opinione corrente fra i civilisti che la ritenevano invalida, egli passa a esporre quella contraria che la riteneva valida attenendosi ad argomenti altrui, ma senza impegnarsi a fondo. Poi candidamente aggiunge: «Videte, nos sumus in terris amicis Ecclesiae: et ideo dico quod illa donatio valeat. Sed si quis vellet tenere opinionem quod non valuerit, posset respondere ad contraria et probare opinionem suam per casum dictae legis "Digna vox" ... Modo si hoc est verum, donatio illa non valuit ... Ex quo sequitur quod Papa non habet iurisdictionem aliquam. Sed volens favere Ecclesiae, dico quod illa donatio valuit ...».Un discorso siffatto avrebbe indotto Dante a esprimere il suo disprezzo per chi lo faceva e a metterlo nella schiera di chi per avidità di lucro andava «dietro a iura»; e del danaro il grande Bartolo, con un linguaggio accomodante come quello che abbiamo udito, deve averne intascato quasi quanto l'Ostiense.
Ma simile al caso del giurista di Sassoferrato, conosco quello del fiorentino Taddeo Alderotto che, a differenza di Bartolo, «sen giva», invece, «dietro ad Aforismi». Anche questo famoso medico ben noto a Dante, e che dicono fosse avarissimo, della pecunia deve averne racimolata parecchia. Commentando a Bologna le Isagogae di Iohannitius, che servivano d'avviamento allo studio dell'arte ippocratica, Maestro Taddeo incappa in un grosso problema filosofico, in un momento particolarmente grave, un po' dopo il 1277 e un po' prima del 1283. Il grosso problema, discusso a Bologna non meno che a Parigi tra filosofi e teologi, era questo: «An intellectus omnium hominum sit unus vel non». Ben dieci argomenti egli adduce a favore della tesi aristotelico-averroistica affermante l'unità numerica dell'intelletto umano in tutti gli uomini; nove invece, uno di meno, a favore della tesi opposta che ritiene gli intelletti molteplici e individuali, che è la tesi di frate Tommaso e dei teologi. Posto di fronte a questa duplice schiera, qual è l'opinione di Maestro Taddeo? Udiamola. «Ad istam questionem non est congruum respondere, quia ecclesia cum philosophis prioribus discordat, secundum quod patet per tertium librum De anima, in commento. Et ideo tenendum est simpliciter quod anima est diversa in numero in quolibet homine, secundum quod obiectum est; neque curo ut ad argumenta respondeam, sed sufficit sola disputatio. Nec propter ignorantiam quis putet hoc esse, sed solum propter quandam timiditatem, cum dissentiant philosophi et ecclesia». E così Maestro Taddeo se la cavò molto bene e non perse la cattedra bolognese, sulla quale era appuntato il vigile sguardo degl'inquisitori del convento di San Domenico.[42]
Per Maestro Cino da Pistoia, invece, il Bellemère, citato dal Maffei,[43] spiega il brusco passaggio del Pistoiese dalla posizione tenuta quando commentava il Codice (fra il 1312 e il 1314) «tamquam legista merus»a quella di legista annacquato con l'acqua ierocratica che gli mescevano le brocche di Dino del Mugello e di Riccardo Malombra, quale appare nella Lectura super Digesto Veteri, come una specie di crisi religiosa poco prima della morte, «in fine dierum», come una tardiva reminiscenza delle severe parole rivolte da Gesù proprio a Pietro: Escimi di torno, Satana, «quia non sapis ea quae Dei sunt, sed ea quae hominumn (Matth.,16, 23; Marc., 8, 33). E speriamo che sia stato così. Ma, a giudicarne dai suoi amori, pare che le sue rime non sian tutte per Selvaggia. Dante, invece, nel quarto del Convivio e nel terzo della Monarchia è rimasto «legista merus»; e se dal Vangelo ha appreso qualcosa, è proprio questo, che alla Chiesa fu interdetto da Cristo ogni dominio terreno. E questo gli accade non solo nella Monarchia , III, X, 14-7, ma più risolutamente ancora nella Commedia, fedele in ciò al «buon Barbarossa».
Roma, maggio 1968
[1] In Miscellanea Pio Paschini. Studi di Storia Ecclesiastica, «Lateranum», N.S., XIV (1948), nn.i 1-4, vol. I, pp. 103-71.
[2] O. BERTOLINI, Il problema delle origini ecc., cit., pp. 103-4 (dove peraltro, per evidenti errori di stampa, si legge «da quasi tre mesi» e «tra il marzo e il 26 aprile 756»).
[3] lvi, pp. 105-9.
[4] lvi, pp. 139-40.
[5] lvi, pp. 109-13.
[6] Cfr. La mia nota Redeant unde venerunt, nel volume di Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, pp. 408-14.
[7]Queste ed altre notizie s'apprendono dal volume di CH. ROHAULT DE FLEURY, Mémoire sur les instruments de la Passion de Notre-Seigneur Jésus Christ, Paris, Lesort, 1870, pp. 252-6.
[8] I. Cfr. in proposito il mio saggio Memorabile esempio dantesco di «ciance» teologiche, in Saggi e note di critica dantesca, cit., pp. 391-407.
[9] La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano, Giuffrè,1964, pp. 16-7.
[10] C. MIRBT, Quellen zur Geschichte des Papsttums und des romischen Katholizismus, 6a ed. (a cura di K. Aland), Tiibingen, Mohr, 1967, p. 331.
[11] La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 41-2.
[12] Impero e Papato dalla elezione di Federico I alla morte di Adriano IV, in «Lateranum»,xxv (1959), nn.i 1-4, pp. 132-40, con riproduzione del disegno che del dipinto incriminato trasse O. Panvinio (ms. Vat. Barberiniano 2738, fol. 104r-105r).
[13] 1. Monumenta Germaniae Historica, Leges, Sectio IV, Constitutiones, t. I, Hannover, Hahn, 1893, p. 231; cfr. OTTONE DI FRISINGA E RAHEVINO, Gesta Friderici l. imp., III, II, ed. G. Waitz, in «Scriptores Rerum Germanicarum in usurn scholarum», Hannover-Leipzig, Hahn, 1912, p. 179.
[14] Historia Frederici l, ed. F. Guterbock, in Monumenta Germaniae Historica, «Scriptores Rerurn Germanicarum», N. S., VII, Berlin, Weidmann, 1930, pp. 58-60, 163-4.
[15] Impero e Papato ecc., cit., pp. 159-224.
[16] Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1954, citato dal MAFFEI, La Donazione di Costantino ecc., cit., p. 30
[17] La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 46 sgg.
[18] D. MAFFEI, La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 25-6.
[19] lvi, pp. 66-74.
[20] Cfr. ivi, pp. 70-2.
[21] Del quale mi sono occupato nella breve nota già citata Redeant unde venerunt, in Saggi e note di critica dantesca, cit., pp. 408-14.
[22] DANTE ALIGHIERI, Monarchia, a cura di P. G. RICCI, Milano, Mondadori, 1965, pp. 212-3.
[23] D. MAFFEI, La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 43-6.
[24] Pp. 54-6.
[25] D. MAFFEI, La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 66-7.
[26] Su La componente federiciana della cultura dantesca è da vedere la bella conferenza tenuta da A. VALLONE a Monaco di Baviera il 15 maggio 1965, e pubblicata nel volume Dante e Roma, Firenze, Le Monnier, 1965, pp. 347-69.
[27] La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 84-8.
[28] lvi, p. 90.
[29] lvi, p. 92.
[30] La Donazione di Costantino ecc., cit., p. 106.
[31] lvi, pp. 109-11.
[32] lvi, pp. 109-10.
[33] D. MAFFEI, La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 116-7.
[34] lvi, pp. 136, 141.
[35] In «Annali dell'Università di Maceratà», XXVI (1960), pp. 104-5.
[36] La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 142-5.
[37] D. MAFFEI, La Donazione di Costantino ecc., cit., p. 145.
[38] Ma specialmente nel volume Dal «Convivio» alla «Commedia». cit., pp. 167-72.
[39] lvi, pp. 284-94.
[40] Cfr. il mio volume Dal «Convivio»alla «Commedia», cit., pp. 223-35.
[41] Cito ancora da D. MAFFEI, La Donazione di Costantino ecc., cit., pp. 186 sgg.
[42] Cfr. il mio saggetto L'averroismo bolognese nel secolo XIII e Taddeo Alderotto, in «Rivista di Storia della Filosofia», IV (1949), pp. 16-8.
[43] La Donazione di Costantino ecc., cit., p. 141, nota 9.