Dante Alighieri, Opere minori: Convivio - Introduzione
I. - L'opera che si ripresenta in questo volume, a conclusione dell'edizione ricciardiana dell'Alighieri, è forse quella che, nel corso degli ultimi cinquant'anni, ha suscitato le più accese discussioni ed è stata al centro dei più diversi tentativi di fissare le grandi linee dell'itinerario spirituale del Poeta o di stabilirne le coordinate dottrinali, nel corso di una profonda crisi culturale, religiosa e politica destinata a generare la suprema esperienza della Commedia. Le ragioni dell'importanza così particolare del Convivio sono, del resto, evidenti, ove si ricordi che questo libro non solo conclude l'opera della giovinezza e della prima maturità di Dante, ma segna il risoluto passaggio dal momento essenzialmente esistenziale e poetico della Vita Nuova (che Domenico De Robertis ha ben considerato il «manifesto dello "stil novo" nell'unica accezione storicamente autentica») alla complessa meditazione filosofica, etica, linguistica e politica affidata ai trattati teorici (il Convivio stesso, il De vulgari eloquentia e la Monarchia), presto trasfigurata nell'altissimo impegno poetico. Non solo: si tratta di uno scritto evidentemente pensato e steso nei primi anni dell'esilio, al fine sia di rivendicare la dignità intellettuale del suo autore e una fama offuscata dalle vicende della lotta politica e dalla condanna, sia di offrire un insegnamento di sapienza filosofica ed etica ad un pubblico assai diverso da quello dei "clerici" e dei "doctores", costituito da tutte le "anime nobili" che, per essere impegnate nel governo, negli affari e nei doveri della "società civile", restano spesso escluse dalla suprema perfezione umana consistente appunto nell'esercizio della pura virtù intellettiva. A costoro è dedicata infatti l'ardua impresa tesa a elaborare, sotto il segno di un'immagine unitaria della "Sapientia" (e con lo strumento dell'allegoria poetica disposto per il commento di alcune «canzoni»), un "tesoro" di dottrine filosofiche e scientifiche atto a permettere la piena attuazione delle "potenzialità" specifiche della mente umana. Ma il fine ultimo, reso più esplicito nel IV trattato, sembra essere l'offerta di quelle idee e modi di pensare che dovrebbero aiutare chi vive ed agisce nella "città" ad operare per l'avvento della pace e dell'armonia civile, condizione preliminare e indispensabile affinché gli uomini realizzino veramente il proprio destino in questa come nell'altra vita.
La Filosofia, considerata come espressione della Sapienza eterna, immutabile e divina, è, pertanto, insieme, il presupposto e il fine ultimo di un tale ammaestramento che Dante intende trarre da tradizioni, dottrine e "auctoritates" da lui ritenute le più degne di saziare il desiderio e l'amore del sapere sempre dominante in ogni «nobile» spirito. Perché a fondamento del discorso del Convivio sta la profonda persuasione che l'"auctoritas" della Filosofia (e del «Filosofo» per eccellenza, Aristotele, il «maestro di color che sanno») deve essere sovrana e libera nel suo dominio, e che il suo fine è indicare la sola felicità a noi possibile in questa vita. La rivelazione divina - è vero - c'insegna a perseguire, al di là del nostro breve tempo, una beatitudine ininterrotta e senza limiti, la sola assolutamente "pura". Ma ciò non esclude che, già nell'ordine e nell'esistenza mondani, gli uomini possano raggiungere la perfezione che ad essi compete per la loro natura di esseri razionali. E l'Alighieri, approntando il suo "convito", vuole essere, appunto, l'umile, ma necessaria guida che conduce i suoi simili, attraverso il gran mare del sapere di cui conosce le difficoltà e i dubbi, sino all'approdo finale dell' "amor di Sapienza".
Tornerò, più oltre, su questi concetti. Per il momento sarà più opportuno indicare quale avrebbe dovuto essere l"'itinerario" tracciato dal Convivio, secondo il disegno che ci viene fornito da alcune indicazioni dello stesso Autore e dai non molti dati che le suffragano. È certo che le canzoni commentate avrebbero dovuto essere quattordici, e che, pertanto, il libro doveva essere composto da quattordici trattati, preceduti da un proemio, in precisa corrispondenza con una particolare disposizione numerica evidente fin nella struttura dell'opera. Ma, di fatto - come documentano tutti i manoscritti che ci sono pervenuti e confermano gli antichi biografi -, il Convivio restò incompiuto, limitato alla stesura dei primi quattro trattati: il proemio e, poi, nell'ordine, i commenti alle canzoni Voi che 'ntendendo, Amor che ne la mente, Le dolci rime che trattano rispettivamente della ragione e finalità dell'opera, di come, dopo la morte di Beatrice, nacque nel Poeta l'amore della Filosofia, rappresentato sotto la forma lirica dell'amore per una «donna pietosa» e «gentile», della «loda» della Filosofia e della perfezione e felicità che essa concede e, infine, della natura e significato della vera «nobiltà». Tuttavia, Dante doveva avere già steso, almeno nelle sue linee essenziali, un disegno generale dell'opera, giacché, in alcuni passi, accenna agli argomenti destinati ad essere discussi nel VII, XIV e XV trattato. Ma si tratta d'indicazioni così vaghe e generiche da non rendere possibile alcuna fondata illazione sullo svolgimento compiuto del testo. Se, invero, sembra chiaro che il XIV libro avrebbe dovuto trattare della giustizia[1] (ma anche delle ragioni per cui i savi antichi inventarono l'allegoria),[2] il tema del VII è proposto in modo da lasciar adito a diverse supposizioni (forse, la temperanza, ma forse pure il «piacere» d'amore),[3] mentre quello dell'ultimo trattato potrebbe essere stato la liberalità,[4] oppure una dottrina dei «costumi» e delle «vertudi» e di come esse possano diventare «men belle e men gradite» a causa della vanità o della superbia.[5] Come si vede, simili riferimenti sembrano indicare piuttosto l'intenzione di Dante di assicurarsi una notevole libertà nella disposizione finale delle sue "materie", e, insieme, anche il proposito di presentare e considerare il Convivio come un'opera organica, legata a un proprio "filo" teorico sempre presente e meditato. Però essi non sono neppure bastevoli a suggerire un sicuro criterio per individuare le liriche delle Rime che il Poeta poteva avere prescelto come oggetto dei vari commenti.
Si sa che il Barbi ritenne di poter indicare le canzoni Tre donne intorno al cor quale possibile tema per il XIV trattato, Doglia mi reca per l'ultimo e, ancora, Poscia ch'Amor, senza però indicare per questa un sicuro riferimento;[6] e il Contini, accettando tali ipotesi, ha aggiunto anche la canzone Amor, che movi tua vertù dal cielo, della quale dice, con giusta prudenza, semplicemente che poteva esser destinata ad esser commentata nel Convivio.[7] Ma al di là di queste indicazioni, esse stesse plausibili, non sembra possibile andare. Invero, tutti i tentativi compiuti dal tempo del Boccaccio sino ad oggi per "divinare" le intenzioni di Dante hanno dato luogo solo a supposizioni del tutto arbitrarie che lo stesso Barbi[8] ha giustamente condannate.
Accettando, dunque, il Convivio per quel che è, ossia come un'opera incompiuta di cui risulta impossibile una ricostruzione strutturale generale, sarà meglio fissare subito i più sicuri e precisi parametri cronologici. Gli studi del Barbi[9] hanno permesso, a questo proposito, d'indicare alcuni dati del tutto certi, liquidando definitivamente l'ipotesi che una qualche parte di esso fosse stata già scritta quando Dante viveva ancora in patria e che i singoli trattati non fossero stati composti secondo l'ordine in cui li presentano i manoscritti. (Il che non esclude - a mio parere - che l'Autore possa essersi servito di materiali o di appunti già raccolti durante il periodo dei suoi studi filosofici). Non v'è dubbio, infatti, che il Convivio debba essere assegnato al tempo dell'esilio, come testimoniano le celebri, dolenti espressioni di I, iii, 3-4, che parlano, appunto, delle lunghe peregrinazioni nelle terre dove si estendeva la lingua del "sì", o l'allusione all'accensione dei «vapori» di Marte in forma di croce, alla vigilia della «destruzione» di Firenze, per la vittoria dei Neri e l'opera di Carlo di Valois (II, xiii, 22). Altri dati, contenuti nel IV trattato, permettono pure di definire ulteriormente i termini della composizione dell'opera; giacché Federico II vi è citato (IV, iii, 6) come «ultimo imperadore de li Romani - ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti siano, appresso la sua morte e de li suoi discendenti -» (il che mostra che il libro fu scritto certamente prima dell'elezione di Enrico VII di Lussemburgo a re dei Romani [27 novembre 1308]); mentre il ricordo di Gherardo da Camino, come di persona già morta (IV, xiv, 12), sembra indicare che il Convivio, da questo punto in poi, fu steso dopo il marzo del 1306. Fondandosi su tali argomenti, il Barbi[10] concluse correttamente che il IV trattato fosse stato composto dal 1307 a prima del 1309; ma ricordò pure altre ragioni che permettono di definire meglio questi termini cronologici. Difatti, per prima cosa, il De vulgari eloquentia (il cui primo libro è stato scritto avanti della morte di Giovanni, marchese del Monferrato, avvenuta nel febbraio del 1305, e, pertanto, deve essere stato iniziato almeno sul cadere del 1304)[11] viene citato nel Convivio come opera ancora soltanto disegnata.[12] E ciò induce, naturalmente, a ritenere che nel 1304 avesse avuto già inizio la stesura del Convivio. D'altro canto, è opinione abbastanza comune che la Commedia, nella forma in cui ci è pervenuta, sia stata iniziata intorno al 1307, data che spiegherebbe bene l'interruzione del trattato teorico da parte di Dante ormai dominato dal suo supremo impegno poetico. Sicché il Barbi poté dedurre da simili considerazioni che la composizione di tutti i quattro trattati fosse avvenuta tra il 1304 e il 1307, in un periodo particolarmente doloroso dell'esilio, dopo il distacco dalla «compagnia malvagia e scempia» dei fuoriusciti Bianchi e prima del risorgere delle grandi speranze legate all'avvento di Enrico VII.
Sono date, queste, che, in seguito, sono state generalmente accolte, senza grandi variazioni. Per ricordare una delle più recenti e critiche biografie dantesche, basterà dire che anche Giorgio Petrocchi[13] pone la stesura del Convivio sempre intorno al 1304-1307, e principalmente durante il soggiorno lunigiana. Però la Corti,[14] fondandosi su alcuni interessanti argomenti, ha ampliato, ma non di molto, i termini, indicando, per il IV trattato, gli anni tra il 1306 e la fine del 1308 (periodo lunigiana-toscano) e anticipando i primi tre trattati al periodo forlivese e veronese (dal 1303, se non prima, alla metà del 1304), mentre ha supposto che il De vulgari eloquentia sia stato composto nell'intervallo di tempo non brevissimo che avrebbe separato la stesura della prima parte del Convivio da quella del suo ultimo trattato.
Simili quistioni non hanno solo rilevanza per la ricostruzione della biografia dantesca, bensì rivestono notevole importanza per la soluzione di vari problemi sempre emergenti dallo studio di quest'opera e che concernono sia il suo "luogo" nella storia dell'esperienza umana e poetica di Dante, sia l'analisi dei procedimenti e del linguaggio che gli sono propri,[15] sia, ancora, la valutazione della cultura filosofica e scientifica che vi è espressa e la possibile identificazione delle "fonti", sia, infine, i rapporti tra il Convivio e le altre opere dantesche, dalla Vita Nuova al De vulgari eloquentia, dalla Monarchia alla Commedia. Ma, prima di procedere alla discussione di temi così delicati, è bene che il lettore abbia fin d'ora presente, nelle sue linee generali, l'intero svolgimento del testo, in modo da poter direttamente intendere i caratteri specifici dei singoli trattati e ciò che li connette e li distingue. A questo proposito, una considerazione s'impone subito, già avanzata da vari studiosi e, del resto, di per sé stessa evidente: la notevole diversità non solo di struttura, bensì pure di atteggiamento mentale e di linguaggio che distingue il quarto trattato dai due precedenti e dal primo che - si è visto - ha una funzione proemiale. Come è stato spesso notato ed ha particolarmente sottolineato la Simonelli,[16] il secondo e terzo trattato formano, infatti, un «blocco unico», costituito dalla narrazione, dalla spiegazione e dalla «loda» del nuovo amore che ha legato Dante, dopo la morte di Beatrice, alla «bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia» (II, xv, 12); e, in questo senso, essi costituiscono il seguito della Vita Nuova, dalla quale non prendono soltanto l'elemento "formale" del "prosimetrum" (secondo una tradizione che risale a Marciano Capella e a Boezio), bensì, sul filo dell'allegoria, la narrazione di una esperienza esistenziale alla quale non si vuole affatto «derogare» (I, i, 16), perché è la storia stessa di Dante, nel suo difficile ed aspro cammino verso la propria umana perfezione. Certo, l'autore del Convivio sa bene che il tempo della giovinezza è ormai chiuso e che l'età «fervida e passionata» è già alle spalle, dopo anni di lotte, di sconfitte e di sciagure private e civili. Ma se questi trattati stabiliscono davvero - come ha ben detto il De Robertis -[17] «una volta per tutte, per non tornarvi più sopra, il rapporto tra poesia e "sentenza", il passaggio dal significato letterale all'allegoria», nel contesto di una nuova coscienza filosofica e dottrinale, pure continuano a svolgere la loro trama nella "battaglia dei sospiri", al centro del conflitto tra il nuovo desiderio di amore e l'antica, mai spenta memoria di Beatrice. Al di là dei particolari contenuti filosofici e scientifici e della stessa esaltazione della felicità filosofica, l'unica davvero degna dell'uomo, restano pur sempre l'uso emblematico del linguaggio d'amore, il tema poetico della «loda», il volgersi dell'impegno speculativo in forme d'intensa liricità che, specie nelle ultime pagine del terzo trattato, trasfigurano il solenne tono didascalico e dottrinale della prosa. Al contrario, nel quarto trattato, il distacco dalla narrazione è già compiuto; la distinzione tra interpretazione letterale e interpretazione allegorica della canzone è soppressa; l'intero trattato è svolto sotto il puro segno della "teoria" e nella forma di una vera e propria "quaestio" scolastica, condotta secondo una più rigorosa «sintassi» dimostrativa[18] e con l'uso dei procedimenti logici e delle tecniche disputatorie ben collaudate da un secolo di difficili e tesi dibattiti speculativi. Né basta: perché le stesse dimensioni dell'esposizione si dilatano sino a raddoppiare la mole del trattato, accuratamente suddiviso in due parti (vòlte rispettivamente a confutare le opinioni errate intorno alla «nobiltà» e a provare la «vera» soluzione di Dante), mentre l'argomento discusso ha adesso un'evidente, esplicita rilevanza etica ed anche politica, dopo che, nei precedenti due trattati, è stato invece affrontato il gran tema dell'ordine delle gerarchie celesti e quello della perfetta armonica «disposizione» del cosmo.
Tutto ciò, insieme al variare qualitativo e quantitativo delle "auctoritates" citate ed al mutare degli stessi «livelli formali» (sintattico, stilistico e lessicale), ha indotto a supporre[19] anche una «distanza» testuale e «cronologica» tra il terzo e l'ultimo trattato, ricca di conseguenze per quanto concerne sia la storia interna del Convivio, sia lo stesso sviluppo dell'esperienza dantesca, sia altri problemi connessi intrinsecamente con il particolare carattere di un pensiero che non fu mai costretto dalle maglie delle norme scolastiche, ripercorse spesso il suo cammino, tornò sui propri dubbi e sulle proprie certezze. Ma, se l'impossibilità di conoscere davvero il disegno generale dell'opera non permette di valutare sino in fondo il significato di questo effettivo "distacco" o "frattura", resta il fatto difficilmente contestabile che, nel corso del Convivio, si può riconoscere un mutamento di atteggiamenti, d'interessi e di predisposizioni dottrinali, proprio nel momento in cui ormai urgeva il nuovo clima poetico e spirituale della Commedia.
2. - Ciononostante, tutti i quattro trattati hanno in comune una fondamentale ispirazione filosofica (intesa, addirittura, a trasformare il linguaggio d'amore nello "schermo" di un ammaestramento speculativo ed etico): la fedeltà a procedimenti di misura scolastica, la coerenza interna nella scelta dei temi che sono sempre profondamente legati alla personale vicenda del Poeta. Cosi, al primo trattato è affidato il compito di difendere la sua fama di uomo e di dotto, dopo la condanna infamante e I'esilio, nonché il prestigio presso quei potenti e quelle corti al cui servizio era ormai costretto a porre la sua opera di "diplomatico" e di "oratore". Ma Dante vuole pure indicare, sin dall'inizio, il pubblico per il quale scrive, costituito non solo da quei «nobili» di condizione e di "stato", sui quali insisté forse troppo anche il Barbi, ma, anche e piuttosto, da tutti coloro che condividono la sua sete di sapienza e sono, perciò, "veri nobili";[20] e intende riconoscere la continuità tra quest'opera dottrinale e il mondo poetico della sua giovinezza, istituendo un diretto ed esplicito rapporto con la vicenda della Vita Nuova. Sa pure che, secondo i canoni della tradizione retorica, deve giustificare il «parlare di sé» cui è costretto dalla sua stessa infelice sorte. Né ignora - ed è questo, senza dubbio, il tema essenziale di tutto il trattato che illumina lo stretto rapporto con la genesi del De vulgari eloquentia - di dover spiegare, con argomenti di natura filosofica, le ragioni che lo inducono ad usare, in un dominio così diverso dall'usata poesia d'amore, una lingua, come il volgare, ritenuta generalmente indegna di trattare così alte quistioni dottrinali. Si tratta, insomma, di temi apparentemente distinti e diversi che, in realtà, s'intrecciano continuamente e trovano la loro compiuta giustificazione nella decisa rivendicazione di un proprio compito di ammaestramento, nell'appello ad un pubblico nuovo, sottratto agli studi dalle necessità della «vita civile», e nella celebrazione di una lingua che potrà condurre all'«amoroso uso di sapienza» chiunque voglia raggiungere la propria naturale perfezione. Né è un caso che Boezio ed Agostino siano invocati come le "auctoritates" più propizie per un'opera nella quale la necessità di difendere la propria fama, bene così fragile e insidiato dall'insipienza, dall'invidia e dai difetti involontari di cui ognuno è portatore, si unisce alla certezza di un dovere da compiere al quale è legata la sua stessa dignità di uomo di cultura. Dante sa di non sedere «a la beata mensa» dove «lo pane de li angeli si manuca», di non appartenere, cioè, a coloro che, per essere filosofi o teologi "professionali", hanno il pieno diritto di impartire dalla loro cattedra il «cibo» delle somme verità.
È però tra quelli che, «fuggiti de la pastura del vulgo», non hanno più «comune cibo» con il gregge oscuro dei «miseri», né vanno, come i bruti, mangiando «erba e ghiande», il vile cibo che, nella simbologia del Convivio, indica un modo di vivere chiuso nel puro soddisfacimento sensibile dei bisogni e dei piaceri. Uomo che vuole placare la «sete» di conoscenza da cui è assillato ogni intelletto, gli è stato però concesso di raccogliere «a' piedi di coloro che seggiono» alla mensa dei dotti qualcosa di «quello che da loro cade». Ma di queste briciole del sapere egli non solo si è nutrito, bensì ne ha trasfuso la «divina» virtù nelle sue canzoni dottrinali, scritte nella lingua comunemente usata dalla maggior parte degli uomini d'Italia e da lui riconosciuta nel suo nuovo e alto valore. Sicché ora può imbandire un nobile "convito" che impartisca il cibo costituito dalle verità esposte nel linguaggio "fabuloso" delle canzoni. E poiché le vivande forti e saporose possono essere ben gustate solo se mangiate insieme a un pane "condegno", il commento sarà, appunto, «quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata», ossia l'esplicazione della «littera» e dell'«allegoria» celata nella poesia, esposta nella stessa lingua.
Non meraviglia, quindi, che, a partire dal v capitolo, Dante dedichi la massima parte del proemio alla quistione dell'uso dottrinale del volgare, con lo scopo dichiarato di difendere il suo commento dalla "macula" «sustanziale» di non esser scritto nella lingua dei dotti, di esser fatto, cioè, «di biada e non di frumento». Con queste parole, egli sembra accettare l'inferiorità del volgare come lingua di cultura nei confronti del latino. Però le ragioni recate per giustificare la propria scelta investono un vasto arco di problemi, alla vigilia dell'elaborazione del De vulgari eloquentia, e sono di grande interesse per valutare l'effettiva novità del Convivio e la sua posizione nella cultura del tempo. Dante scrive, infatti, che poiché le canzoni sono scritte in volgare, non potrebbe usare per commentarle (ossia, per render loro «servigio») una lingua più nobile, più virtuosa e più bella di quella nella quale esse sono composte. Ma più che questo argomento, interessa la sua affermazione che un commento steso in latino avrebbe esposto l'interpretazione allegorica delle liriche proprio a coloro che non erano in grado di leggerle, ignorando il volgare, mentre l'avrebbero sottratta ai tanti che, per non conoscere l'antica lingua, non avrebbero potuto comprenderla. Del resto, gli "addottrinati", conoscitori del latino, non hanno bisogno, come gli altri, di un'esplicazione dell'allegoria, necessaria, invece, per il pubblico al quale il Poeta vuole rivolgersi. Un commento latino steso per illustrare delle poesie in volgare sarebbe stato «disconvenevole» in ogni senso, non avrebbe servito al suo scopo e, prima o poi, sarebbe stato volgarizzato da altri.
Non v'è dubbio che Dante mostra qui d'intendere perfettamente la condizione tipica della vita intellettuale del tempo, ormai caratterizzata dall'emergere di un nuovo ceto di uomini di cultura, estranei alla "routine" scolastica ed alla sua lingua, ma già desiderosi di elevare la propria lingua a strumento e tramite delle più alte forme del sapere. Proprio per questo (e perché vuole liberamente donare agli altri quella «sapienza» alla quale è finalmente asceso dall'esperienza di una giovinezza dominata dall'amore per Beatrice e dal culto della poesia, dei più tardi studi filosofici e dell'amara e drammatica vicenda dell'esilio), egli è certo di dover usare solo la lingua conosciuta e adoperata dai più, in modo da recar loro, con vera e pronta «liberalità», un dono utile e non richiesto. Infine, negli ultimi quattro capitoli, l'argomentazione dantesca tocca altri "loci" non meno efficaci: l'amore naturale della propria loquela nativa che gli ha imposto di usare un «volgare» per nulla inferiore a quelli transalpini già assurti a lingue di cultura, ed al quale non mancano le possibilità di diventare «perfetto» come il latino. Un tale amore si manifesta proprio nell'esaltazione ("magnificazione") del volgare, nell'esserne geloso e nel difenderlo dai suoi detrattori; e, invero, l'aspra invettiva scagliata da Dante contro «li malvagi uomini d'Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano» vuole essere ed è la condanna delle «abominevoli cagioni» che hanno indotto le varie «sette» dei suoi avversari a considerare «vile» una lingua così «preziosa» il cui solo torto è quello di risuonare anche «ne la bocca meretrice di questi adulteri». Invece, l'amore che unisce Dante al suo «volgare» è «perfettissimo» giacché è prodotto da tutte quelle cause che - secondo la dottrina dell'Ethica aristotelica - sono «generative» e «accrescitive» della vera amicizia e del vero amore: ossia, la «vicinanza» (e, certo, nulla gli è stato più vicino di quella lingua), la «bontà» (che è la capacità di esprimere ogni sentimento o concetto della mente), e, ancora, il riceverne beneficio e la consuetudine e la comunanza di studio. Anzi, Dante dichiara di dovere proprio al «volgare» le perfezioni che sono proprie di ogni uomo: l'«essere» (perché quella lingua ha permesso l'intesa e l'unione dei suoi genitori) e l'«essere buono», giacché solo per mezzo del «volgare» gli è stato possibile apprendere il latino e, quindi, le dottrine e il sapere che rendono l'uomo perfetto. Non solo: usando il «volgare» per la sua poesia, egli ha avuto con quella lingua la più profonda comunanza di studio, e l'ha aiutata a conservarsi, ad «acconciare sé a più stabilitade», ad assumere i moduli e i «numeri» dell'espressione lirica. Ma ha avuto pure con essa la massima «consuetudine» e continua «conversazione», perché se ne è sempre servito per «diliberare», «interpetrare» e «questionare». «Pane orzato», capace di sfamare i tanti desiderosi di sapienza, il «volgare» sarà, dunque, la «luce nuova» e il «sole nuovo», ormai pronto ad prendere il luogo già tenuto dal latino come veicolo e via del sapere, e, proprio perciò, destinato a illuminare coloro che, non conoscendo l'antica lingua, sono pure costretti nelle tenebre dell'ignoranza.
3. - Il secondo trattato è presentato come il commento letterale ed allegorico della canzone Voi che 'ntendendo, una lirica che - se si deve accettare quanto scrive Dante, rinviando a un complesso calcolo astronomico - sarebbe stata scritta certamente dopo l'8 agosto 1293, ma la cui datazione ha dato luogo a complicate quistioni di cronologia.[21] Rinvio, per il momento, la discussione relativa al rapporto tra la «donna gentile» del Convivio e quella della Vita Nuova e sui problemi di grande rilievo esegetico che ne derivano. Ma va detto che la narrazione della storia d'amore espressa dalla «littera» è subito posta sotto il segno dell'allegoria e che, anzi, è pure ben distinto l'uso del procedimento di esegesi allegorica proprio dei teologi da quello tipico dei poeti. Schematizzando una trattazione non priva di ambiguità, si può notare che Dante afferma di servirsi per,il suo commento di questa seconda allegoria, definita come una «veritade ascosa sotto bella menzogna», ossia una narrazione di eventi che, in realtà, non sono mai avvenuti e sono, pertanto, del tutto "letterari", ma che l'immaginazione del poeta costruisce, con arte e fantasia, in modo da suggerire verità più profonde. Una tale allegoria è, dunque, diversa da quella dei teologi, il cui fondamento è una verità certa ed assoluta, testimoniata dalla «littera» della Scrittura, opera di Dio e, come tale, posta al riparo da ogni falsità o inganno. Dante (che però allude anche all'interpretazione «morale» e «anagogica», senza chiarirne particolarmente la misura e il limite) sembra dichiarare esplicitamente che la verità narrata nella canzone non è tale di fatto, bensì è un'invenzione poetica che gli permetterà di esprimere e comunicare verità e dottrine altrimenti inaccessibili per il pubblico al quale è destinato il Convivio.[22]
Il che spiega - a mio parere - non solo il contesto particolare spesso dottrinale e letterario del secondo e terzo trattato, bensì pure il rapporto di "continuità" sùbito istituito con la Vita Nuova, la cui "storia" è qui "riassunta", però nella nuova dimensione spirituale proposta dall'identificazione allegorica della «donna gentile» con la "Filosofia-Sapienza". Si tratta, insomma, di una "continuità" che reca sempre il segno di una disposizione d'animo e di pensiero nuove e diverse, dominata da un intenso "entusiasmo" filosofico ancora estraneo all'autore della Vita Nuova. E, soprattutto, tra i due "tempi" di questa vicenda si stende l'ombra dolorosa di un decennio di eventi drammatici che hanno profondamente mutato la stessa condizione esistenziale dell'Autore, il suo «luogo» nell'ordine sociale e «civile», la sua stessa vocazione di uomo di lettere e di dottrina. Se il tempo giovanile della grande poesia d'amore non è affatto dimenticato o negato e, anzi, viene rievocato come necessario "antefatto" del Convivio, il dotto che ha appreso la lezione dei filosofi, l'esule che ha conosciuto l'amarezza della sconfitta e la sottile insidia della «calunnia» può adesso guardare a quel passato solo come a una vicenda ricca di segrete verità e di ascose rivelazioni della quale può adesso parlare, rivelandone l'essenziale "ragione".
Per questo, dopo aver spiegato il modello di allegoria che seguirà, Dante chiarisce la duplice interpretazione svolta nel commento e dedicata, nella prima parte, all'illustrazione della «littera» e nella seconda all'esplicazione del significato "celato". Come risulta dal diretto confronto dei testi, il commento «litterale» è sempre prevalente nei confronti di quello allegorico, in questo come nel trattato seguente, anche se la stessa esposizione della «littera» è assai funzionale alle intenzioni dottrinali e "pedagogiche" del Convivio, perché si arricchisce di "excursus" di contenuto filosofico e scientifico che offrono all'Autore l'occasione per proporre alcune quistioni di singolare importanza per la comprensione dei suoi interessi e della sua cultura. Né il fatto che la «littera» - com'era del resto anche nell'uso delle interpretazioni teologali - impegni maggiormente Dante toglie valore alla vera novità dell'opera, costituita dall'allegoria esplicita e dai temi sintomatici e rivelatori che essa pone in luce.
Lo dimostra appunto lo svolgimento del II trattato, tutto incentrato sulla "tempesta dei pensieri" sperimentata da Dante, nel conflitto tra la perenne memoria di Beatrice e il sorgere del nuovo sentimento di amore per la «donna gentile» che lo richiama alla vita. Il Poeta si rivolge a coloro dai quali dipende la vittoria o la sconfitta di questo amore, ossia alle Intelligenze celesti (identificate tradizionalmente con gli Angeli) che presiedono al movimento del cielo di Venere e così determinano - secondo i princìpi di una concezione astrologica "moderata", accettata comunemente sia da Alberto Magno, sia da Tommaso d'Aquino - le tendenze o "predisposizioni" umane. Perciò - utilizzando un procedimento spesso usato nel Convivio - il commento alla «littera» si trasforma sùbito in un'ampia esposizione dottrinale che non solo tocca quistioni particolari concernenti la natura universale dei cieli e delle loro influenze, ma tratta anche del carattere e funzione delle Intelligenze separate nell'ordine cosmico, della loro creazione e del loro numero. Il "sistema" illustrato è, naturalmente, quello aristotelico-tolemaico, costituito dai cieli dei sette pianeti e da quello delle stelle fisse, nonché - sempre sulle orme di Tolomeo - dal Primo Mobile o «Cristallino», cielo che con il suo moto velocissimo imprime il movimento ai cieli sottostanti. Ma Dante sa bene che una tradizione di carattere religioso e teologico (ricostruita nelle sue grandi linee in un egregio saggio di Bruno Nardi)[23] pone ancora, al di sopra dei nove cieli mobili, l'Empireo, il cielo di fuoco e di pura luce, luogo dell'assoluta quiete e della perfetta immobilità, «soprano edificio del mondo» che chiude in sé tutto l'essere, luogo della «Deitade» e della suprema contemplazione beatifica, primo annunzio della futura immaginazione del Paradiso.
Per quanto concerne le Intelligenze separate, o nature angeliche, Dante ritiene che esse possano essere infinite nel loro numero, così come ricorda che Platone le identifica con le idee e che i «gentili» le riconobbero e adorarono come Dei e Dee. Accetta la partizione in nove gerarchie angeliche proposta dalla dottrina teologica; e, secondo una tradizione confermata anche dai Moralia di Gregorio Magno, riconosce nei Troni l'ordine angelico che presiede al terzo cielo. Si tratta di un particolare spesso discusso dai commentatori, i quali hanno rilevato la divergenza di questo passo con quanto è detto nel XXVIII del Paradiso, dove le Intelligenze motrici del terzo cielo sono i Principati, secondo l'ordine proposto dallo Pseudo-Dio-Dionigi nel De caelesti hierarchia e in altri testi. Comunque, i Troni sono qui invocati come causa del nuovo amore del Poeta e della condizione in cui egli si trova a causa della loro «operazione» e «circulazione». Poi, dopo aver spiegato il significato dei vocaboli usati per indicare «la memoria di quella gloriosa Beatrice» («anima») e il «frequente pensiero» per la «nuova donna» («spirito»), Dante commenta la «littera» delle tre strofe centrali, ossia la «battaglia» dei «diversi pensamenti» (II, vii, I), mostrando come la «potenza» del nuovo amore, effetto della virtù delle Intelligenze celesti, che lo hanno rigenerato, trasferendolo da Beatrice morta nella "donna gentile viva", venga progressivamente vincendo la memoria e l'«antico pensiero». Ma, di nuovo, la narrazione è interrotta da un altro "excursus" sull'immortalità dell'anima che è, anche, in certo modo, un commiato da «quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento». Invero (dopo un ulteriore "excursus" dottrinale, dedicato alla teoria della visione e della percezione), l'esposizione letterale si conclude con il riconoscimento della «vittoria» del «nuovo amore» per la «donna gentile» e «pietosa».
L'interpretazione allegorica - che ha inizio con il XII capitolo - muove, di nuovo, dal tempo della morte di Beatrice, quando Dante, «perduto lo primo diletto de la sua anima», cercò la sua prima consolazione nella lettura della Consolatio boeziana e nel De amicitia di Cicerone. Ebbe così inizio la sua ricerca filosofica che lo indusse a frequentare «le scuole de li religiosi e ... le dispute de li filosofanti», quei luoghi in cui la "Filosofia-Sapienza" «si dimostrava veracemente», cioè era insegnata e degnamente proposta.
Sono parole che alludono al periodo degli studi e della formazione filosofica dell'Alighieri, situato concordemente dai biografi tra il 1291 e il 1294-1295,[24] sul fondamento delle sue stesse indicazioni che parlano di un tempo di trenta mesi, in capo ai quali «cominciò tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero». Sul carattere di questi studi, sui maestri che li impartirono, sui testi che lesse e gli autori che maggiormente frequentò Dante non fornisce però alcuna notizia. Si sa tuttavia - il commento fornisce le notizie essenziali - come gli studiosi abbiano avanzato supposizioni ed ipotesi di varia consistenza ed attendibilità, richiamandosi, soprattutto, a quanto si conosce sui maggiori centri d'insegnamento filosofico e teologico allora attivi in Firenze (gli Studi conventuali dei Domenicani di Santa Maria Novella, dei Francescani di Santa Croce e degli Agostiniani di Santo Spirito) e sui più importanti maestri che allora v'insegnavano. Ma non si dovranno dimenticare anche altre vie di ricerca suggerite da un probabile periodo di soggiorno bolognese di Dante, verso il quale già da tempo si è rivolta l'attenzione di chi ha indicato la probabile influenza sul Poeta di un maestro francescano, Bartolomeo da Bologna, autore di un Tractatus de luce[25] (che sembra, in effetti, vicino a taluni aspetti della sua cultura), o di chi, come la Corti,[26] ha, più di recente, richiamato l'attenzione sulle dottrine logiche e filosofiche di Boezio di Dacia e di Gentile da Cingoli, assai presenti in quel tempo nello Studio bolognese. In ogni caso - e quali che fossero i testi e gli autori da lui più frequentati - Dante insiste sulle prime difficoltà incontrate nello studio della filosofia e sulla sua confusa comprensione delle verità, intese «quasi come sognando», secondo lo stile delle "visioni" della Vita Nuova; ma parla pure dei «vocabuli d'autori e di scienze e di libri» da lui trovati, mentre cercava consolazione e rimedio al suo dolore, che l'indussero a considerare «una somma cosa» la Filosofia, «donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri» e ad immaginarla - seguendo appunto l'esempio di Boezio - «come una donna gentile» e «misericordiosa».
Fu proprio l'amore perfettissimo per la Filosofia, di cui iniziò a sentire la «dolcezza», a «levarlo dal pensiero del primo amore» e a restituirlo a nuova vita; e di questo volle parlare nella sua canzone, «sotto figura d'altre cose», giacché le rime in volgare non erano degne di esprimere palesemente l'amore per la Filosofia, «figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima». Un'immagine, questa, che se pure è vòlta a celebrare la suprema perfezione della "virtù speculativa", tema costante della tradizione "peripatetica" (ma particolarmente esaltato in alcuni celebri passi albertini), richiama, tuttavia, anche atteggiamenti speculativi e simbolici propri della cultura del XII secolo e del suo culto di un'unica, eterna Sapienza. Non si spiegherebbe altrimenti perché, in vari passi del Convivio, Dante usasse immagini e parole di chiara derivazione scritturale per celebrare, a sua volta, la Filosofia come «non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima» dell'«Imperadore del cielo», e, addirittura, come la Sapienza divina di cui parla Salomone. Sul carattere del tutto particolare di questa concezione e «allegoria», certamente non riducibile alle più comuni fonti scolastiche, sul suo significato nell'economia teorica del Convivio e sui problemi di esegesi che essa genera ha, però, a lungo discusso Bruno Nardi (e più recentemente anche la Corti), ai cui contributi si rinvia nel commento.[27] Ma, certo, per il Poeta, la "Filosofia-Sapienza" è anche la suprema forma di conoscenza e di sapere alla quale sono ordinate e disposte tutte le altre scienze, in quel compiuto sistema dello scibile qui sùbito proposto in diretta analogia con l'"ordo mundi".
Nel XIII capitolo, Dante, ispirandosi a concezioni e simbologie che studi più o meno recenti hanno posto bene in luce, presenta, infatti, la corrispondenza perfetta tra la struttura dell'universo, disposta nell'ordine dei cieli, e un modello di ordinamento enciclopedico del sapere rispecchiato dallo stesso "libro" del mondo. Va detto, anzi, che - sull'esempio di tecniche assai comuni pure nelle "memorie" locali e negli "schemi" enciclopedici del tempo - l'ordine in cui sono disposte le scienze viene identificato con quello dei cieli, mediante un procedimento analogico che assimila le loro caratteristiche e proprietà a quelle celesti ed ai loro "influssi". Sicché "Imago mundi" e "forma Sapientiae" sembrano essere, in realtà, due aspetti speculari della stessa perfezione cosmica, quasi due linguaggi o sistemi di segni tra loro compiutamente corrispondenti.
Naturalmente, i passi danteschi del XIII e XIV capitolo sono stati oggetto, da tempo, di una minuziosa esegesi che ha indicato le possibili fonti, di volta in volta, in Pier delle Vigne, Restoro d'Arezzo, fra' Remigio Girolami, Alano di Lilla, Nicola Trivet, Ugo di San Caro, Giovanni di Salisbury, Isidoro, ecc., con proposte talvolta assai convincenti. Rinviando al commento,[28] per quanto concerne i particolari di questa così significativa espressione dell'"enciclopedismo" di Dante, ricorderò qui soltanto che la Grammatica è paragonata al cielo della Luna, la Dialettica a quello di Mercurio, la Rettorica a quello di Venere, l'Aritmetica a quello del Sole, la Musica a quello di Marte, la Geometria a quello di Giove, l'Astrologia a quello di Saturno. Per le dottrine che eccedono il numero delle sette Arti del trivio e del quadrivio, la Fisica e la Metafisica sono comparate al cielo delle Stelle fisse (e la Metafisica, in particolare, alla Via lattea o Galassia). Non basta: il Primo Mobile è, per così dire, il "luogo" celeste corrispondente alla Filosofia morale; laddove l'Empireo, cielo "teologico" per eccellenza, è paragonato alla Teologia (il cui rapporto con la "Filosofia-Sapienza" resta peraltro assai ambiguo, giacché qui, con le parole di Salomone, la Teologia è detta «la colomba mia e la perfetta mia», forma suprema del sapere che «perfettamente ... fa il vero vedere nel quale si cheta l'anima nostra»).
Comunque, l'assimilazione del terzo cielo con la Rettorica suggerisce a Dante di attribuire alle virtù retoriche di Boezio e di Cicerone l'inizio del suo amore per la Filosofia che l'analogia istituita permette sùbito di riferire all'influsso del cielo di Venere e delle sue Intelligenze motrici. Ma egli insiste nel sottolineare che, in qualsiasi disciplina o scienza, la «scrittura», ossia la capacità di persuasione e di eletta e lucida esposizione, è come la «stella piena di luce» capace di illuminarne la verità e il valore. Poi, seguendo lo schema dell'allegoria, torna a «lodare» la Filosofia, «la quale veramente è donna piena di dolcezza, ornata d'onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade». Gli «occhi di questa donna» sono le dimostrazioni razionali, che impossessandosi dell'intelletto innamorano la mente; lo «spiritel d'amore» è il pensiero che nasce dallo studio della Sapienza, poiché «amore» e «studio», nell'allegoria dantesca, sono la stessa cosa. Sicché, a conclusione del trattato, Dante può "dichiarare" che l'"oggetto" del suo amore è, appunto, «la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia», di cui l'immagine della «donna gentile» è solo lo "schermo" allegorico.
4. - Il commento alla canzone Amor che ne la mente occupa tutto il III trattato, dedicato alla «doda» della «donna gentile» già identificata con la "Filosofia-Sapienza". Il richiamo esplicito ad una forma di espressione poetica particolarmente sperimentata nella Vita Nuova è evidente. Ma, ancora una volta, il passato "poetico" e il linguaggio e i "simboli" dell'operetta giovanile sono trasposti in un contesto dottrinale originale e profondamente diverso, dove pure la ripresa di certi moduli lessicali o di temi topici della poesia d'amore (soprattutto, la bellezza "paradisiaca" della donna e la «soavità» e «dolcezza» dei suoi portamenti e del suo sorriso) acquistano un significato comprensibile solo nel diretto confronto con la più matura cultura filosofica di Dante e la sua adesione ad autori e testi particolarmente impegnati nell'accogliere il tema aristotelico della "felicità speculativa" e della «perfezione» umana che da essa deriva. (E, in primo luogo, oltre ai testi stessi dello Stagirita, si possono indicare alcune pagine del commento tomista e, soprattutto, della lettura albertina dell'Ethica).
Già l'interpretazione letterale che occupa i primi dieci capitoli insiste, infatti, sul timore di Dante di essere ingiustamente accusato di leggerezza, per esser passato dalla dolente memoria di Beatrice al nuovo amore per la «donna gentile»; accusa dalla quale può difendersi, proprio dimostrando l'assoluta nobiltà di "madonna", ricordando «lo multiplicato incendio» che, con forza invincibile, lo induceva a «parlare d'Amore», e a«commendare» la persona amata. A ciò fu mosso - scrive - dal desiderio di onorare sé stesso che non poteva esser meglio realizzato se non onorando l'oggetto della sua «amistade»; ma vi fu pure indotto dal bisogno di conservare quell"'amicizia", rendendosi simile a "madonna" «per lo mostramento de la buona volontade». Per questo, egli ha prima parlato della «ineffabile condizione di questo tema», quindi della propria insufficienza a trattarlo, derivata dalla stessa natura del suo oggetto che supera i limiti del pensiero e del linguaggio. L'amore - com'è detto, con parole che lasciano trasparire la possibile, diretta influenza dei testi pseudodionisiani - è, infatti, un «unimento spirituale» dell'anima e della cosa amata al quale l'anima stessa si volge prima o poi, «secondo che è libera o impedita». Ma la ragione di questo istinto naturale e invincibile è che ogni «forma sustanziale» deriva da Dio, prima causa, ma trae la propria particolare diversità dalle "cause seconde" e dalla materia nella quale discende. Citando le parole del Liber de causis (un testo di chiara derivazione procliana e, appunto perciò, singolarmente affine alle dottrine dello Pseudo-Dionigi), Dante afferma che la «divina natura» è partecipata dalle varie forme, così come la «natura del sole» è partecipata dalle altre stelle, secondo la loro diversa perfezione e «nobiltà». Ora, l'anima umana è, certo, la «forma» più nobile tra tutte quelle generate nel mondo sublunare; ed è perciò che, come in Dio è naturale il «volere essere», così l'anima vuole essere e desidera essere unita a Dio per rafforzare e perfezionare la propria esistenza. Si unisce, quindi, «per via spirituale», con quei ''beni'' che le appaiono più perfetti; e questa unione è ciò che vien detto amore, dal quale nascono «continui pensieri» vòlti ad esaminare e a mirare il valore di "madonna".
L'amore parla alla mente, la parte «nobilissima» dell'uomo che sovrasta tutte le altre sue «potenze», giacché, appunto per mezzo della ragione, l'anima umana partecipa della natura divina ed è da essa così «nobilitata» e sciolta dalla materia da poter accogliere in sé la luce divina alla stessa guisa degli angeli. Giustamente i filosofi hanno chiamato l'uomo «divino animale», ben sapendo che la mente appartiene solo a lui ed alle divine sostanze separate. Ed essa è certo - Dante lo afferma, esplicitamente, avvicinandosi a dottrine tipiche anche delle tradizioni aristoteliche più "radicali" - la «deitade» presente nell'uomo, unico luogo degno del discorso di amore.
Da queste conclusioni muove il III capitolo per svolgere un ampio "excursus" sull'amore come principio, desiderio e forza presente in tutti i gradi dell'Essere, dai corpi semplici ai composti, dai minerali alle piante, dagli animali agli uomini che, accogliendo in loro, per la propria nobiltà, la natura di tutte le cose, possiedono pure tutti questi amori. Unicamente proprio e specifico della loro «quinta e ultima natura» (che Dante chiama «vera umana o, meglio dicendo, angelica», usando parole davvero assai diverse dal particolare lessico tomistico e dalla concezione dell'anima che esso esprime) è però l'amore per la verità e la virtù, dal quale nasce la sola vera e perfetta amicizia di cui parla Aristotele nell'viii libro dell'Ethica. Un tale amore, che esclude ogni «sensibile dilettazione» è, appunto, quello che parlava nella mente del Poeta, dicendo cose talmente alte e sublimi che in gran parte egli non era capace di comprendere e che lo lasciavano confuso e smarrito; anche quelle che egli poteva appena comprendere non sapeva esprimere con le sue parole.
Due sono, dunque, le «ineffabilità» di cui deve adesso dire, l'una intrinseca alla stessa nobiltà della «donna gentile» ed al modo in cui essa soverchia la «povertà d'intelletto», l'altra che deriva dai limiti del linguaggio. Nondimeno Dante, pur scusandosi de «la debilitate de lo 'ntelletto» e della «cortezza del nostro parlare», procede a «commendare» "madonna", commentando le tre stanze della canzone che sono rispettivamente dedicate alla sua «lode» generale, a quella dell'anima e del corpo nella loro congiunzione, e alla «lode» particolare dell'«anima» ed a quella del «corpo». Il verso «Non vede il sol, che tutto 'l mondo gira» offre così lo spunto per un nuovo "excursus" che, nella meditata economia dell'opera, sposta l'ammaestramento scientifico e dottrinale dall'esposizione delle gerarchie angeliche e dell'ordine celeste perfettamente corrispondente a quello delle scienze, alla particolare concezione della terra, centro dell'universo, e dell'alternarsi in essa della luce e della tenebra, del freddo e del caldo. Nel capitolo v viene quindi spiegato, sul fondamento principale di testi di Alfragano e di Alberto Magno, quali siano le ragioni del succedersi del giorno e della notte e come, durante l'anno solare, ciascun punto della terra riceva, in misura uguale, anche se con diverso ritmo, la stessa quantità di luce e di tenebra. Per Dante è anche questa una prova dell'«ineffabile sapienza» che tutto ha ordinato e che la mente umana è così «povera» a comprendere. Ma sùbito, nel commento del verso «Ogni Intelletto di là su la mira» (cap. VI), a questo tema ne succede un altro che illumina anche la profonda influenza esercitata sul Poeta da uno dei più tipici documenti della tradizione platonica e neoplatonica medioevale, appunto il Liber de causis: il nesso tra l'ordine universale, il sistema delle cause e degli effetti che lo costituisce, la suprema causa divina e la "catena" delle gerarchie che da essa deriva. Citando quel testo, l'Alighieri afferma che ogni cosa conosce la propria causa nella misura in cui ne partecipa, così come conosce i propri effetti in quanto li produce e li causa. Dio, «universalissima cagione di tutte le cose», conoscendo sé stesso, conosce pertanto in sé tutto ciò che ha prodotto, mentre tutte le altre cose conoscono Dio solo in quanto ne sono effetto e per quanto Dio partecipa loro di sé, recandole in essere. Le «Intelligenze separate» conoscono, invece, le cose in Dio e, in particolare, la «forma umana», in quanto è presente in modo intenzionale e intellettivo nella sua mente; ma la conoscono soprattutto le «Intelligenze motrici» dei cieli che sono «specialissime cagioni» di essa e di tutte le forme generate. Tale forma (che è «regola» ed «esempio» della generazione dei singoli individui) è in sé perfetta; e solo il difetto della materia nella quale si individua fa sì che non si manifesti in tutta la sua perfezione. Non è questo, però, il caso di "madonna" che le Intelligenze celesti contemplano, proprio perché essa «è così fatta come l'essemplo intenzionale che de la umana essenzia è ne la divina mente e, per quella, in tutte l'altre», soprattutto e in primo luogo nelle menti degli Angeli motori dei cieli ai quali spetta di «fabbricare», usando gli influssi celesti, tutte le cose a loro inferiori. Essa è, dunque, non solo «perfettissima» nel genere umano, bensì «più che perfettissima», perché riceve la bontà divina in misura sovrabbondante rispetto a quanto spetti alle creature umane.
Sono temi, questi, sui quali Dante torna, sùbito dopo (cap. VI), quando passa alla «lode» dell'anima della «donna gentile», ove, trattando del discendere della divina bontà in tutte le cose e dell'ordine di perfezione che ne consegue, si richiama, di nuovo, al Liber de causis, per dire come ciascuna cosa riceva da Dio, «simplicissimo principio», quella partecipazione alla sua «bontà» che le compete, secondo il suo luogo nella scala dell'essere, così come il sole illumina diversamente i vari corpi che ricevono la sua luce in un grado e intensità maggiori o minori, secondo la loro natura particolare. Nello stesso modo, la bontà divina è ricevuta, in primo luogo, dalle «sustanze separate», ossia dagli Angeii che, per esser privi di materia, ne partecipano nel più alto grado possibile alle creature; quindi, dalle menti umane, in parte impedite dal limite loro imposto dalla materia; poi, in modo sempre decrescente, dagli animali («la cui anima tutta in materia è compresa», anche se «alquanto nobilitata»), dalle piante, dai minerali e, infine, dalla terra, «materialissima, e però remotissima e improporzionalissima» alla pura e «simplicissima» virtù intellettuale divina. Ma questi «gradi generali» dell'essere non escludono, anzi implicano l'esistenza di altri «gradi singulari» che rendono meno netta e più sfumata la gerarchia dei vari ordini dell'essere e la loro partecipazione diversa alla bontà della Causa prima. Lo dimostra l'esistenza di uomini che sono così «vili e di sì bassa condizione» da apparire quasi come bestie, e, all'opposto, di uomini così «nobili» da essere quasi come gli Angeli. A costoro appartiene la «donna gentile», nella cui anima la bontà divina discende come nell'Angelo. Lo rivelano il suo parlare e quegli atti chiamati solitamente «reggimenti e portamenti», nei quali si manifesta la razionale misura dell'uomo: un parlare che genera nella mente di chi l'ode un «pensiero d'amore», ed «atti» che fanno ridestare l'amore stesso nelle anime ben nate dove è già in potenza. Perciò la «donna gentile» è esempio a tutti di bontà, virtù e retta operazione; è pure cosa talmente miracolosa da rappresentare la vivente testimonianza della possibilità dei miracoli pure ai loro più ostinati negatori.
L'anima è la stessa «bontade» della donna (cap. VIII); mentre il corpo è la sua bellezza che, a sua volta, è espressione sensibile della bontà, manifesta, soprattutto, negli occhi e nel sorriso, ossia nei due "mezzi" che maggiormente rendono visibile l'anima e nei quali essa maggiormente opera. Dante li chiama, appunto, i «balconi de la donna che nel dificio del corpo abita», perché ivi, sebbene «velata», l'anima spesso si manifesta, rivelando le «passioni» che le sono proprie («grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna»), quando non riesce a dominare sé stessa e a celarle. Soprattutto, nello sguardo e nel riso, traspaiono «cose» troppo superiori ai nostri poteri intellettuali, così come la luce del sole vince ogni capacità dell'occhio umano, anche se forte e, in modo ancora maggiore, quella di un occhio debole. Ora, di simili «cose» non si può parlare, se non muovendo soltanto dai loro effetti, giacché non possiamo avere una piena conoscenza della natura intrinseca di Dio, delle sostanze separate o della materia prima. Nello stesso senso, non è possibile dire della vera bellezza di "madonna" altro che parlando dell'ardore di amore e di carità che essa suscita, generatore di «buono pensiero» e distruttore dei vizi innati. "Madonna" appare, così, un «perfettissimo essemplo» che la natura ha realizzato, per divino disegno, per "ridurre" gli uomini a bontà e fare, addirittura, «de la mala cosa buona cosa».
Illustrando, infine, il congedo della canzone (capp. IX e x), Dante ricorda che nella ballata Voi che savete ragionar d'amore (ballata di evidente significato allegorico e dottrinale, come ritengono giustamente il Barbi, il Contini e il De Robertis) ha chiamato «orgogliosa» (nella ballata: «disdegnosa») e «dispietata» (nella ballata: «fera») la stessa donna.[29] E vuol spiegare l'apparente contraddizione, dichiarando con i suoi versi che la «donna gentile» non è, talvolta, «fera» e «disdegnosa» e talvolta, invece, insieme «umile» e «nobilissima», ma che, come in molti casi, anche in questo la verità discorda dall'apparenza e può, inoltre, essere intesa e compresa in modo diverso, attraverso una considerazione più compiuta e matura. Lo dimostra la particolare natura della luce e del colore che, interpretati secondo comuni dottrine scolastiche, offrono a Dante l'occasione per svolgere un altro breve "excursus" sulla teoria della visione e chiarirne i particolari procedimenti. Tale meccanismo può infatti far sì che la stella, pur restando sempre uguale a sé stessa, sia vista dall'occhio umano più o meno splendente a seconda che il cielo sia più o meno ricco di vapori o lo stesso organo sia più o meno capace di vedere. Analogamente, l'anima, indebolita e resa come inferma dalla stessa eccessiva tensione del suo desiderio, può passionalmente considerare «disdegnoso e fero» ciò che, in realtà, è semplicemente «onesto», ma mutare poi il suo giudizio, quando segua la retta ragione.
L'interpretazione allegorica (che occupa gli ultimi cinque capitoli) muove dall'identificazione tra la «donna gentile» e la "Filosofia-Sapienza" già proposta nel II trattato; e, seguendo la norma aristotelica (che affida all'esplicazione del «nome» e, soprattutto, alla «definizione» l'individuazione della «ragione» propria di ciascuna cosa), afferma, sulla fede di Pitagora, che la Filosofia è «amistanza [= amicizia] a sapienza» e a «sapere» e, dunque, una «eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione o vero difetto», la vera felicità che si acquista dalla contemplazione della verità. In questi capitoli finali del III trattato Dante celebra la suprema perfezione della "Filosofia-Sapienza", con parole che se, certamente, si richiamano alla comune esaltazione della virtù speculativa e della beatitudine che ne deriva, sono, però, assai più vicine alla dottrina di Alberto Magno e a certe sue propensioni "platoniche" e "neoplatoniche" che non ai testi tomistici. Ed è evidente che la Filosofia, proclamata "signora" e «nobilissima» su tutte le scienze, è il più degno oggetto di studio e di amore, nel profondo, indissolubile connubio dell'anima e della verità, che fa di essa un «amoroso uso di sapienza». Commentando allegoricamente il secondo "verso", «Non vede il sol, che tutto 'l mondo gira», il Poeta può affermare che il sole, nel suo perenne volgersi intorno alla terra, non vede cosa più nobile della «donna gentile»; ma ciò significa, nel suo senso più ascoso, che Dio, nel suo assoluto «intendere», non vede cosa più «gentile» e perfetta della Filosofia. La similitudine - così presente nella tradizione platonica e neoplatonica e nei testi dello Pseudo-Dionigi e del Liber de causis - che fa del sole l'immagine sensibile di Dio è ampiamente svolta per mostrare che, come l'astro illumina e vivifica tutte le cose, dai corpi celesti a quelli elementali, così Dio illumina con la sua luce intellettuale sé stesso e, poi, le «intelligenze» celesti e tutte le altre creature «intelligibili». Ma la prima fonte di ogni sapienza e di ogni sapere è in Lui, «somma sapienza e sommo amore e sommo atto». Perciò, la «divina filosofia» è, prima di ogni cosa, nell'essenza» divina alla quale è congiunta, («quasi per etterno matrimonio», mentre nelle altre «intelligenze» è presente solo per partecipazione, «per modo minore», e può esser per loro soltanto una «druda» (amica), nella cui bellezza trova però soddisfazione il desiderio. Ma nella sua suprema verità la "Filosofia-Sapienza" deve essere celebrata come la «sposa de lo Imperadore del cielo» ed è, insieme, sua «suora e figlia dilettissima», secondo le parole del Cantico e dell'Ecclesiastico.
Sulla "divinità" della Filosofia, Dante insiste anche nei capitoli seguenti (XIII-XV), con un atteggiamento che, tuttavia, rivela interessanti oscillazioni e «dubitazioni». Egli scrive, infatti, che di questa "divinità" gli uomini, nella loro vita terrena, possono partecipare «non sempre», ma solo «quando Amore fa de la sua pace sentire»; e che, tra loro, soltanto pochi sono capaci di vivere secondo la ragione e non secondo il senso e d'innamorarsi della Filosofia. Non basta: la natura dell'uomo, quando non è assorbita nell'atto della speculazione che appaga l'intelletto e la ragione, ha necessità di molte cose per «sostentarsi», alle quali deve provvedere, con attività e operazioni del tutto diverse. Non si può dire, insomma, che così operando essa partecipi della Filosofia, se non perché ne ha l'«abito» e la «potenza»; e, certo, talvolta è "innamorata" della Sapienza e talvolta no. Per Dante, ciò significa che la Filosofia appartiene, in primo luogo, a Dio, in secondo luogo, alle «intelligenze separate» e, poi, agli intelletti umani, ma in modo interrotto e discontinuo. II che non toglie che si debba chiamare «filosofo», ossia «amatore di sapienza», colui che, pur non essendo continuamente nell'atto del filosofare, ne ha l'«abito» e la considera veramente la sua «donna» o "signora". Senza dubbio, proprio perché è essenzialmente divina, la "Filosofia-Sapienza" non può mai essere posseduta da alcun uomo in modo così compiuto e perfetto che essa possa davvero dirsi un suo «abito», ossia una seconda natura, inseparabile da chi ne è l'oggetto. Pure, la Filosofia, anche nella limitata partecipazione che ne hanno gli uomini, è, al tempo stesso, «imperfetta» e «perfetta», giacché le sue mirabili bellezze rendono contento chi la contempla, in ogni condizione o momento della vita, e lo inducono a disprezzare quei beni inferiori, transeunti e caduchi, che non producono vera felicità, ma rendono servi e subalterni gli altri uomini.
Come scrive Dante, l'amore è, dunque, la «forma» stessa della Filosofia, la sua «anima», come la «Sapienza» ne è il corpo. "Composto" di anima e di corpo, ossia di «sapienza» e di «amore», è l'uso della speculazione, l'«amoroso uso di sapienza» che è, di per sé, la Filosofia stessa. Come il sole, illuminando tutte le cose terrene, le assimila, in certo modo, alla propria luce, così Dio rende questo amore quanto è più possibile simile a lui. Né stupisce che - usando metafore ben familiari ai lettori dello pseudodionisiano De divinis nominibus - il Poeta insista sul diffondersi della virtù divina, «per modo di diritto raggio» e «sanza mezzo», nelle «intelligenze separate» o angeliche, e da queste, quasi come per riverbero, nelle altre, ossia nelle menti umane, per affermare che la sua virtù, nella quale amore e sapienza sono eternamente uniti, dà direttamente all'amore della Sapienza la «similitudine» del suo amore, eterno e immutabile in sé e nell'oggetto al quale è rivolto. Giacché la Sapienza alla quale esso si volge è a Dio "coeterna". Le citazioni dell' Ecclesiastico, dei Proverbi e del V angelo di Giovanni sono addotte per confermare che, per mezzo di questo amore e del suo «obietto etterno», la virtù divina discende negli uomini, come negli Angeli, illuminando quelle anime "nobili" che, per essere razionalmente libere e padrone di sé, possono essere veramente dette «donne» o "signore". Proprio per questo, la Filosofia è stata divinamente «ordinata», non solo per ciò che essa lascia comprendere, ma anche per il desiderio di comprendere le verità più alte e inaccessibili che essa cela, nato dalle «persuasioni» nelle quali si manifesta «sotto alcuno velamento» la luce della Sapienza eterna. In tal modo, Dante sembra discostarsi dall'atteggiamento speculativo di Alberto Magno e dei cosiddetti aristotelici "radicali", per avvicinarsi a quello di Tommaso d'Aquino che cerca nella verità filosofica i "preambula fidei" e ritiene che l'appetito naturale di conoscenza non possa essere soddisfatto in questa vita. Ma si tratta, anche adesso, di una conclusione che - come ha rilevato il Nardi - pare arrestarsi nel suo corso per l'insorgere di un forte dubbio relativo proprio alla possibilità che l'uomo possa già raggiungere in questa vita una beatitudine, sia pure relativa alla propria condizione terrena ed ai limiti che essa impone. Se l'uomo - argomenta Dante - non raggiungesse la felicità che è la sua perfezione e bene ultimo proprio, resterebbe sempre in lui un «naturale desiderio» insoddisfatto che sarebbe inutile e vano. Ciò contrasta con il carattere dell'operazione propria dell'intelletto umano e della felicità speculativa che ne consegue, la quale è un «fine» di per sé stessa, cui sono ordinate tutte le altre operazioni e facoltà umane. Certo, vi sono verità, come quelle che riguardano Dio, l'eternità e la materia prima, che vincono ogni capacità del nostro intelletto e lo rendono quasi incapace di "vedere": le prime due, per l'eccellenza sovrannaturale dei propri oggetti, e l'altra per la miseria e "bassezza" della cosa alla quale si riferisce. Tuttavia, anche i dubbi sollevati da questa constatazione saranno sciolti (Iv, xxii, 18) dalla certezza razionale che l'uomo può raggiungere in questa vita un fine «perfetto quasi» e che l'uso pratico e quello speculativo dell'intelletto costituiscono due «vie espedite e dirittissime» per il conseguimento della felicità assolutamente compiuta e perfetta ottenibile nella vita futura. Il «desiderio naturale» è, dunque, limitato, secondo le capacità e la natura propria di ciascuna cosa e il fine che le è destinato nell'ordine universale. Nel caso dell'uomo, è "proporzionato" a quella scienza che si può ottenere in questa vita, imperfetta nei confronti della visione beatifica dell'altra vita, e tuttavia perfettamente commisurata alle sue capacità ed alla felicità di cui può già godere. Se non è possibile conoscere veramente Dio ed altre cose sovrannaturali, il nostro desiderio di sapere e la felicità che deriva dalla sua attuazione non si estendono sino a tali conoscenze, per noi inaccessibili, ma che raggiungeremo solo nella beatitudine celeste.
5 - Una simile soluzione è, senza dubbio, rivelatrice di un'intima tensione e di un conflitto teorico che - come si vedrà- andrà, in qualche misura, sciogliendosi nello sviluppo del IV trattato. E mostra come, nel confronto tra le diverse conclusioni alle quali approdavano i maggiori rappresentanti della tradizione "peripatetica", Dante si orientasse (sia pure con sfumature derivate, in parte, dal linguaggio "divulgativo" del Convivio) verso le dottrine di Alberto Magno, il maestro che forse ha più influito sulla sua formazione filosofica e scientifica. Ma s'è già detto come proprio il IV trattato si distacchi nettamente dal «blocco» costituito dal II e III, non solo per la sua così maggiore estensione, bensì per un mutamento strutturale, teorico e lessicale che rivela come l'autore abbia compiuto nuove scelte, per quanto concerne sia il "tema" del trattato (che è adesso di prevalente interesse politico ed etico), sia il richiamo alle "auctoritates" (con una più forte presenza di testi tomistici), sia lo stesso concetto di "filosofia" e il suo rapporto con la "Sapientia divina". Senza insistere adesso sulle ragioni che hanno indotto la Corti a supporre che la stesura del IV trattato sia posteriore a quella del De vulgari eloquentia e a porre in particolare rilievo anche quegli aspetti del IV trattato che sembrano testimoniare una maggiore "maturità" della tecnica "filosofica" di Dante (dovuta - secondo la sua ricostruzione - anche all'incontro di nuovi autori e testi), si dovrà nuovamente ricordare che l'abbandono dell'allegoria e del "linguaggio d'amore" e lo sviluppo sistematico della discussione nella forma specifica della "quaestio" sono altrettanti segni di una "cesura" difficilmente contestabile.
Ad accentuare il senso di una tale "cesura" contribuisce la stessa canzone Le dolci rime d'amor che Dante dice di aver scritto in un momento di pausa del suo studio filosofico, causata dalla difficoltà di risolvere il difficile problema teorico della «materia prima» e del suo rapporto con ·la mente e l'"intenzione" di Dio. Si trattava, insomma - come sempre il Nardi ha chiarito -,[30] di stabilire se la materia prima fosse stata creata da Dio o prodotta invece da «agenti» o «cause seconde», e se la mente divina ne abbia un'idea propria e distinta da quella del composto: quistioni spesso discusse dai maggiori rappresentanti della cultura filosofica duecentesca e che imponevano la scelta tra soluzioni nettamente divergenti, con conseguenze di non piccolo rilievo anche per quanto concerne il rapporto tra la "filosofia umana" e la "veritas" scritturale. Ora, è forse eccessivo caricare questo "dubbio" e problema dantesco di significati addirittura decisivi per la crisi dell'idea della "Filosofia-Sapienza", così dominante nei primi due trattati, ma che, in effetti, viene sempre più "sfumando" nello svolgimento di questo trattato. Però gli stessi versi della canzone fanno intendere che la «donna», ossia la Sapienza, aveva trasmutato «un poco li suoi dolci sembianti» e dicono che in lei erano apparsi «atti disdegnosi e feri», i quali avevano «chiusa la via / de l'usato parlare». Si direbbe, insomma, che i vari problemi filosofici e dottrinali insorti, via via che l'Autore proseguiva nell'approfondimento del sapere, tornassero adesso molto attuali, nel momento in cui lo stesso progetto del Convivio doveva cominciare ad apparirgli difficilmente perseguibile e gli si mostravano sempre più netti ed evidenti i contrasti insolubili che insidiavano alle radici la sua immagine di una Filosofia che fosse insieme la «Sapienza» celebrata dai testi biblici. Né stupisce che la canzone, composta molti anni prima, in un periodo di incertezze e di dubbi profondi, venisse ora ripresa e commentata, in onore di Filosofia e per difendere la verità di cui essa è sempre amica, ma con una scelta che permetteva di spostare il tema dagli ardui dibattiti filosofici al discorso intorno alla "vera nobiltà", così connesso, oltre tutto, ad alcuni motivi già dominanti della meditazione politica dantesca.
Anche in questo caso, l'Alighieri poteva istituire una diretta connessione tra gli insegnamenti della sventura politica e dell'esilio, l'aspettazione di una necessaria "renovatio" civile e religiosa e un argomento estremamente attuale nei tempi della stesura della canzone, a non molta distanza dalla promulgazione degli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella (1293) che escludevano dal potere il ceto dei "magnati", l'antica nobiltà di prevalente origine feudale che doveva condividere molte delle idee qui discusse e confutate.
È noto che Dante stesso apparteneva per origine a questa nobiltà (anche se la sua famiglia era ormai di condizione modesta e legata economicamente al mondo dei mercanti e dei prestatori) e che dell'antica Firenze "magnatizia" conservò il mito ed il rimpianto. Però non aveva esitato a profittare dei Temperamenti agli Ordinamenti di Giustizia (1295), per iscriversi all'Arte dei Medici e degli Speziali ed iniziare la sua sfortunata esperienza politica. Ed è, in ogni caso, circostanza assai significativa per la biografia intellettuale e "civile" di Dante che sia la canzone sia il commento, steso a non breve distanza di tempo, assumano una conclusione del tutto opposta alle opinioni più tradizionali, con un intervento meditato e ben consapevole dell'importanza e ancora presente attualità della disputa, come rivela la solennità della prosa e il suo tono veramente "magisteriale". L'esule, povero e ramingo, costretto a vivere al servizio di nobili e di Signori e a ricercare i loro aiuti, rivendica, in questo trattato, la ''vera» nobiltà, propria soltanto delle anime virtuose alle quali Dio l'ha concessa come «seme di felicitade» e «perfezione di propria natura». Ma vuol farlo da filosofo che procede con gli strumenti di una logica precisa e persuasiva, denunciando gli errori e i sofismi che hanno permesso errori così gravi ed oscurato la giusta intelligenza di una quistione di valore capitale.
Proprio per questo, il IV trattato è così rispettoso dei metodi e procedimenti di "scuola", a cominciare dai primi tre capitoli dedicati alla "partitio" e "propositio" della materia. Così, trattando del «proemio» della canzone, Dante spiega perché avesse deciso di abbandonare lo «stilo ... soave», tenuto nel parlare di amore, e di trattare, invece, della nobiltà con «rima aspr' e sottile», per «riprovare lo giudicio de la gente piena d'errore» ed esporre, poi, la giusta e vera dottrina. Però l'oggetto centrale della discussione è la definizione della nobiltà o «gentilezza» attribuita dalla fama corrente a Federico II di Svevia, colui che Dante considera l'ultimo legittimo «imperadore de li Romani»:«antica ricchezza e belli costumi». Una definizione, questa, che altri avevano reso ancor più riduttiva, escludendo l'ultima parte. Contro la definizione imperiale e l'opinione del «volgo», Dante dichiara che farà valere i diritti della verità, nonostante che la prima sia tutelata dall'autorità sovrana universale di chi l'ha pronunziata e la seconda sembri confortata dalla dottrina del Filosofo per eccellenza, Aristotele, per il quale «quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso». Ma ciò implica una discussione preliminare della stessa "auctoritas" imperiale, particolarmente importante, giacché gli permette di esporre idee destinate ad ispirare anche alcune pagine capitali della Monarchia ed a costituire uno dei fondamenti della sua dottrina dell'"Imperium".
L'autorità imperiale - afferma - ha la sua ragione nella stessa natura dell'uomo che è "ordinata» alla ricerca ed al conseguimento della felicità. E poiché nessun individuo particolare, in quanto tale, è capace di realizzare questo fine, senza l'aiuto degli altri, è stata necessaria la formazione dei diversi "gradi" della società umana. Richiamandosi ad una dottrina espressa nei passi celeberrimi della Politica di Aristotele, Dante ricorda come proprio questa "insufficienza" del singolo esiga la nascita della famiglia, poi della «vicinanza» (così egli volgarizza il termine «vicus» della versione greco-latina di Guglielmo di Moerbeke, reso nella Monarchia con «vicinia»), della «città» (la πόλις di Aristotele e la «civitas» di Guglielmo) e, infine, del «regno» (Βασίλειον di Aristotele e «rex» di Guglielmo, ma in un contesto diverso dall'uso dantesco). Però il desiderio di possesso e di gloria, comune agli uomini e soprattutto ai potenti, non cessa di generare guerre e discordie che oppongono tra loro i «regni» e producono costanti «tribulazioni» per tutte le forme di società umana e per i singoli individui. Sicché, per attuare un ordine umano pacifico e giusto appare indispensabile l'esistenza di una «Monarchia» universale, ossia - come scrive Dante - di «uno solo principato, e uno prencipe». Solo costui, «tutto possedendo e più desiderare non possendo» (giacché il suo potere s'identifica con il mondo), potrà imporre ai «regni» di mantenersi nei loro «termini», imponendo la pace che permetta ai regni, alle «vicinanze» e alle famiglie di attuare le proprie funzioni specifiche e così consenta ad ogni uomo di vivere «felicemente». La citazione di Aristotele che, nel I della Politica, teorizza il necessario ordinamento «ad unum» delle cose disposte per un medesimo fine, una delle quali deve governare e le altre esser governate, conferma questa conclusione, rafforzata dalla similitudine, sempre aristotelica, del rapporto tra la nave e il nocchiero («gubernator») e dall'esempio di tutte le istituzioni civili, militari e religiose. Occorre, insomma, una sorta di «nocchiero» che abbia il diritto e la funzione di governare in modo del tutto «universale e inrepugnabile». Costui è l'Imperatore, «comandatore» di «tutti li comandamenti», la cui volontà è legge, che deve essere ubbidito da tutti e dal quale deve dipendere e «prendere» autorità ogni altro potere umano.
Non è necessario, davvero, sottolineare il rapporto tra questa concezione e quanto sarà detto più tardi nella Monarchia. Più interessa mostrare come Dante colga sùbito l'occasione per respingere i "cavilli" di chi nega che, in ogni caso, tale autorità universale spetti al «romano principe», argomentando che il potere dei Romani non fu acquistato per diritto o per decisione unanime dei popoli, bensì conquistato con la forza di per sé contraria al diritto. A costoro si può, infatti, rispondere che l'elezione di un simile sovrano universale poteva spettare solo a Dio, la cui sapienza governa tutti e a tutti provvede; e che la storia delle conquiste romane dimostra che la forza fu soltanto lo strumento di un disegno divino che scelse quel popolo per il compito di ridurre tutta la terra in pace e giustizia e creare la migliore «disposizione» per l'avvento del suo Verbo incarnato. La pace universale instaurata da Augusto fu, nella sua relativa perfezione mai più raggiunta né raggiungibile, il frutto di una divina "preparazione" celata nel mistero di una Sapienza che Dante, ora più che mai, dichiara «ineffabile e incomprensibile». Lo confermano, dopo l'invettiva contro le «stoltissime e vilissime bestiuole» che negano questa indubbia verità, il rapido scorcio delle vicende di Roma tracciato da Dante e l'esaltazione di quegli eroi "esemplari" che, con l'esercizio più che umano delle loro virtù, dimostrarono di essere, appunto, terreni strumenti della volontà di Dio. La «santa cittade» - come Dante chiama Roma - è, dunque, la sede che Dio stesso ha prescelto per il supremo potere, garante dell'ordine e della pace mondana.
Non v'è, dunque, alcun dubbio che l'autorità dell'«imperadore de li Romani» sia, per Dante, indiscutibile. Ma non meno riconosciuta, nel suo dominio specifico, è l'autorità del Filosofo. «Autorità» significa (secondo la singolare analisi linguistica di Dante che la fa derivare dal verbo latino «auieo» o da «autentin») «atto degno di fede e d'obedienza»; e certo Aristotele ne è degnissimo, giacché è il «maestro e l'artefice» che indica il vero fine dell'uomo, il «maestro e duca de la ragione umana», iniziatore di quella «setta» filosofica che - come Dante dichiara - «tiene ... oggi lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti» ed ha ormai, per lui, valore quasi assoluto ed universale («quasi cattolica oppinione»). Sono, insomma, quella dell'Imperatore e quella del Filosofo, due autorità somme, tra loro non repugnanti e non contradittorie; ché anzi, se la prima senza la seconda è pericolosa, la seconda senza la prima è debole. Ciò significa che esse debbono essere sempre congiunte tra loro per essere, davvero, «utilissime e pienissime . .. d'ogni vigore»; e «miseri» sono quei prìncipi mondani (come Carlo II d'Angiò, re di Napoli, e Federico II d'Aragona, re di Sicilia, e altri signori e «tiranni»), i quali governano senza alcuna «filosofica autoritade», «nemici di Dio» che ignorano quale sia il fine della vita umana e, come uccelli da preda («nibbi»), mirano solo a «cose vilissime».
Con tutto questo, e nonostante la massima "reverenza" tributata alle due autorità, Dante, tornando alla quistione principale, dichiara che l'opinione del volgo è senz'altro destituita di ogni ragionevolezza, perché, secondo essa, è considerato nobile o «gentile» chiunque sia figlio o nipote di un «valente uomo», anche se personalmente non lo merita assolutamente. Si tratta di un'opinione errata che va sradicata, così come occorre eliminare le erbe parassitarie dai campi di frumento, giacché la sua "moltiplicazione" e diffusione rischia di soffocare la giusta e vera dottrina. Quanto grave sia il suo errore lo illustra un'analogia sùbito proposta da Dante: colui che, nato da padre nobile, opera male è simile a chi, percorrendo una strada coperta da una grande nevicata che la cela alla vista, sbagli la sua direzione, perché non segue le orme ben segnate di coloro che lo hanno preceduto. Costui non potrà, certo, esser detto nobile, bensì «vilissimo»; mentre veramente nobile è chi, senza esser stato preceduto da alcuno, sa scegliere il giusto cammino, senza errare. Chi non sa conoscere il vero fine della vita e abbandona il retto uso della ragione che gli indica il giusto cammino, non è, infatti, un vero uomo, ma è come «morto» rispetto alla sua natura peculiare, perché in lui sopravvive soltanto la mera condizione animale.
Ora, Aristotele, quando diceva che non può essere del tutto falso ciò che par vero ai più, intendeva certamente riferirsi al giudizio fondato sulla ragione e non a quello che è frutto della sola apparenza sensibile. Perciò chi contraddice l'opinione del «volgo» non contrasta affatto la sua autorità, ma anzi la conferma e l'onora.
Quanto, poi, all'autorità imperiale, è evidente che si deve ben distinguere tra «irriverenza» che è un atto di rifiuto della sottomissione dovuta e la «non reverenza» che consiste nel negare una sottomissione non dovuta. Ed è questo, appunto, il caso in quistione, perché, rifiutando l'opinione di Federico II, non s'intende affatto contestare la sua autorità nel dominio che le spetta (che è quello di reggere e regolare le operazioni umane), bensì dichiarare che essa non è valida oltre questi limiti e che, pertanto, definire che sia la nobiltà non è cosa pertinente alla giurisdizione imperiale, al suo ufficio ed alla sua «arte». Dante, per dimostrarlo, ricorda che, in ogni arte o mestiere, l'autorità del «prencipe» o «maestro» non si estende al di là delle loro materie o tecniche specifiche; quindi, l'«arte imperiale», che ha le sue norme obbligatorie per tutti gli uomini, deve essa pure rispettare le proprie competenze, senza invadere quelle che spettano ad altri «maestri». Del resto, la definizione proposta da Federico II rivela sùbito le proprie manchevolezze, giacché essa è in parte «con difetto» e, in parte, errata, nonostante la grande fama di «loico» e di dotto attribuita al suo autore. È in «difetto», perché i "bei costumi" sono solo una piccola parte della nobiltà, ma non bastano a fornirne una definizione logica compiuta. E, soprattutto, è errata, per la buona ragione che le ricchezze non possono causare la nobiltà, essendo esse stesse intrinsecamente estranee a tale concetto, per la loro «viltà» e imperfezione.
Che le ricchezze siano imperfette e, perciò, «vili» non solo lo testimonia Lucano, ma lo dimostra il fatto che esse sono del tutto fortuite e spesso inique, che il loro accrescimento è pericoloso e che il loro stesso possesso è facilmente dannoso. Dante (che si sofferma a lungo nell'illustrazione di questi concetti, discutendoli minutamente con l'ausilio di varie "auctoritates") contrappone al desiderio della ricchezza, mai soddisfatto (che, anzi, cresce continuamente senza alcun limite o misura e con danno ed «ingiuria» inevitabile per gli altri), il desiderio della scienza che, è, invece, una «successione di picciola cosa in grande cosa», un susseguirsi di richieste sempre nuove e di «perfezioni» sempre maggiori, ognuna delle quali non distrugge o nega la precedente. Come aveva già affermato nel III trattato, i nostri desideri naturali trovano sicuramente il proprio compimento, anche se è vero che pochi uomini, per i loro errori, riescono a compiere la loro "quete". Ed è certo che la scienza raggiunge la sua «perfetta e nobile perfezione», senza mai generare nell'uomo quel bisogno smodato, quell'insicurezza' e avidità di cui sono portatrici le ricchezze.
Come si vede, la polemica contro l'identificazione della nobiltà e del valore umano con la ricchezza trova del tutto consenziente Dante che fa uso di notissimi "topoi" classici, ma sembra anche non esser rimasto estraneo a idee ben radicate nella tradizione degli Ordini mendicanti (e, in particolare, dei Francescani) e continuamente riemergenti nelle esperienze religiose del suo tempo. Ma se la «viltà» delle ricchezze è così decisamente riconosciuta, altrettanto radicale è la critica dell'idea che l'«antichità» della ricchezza sarebbe generatrice di nobiltà. Chi la sostiene ritiene evidentemente che il figlio di un uomo «villano» non possa mai diventare «gentile» ossia nobile; e perciò stesso si contraddice, perché, accettando questo postulato, il tempo, da lui richiesto come fondamento della nobiltà, non potrebbe mai operare «la mutazione di villano padre in gentile figlio». Se, infatti, il figlio di un «villano» è tale anch'esso, pure i suoi figli e i figli dei suoi figli, e così via, saranno «villani»; né sarà possibile mai trovare il "momento" nel quale potrebbe aver inizio la nobiltà. Certo, si può obiettare che tale nobiltà può iniziare nel tempo in cui sarà ormai dimenticata la bassa condizione degli antenati. Ma Dante è pronto ad obiettare che, in tal modo, dovrà pure verificarsi la «transmutazione» della «viltà» in «gentilezza» e la trasformazione in «nobile» di un figlio di «villano». Per di più, accettando questo argomento, si dovrebbe pure ammettere che acquisterebbe più facilmente la nobiltà chi fosse privo o debole di memoria, ossia chi fosse più imperfetto; e, d'altro canto, potrebbe accadere che qualcuno diventi nobile dopo morto, mentre non era considerato tale mentre viveva. Le conclusioni da trarre da simili premesse sono, dunque, due sole: o non esiste alcuna nobiltà, oppure non è vero che tutti gli uomini discendono da un unico progenitore, Adamo, verità che c'insegna la Parola divina della Scrittura.
Se, però - come siamo tenuti a credere -, Adamo fu il nostro unico progenitore, la sua natura di «nobile» o di «vile» dovrebbe essersi trasmessa a tutti i suoi discendenti, sì che, come dice la canzone, «siam tutti gentili o ver villani». Le ragioni della filosofia e le testimonianze degli stessi poeti pagani (Dante cita Ovidio) confermano, del resto, questa verità che distrugge ogni falsità o cavillo. Gli intelletti «sani» (cioè le menti capaci d'intendere «quello che le cose sono», non accecate dalla presunzione, non ostinate nell'ignoranza e nel rifiuto del sapere, non sviate da una precipitosa e incerta immaginazione, non inferme per natura) possono ora aprirsi alla dimostrazione della vera nobiltà e del suo fondamento.
La "pars destruens" della dantesca "quaestio de nobilitate" è così terminata. Si apre, con il XVI capitolo, l'esposizione sistematica della tesi di Dante che, naturalmente, è connessa alle discussioni sulla nobiltà del suo tempo e ad una tradizione dottrinale e letteraria, già affidata a testi transalpini, soprattutto francesi e provenzali, di natura "cortese", ma anche enciclopedico-moralistica, a talune importanti testimonianze della cultura filosofico-teologica (come la Summa del Peraldo)[31] d'ispirazione aristotelica, ad alcune note pagine del Tresor, alla poetica d'amore del Guinizepi. Né occorrerà ricordare come una tale discussione fosse strettamente connessa con l'avvento di nuovi ceti dirigenti delle società cittadine comunali e con la presa di potere da parte di istituzioni o gruppi e consorterie familiari di origine schiettamente "borghese" che - com'era accaduto a Firenze - miravano ad esautorare i vecchi ceti nobiliari e "magnatizi". Tuttavia, l'analisi dantesca evita ogni riferimento politico e si svolge sempre nell'àmbito della "teoria", della discussione dottrinale, fondata sulle "auctoritates" del Filosofo, dei sapienti e poeti antichi, alle quali però si aggiungono, con una sintomatica frequenza assai maggiore che nei trattati precedenti, i diretti appelli alla "veritas" per eccellenza, quella divina della Scrittura.
Non a caso, proprio il XVI capitolo si apre con la citazione del Salmo 62 e di un passo della Sapienza, per affermare che ogni «vero rege» dovrà rallegrarsi di veder finalmente debellata un'opinione «falsissima e dannosissima», sostenuta da uomini «malvagi e ingannati» che sino ad oggi hanno sempre parlato della nobiltà in modo falso ed «iniquo». Ma Dante, prima ancora di trattare dell'argomento, vuole procedere, secondo il costume scolastico, a chiarire il valore semantico del termine «nobiltà» e quale sia il procedimento da seguire per cercarne l'esatta definizione. Per prima cosa si richiama all'uso comune che identifica la «nobiltà» con la «perfezione di propria natura in ciascuna cosa»; e, infatti, in questo senso, la parola «nobile» non è attribuita solo all'uomo, bensì anche alle pietre, alle piante, agli animali, insomma, ad ogni cosa in sé perfetta. È vero che taluni «folli» credono che la parola «nobile» significhi «essere da molti nominato e conosciuto». Si tratta però di un'idea «falsissima» che Dante si affretta a confutare, per confermare che «nobile» - secondo la sua pretesa etimologia - deriva da «non vile» ed ha appunto un tale significato. Sicché resta ben stabilita l'equivalenza tra «nobiltà» e «perfezione».
Il procedimento per giungere alla definizione della «nobiltà» umana è più complesso. L'Autore si richiama dapprima al principio logico scolastico per cui l'ottima perfezione delle cose appartenenti ad una medesima specie non può essere definita soltanto dai «principii essenziali», ma richiede anche la considerazione degli «effetti» («potenze», «virtù», «operazioni») che da essi derivano. Nel caso della nobiltà umana, è evidente che la definizione dovrà muovere proprio da quelle virtù morali e intellettuali di cui la nobiltà è come il «seme». Ora queste virtù sono, appunto, le undici indicate da Aristotele nell'Ethica nicomachea; e, cioè, la Fortezza, la Temperanza, la Liberalità, la Magnificenza, la Magnanimità, l'«Amativa d'onore», la Mansuetudine, l'Affabilità, la Verità, l'«Eutrapelia» e, infine, la Giustizia, «la quale ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose». Giusti «mezzi» che negano due vizi opposti, esse derivano tutte dall'abito razionale della «buona elezione», e rendono l'uomo veramente «beato» e «felice» nella propria operazione, secondo la dottrina aristotelica che definisce la felicità un'«operazione secondo virtude in vita perfetta».
Dante procede poi a distinguere - sempre sul fondamento dell'Ethica - tra la felicità della «vita attiva», che è «buona», e quella della vita «contemplativa», che è ottima e che consiste nella «beatitudine». Né manca di citare l'episodio evangelico di Marta e Maria per confermare la superiorità della vita contemplativa; anche se, poi, sùbito aggiunge che la via da lui scelta, ossia quella che muove dalle virtù morali, "pratiche", è però la più conveniente, giacché è più facile farle comprendere a uomini abituati a sentirne trattare come di cose «più comuni», «più sapute» e «più richieste». In ogni caso, con un’argomentazione «probabile», tipica della dottrina morale, egli intende mostrare che tutte quelle virtù procedono dalla nobiltà come l'effetto deriva dalla causa. Anzi è cosa notoria (e così manifesta da non richiedere alcuna prova) che la nobiltà è di per sé stessa virtù, e che essa comprende in sé tutte le altre virtù, ma al tempo stesso le supera perché il suo "dominio" è più vasto. Come dice Dante, «con bello e convenevole essemplo», la nobiltà è come il cielo nel quale brillano «molte e diverse stelle», ossia non solo le virtù intellettuali e morali, ma anche le «buone disposizioni» naturali (come «pietade e religione»), le «passioni» lodevoli (come «vergogna e misericordia») e le stesse «bontà» corporali (come la «bellezza», la «fortezza» e la salute quasi perenne). Da essa derivano così molteplici e ricchissimi frutti, tanto vari e preziosi da permettere a Dante di scrivere che, da questo punto di vista, la nobiltà umana «soperchia» anche quella delle nature angeliche, sebbene queste, nella loro essenziale unità, siano più «divine». Non insisto oltre sull'esempio e l'analogia recati nel xx capitolo per confermare che ogni virtù deriva ed è implicita nella «nobiltà». Più importa sottolineare come Dante affermi che chi possiede questa «grazia» o «divina cosa» sia egli stesso quasi divino, ma che un simile bene è del tutto individuale, non legato all'appartenenza ad una famiglia o stirpe. Dono gratuito che - come conferma la Scrittura - solo Dio può dare, la nobiltà è concessa a quelle anime che sono ben disposte a riceverla, mentre non può albergare in quelle «imperfette» e «male disposte» ad accogliere una tale «benedetta e divina infusione». Proprio perché è «seme» di felicità, essa «discende da somma e spirituale virtude», come la «virtù» specifica di una pietra trae origine dall'influsso di un nobile corpo celeste. Per chiarire meglio questo concetto, Dante scrive che tratterà di come essa scende in noi da un duplice punto di vista, filosofico e teologico, e, cioè, indicando prima il «modo naturale» e poi quello «divino e spirituale». Come si vede, in questo IV trattato la distinzione tra l'ordine del sapere umano e quello del sapere rivelato appare ben più netta di quanto si potesse intendere dal tema della "Filosofia-Sapienza", dominante nel II e III trattato. E, in effetti, nel trattare, nel XXI capitolo, "filosoficamente" della natura dell'anima umana, il Poeta ricorda le opinioni di vari sapienti, da Platone e Pitagora ad Avicenna ed Algazali, prima di richiamarsi alla dottrina «d'Aristotile e de li Peripatetici», interpretata - lo chiarì già il Nardi - [32] in modo diverso dalla "lectio" tomista e, di nuovo, con una maggiore propensione per l'esegesi albertina. In ogni caso, egli presenta rapidamente la teoria della generazione umana per cui il «seme», insediandosi nella «matrice», porta con sé la triplice virtù dell'anima del generante, del cielo e dei suoi influssi e quella propria della complessione particolare, disponendo così la materia alla virtù formativa data dall'anima del generante, la quale, a sua volta, predispone i vari organi all'influenza della «virtù» del cielo che produce dalla «potenza» del seme l'anima vivente in atto. Questa, una volta prodotta, riceve dalla virtù dell'"Intelligenza motrice" dello stesso cielo l'«intelletto possibile», in cui sono in potenza tutte le forme universali presenti nella stessa «Intelligenza», tanto più perfette quanto più quel «motore» è prossimo alla «prima Intelligenza». Dante stesso si rende conto della difficoltà d'intendere chiaramente la sua concisa illustrazione di dottrine assai complesse, i cui fondamenti teorici furono al centro di discussioni scolastiche di grande rilievo; difficoltà accresciuta - come sottolinea - dall'uso del volgare, lingua ancora priva di un suo vocabolario "speculativo". Ma procede nella sua esposizione, dicendo - sempre secondo una comune dottrina aristotelica, illustrata particolarmente da Alberto Magno, nei suoi commenti - che la «complessione» del seme può essere più o meno buona, cosi come può esserlo la «disposizione» del «seminante» e quella del cielo, la quale muta con il trascorrere delle costellazioni. Proprio per queste ragioni, discusse da una vasta letteratura medica e astrologica, accade che «l'umano seme» e le «virtù» che esso reca producano un'anima più o meno pura, capace più o meno di accogliere l'«intelletto possibile» e ciò che vi è "in potenza". Se l'anima che lo riceve è pura, la sua «vertude intellettuale» è, dunque, «astratta» e libera da ogni «ombra» o ostacolo corporeo; e in essa si «multiplica» la divina bontà che accresce, per quanto è possibile, il potere dell'intelletto. Ma Dante dà un particolare "colore" alla sua esposizione, quando cita sùbito dopo un passo ciceroniano di forte impronta platonica e si richiama, di nuovo, al Liber de causis e alla distinzione delle tre operazioni proprie dell'«anima nobile»: l'«animalis», l'«intellectualis» e la «divina». Anzi, con una trasparente citazione di un testo albertino, fortemente influenzato da Avicenna e da Algazali, scrive che se tutte le «virtù» si congiungessero perfettamente e nella miglior disposizione per produrre un'anima, questa sarebbe così colma di «deitade» da essere «quasi ... un altro Iddio incarnato».
La «via naturale» cede, però, a questo punto, il luogo a quella «teologica», diversa e distinta. Dio, quando vede la creatura predisposta a recepire il suo «beneficio», lo concede, secondo quanto essa «apparecchiata è a riceverne», attribuendole quei «Doni di Spirito Santo» che sono la Sapienza, l'Intelletto, il Consiglio, la Fortezza, la Scienza, la Pietà e il Timor di Dio. Chi sa coltivare questi «semi» divini e, soprattutto, quell'appetito del bene che ne è il primo frutto, può esser detto veramente beato; perché, se questo «tallo» si rafforza con la consuetudine di atti retti e virtuosi, genera «la dolcezza de l'umana felicitade».
Il discorso dantesco si volge così verso il tema della «umana felicitarle» e della sua «dolcezza», sempre ritornante nel Convivio, nella sua mai dimessa ricerca ("quete" è stato detto giustamente) di questo ultimo e supremo fine. Aristotele e Cicerone sono di nuovo citati per ammonire che un tale bene non può essere raggiunto se non lo si conosce, in modo da tendere verso di esso «l'arco de la nostra operazione». E proprio la dottrina dell'appetito naturale del bene, comune a tutte le cose, nelle sue varie forme, costituisce il fondamento di una meditazione, svolta con particolare misura dottrinale.
Quell'appetito - scrive Dante - si manifesta dapprima come un indistinto amore dell'uomo per sé stesso; viene poi distinguendo le cose che per lui sono più o meno amabili o detestabili, le quali ricerca o fugge; e individua, infine, sia nelle cose, sia in sé stesso, ciò che ama come mezzo e ciò cui tende soprattutto come fine. Ecco perché, conoscendo le proprie diverse «parti», ama quelle che sono più «nobili» e, in particolare, l'anima, il cui «uso» è «massimamente dilettoso a noi», e costituisce, pertanto, la nostra felicità e beatitudine, massima e suprema. Come afferma la comune dottrina aristotelica, l'uso del nostro animo è, però, duplice, pratico e speculativo, entrambi «dilettosissimi», anche se quello contemplativo è superiore e più perfetto. Rifacendosi alle pagine conclusive del III trattato, Dante ricorda che l'«uso speculativo» non è un «operare per noi virtuosamente», bensì la considerazione pura delle «opere di Dio e de la natura», nella quale soltanto si può raggiungere la massima felicità e beatitudine. È, infatti, l'«uso de la nostra nobilissima parte», per noi «massimamente amabile». Ma è sintomatico che, in questo IV trattato, venga sùbito aggiunto che il vero fine e uso dell'intelletto è la considerazione di Dio «per li suoi effetti», la sola possibile per l'animo umano; e che la conferma della superiorità della felicità contemplativa sia affidata soprattutto a passi evangelici ed alla loro interpretazione allegorica.
La prima conclusione di Dante è così ben definita, in piena fedeltà alla sua professione filosofica di "peripatetico": la beatitudine che è ancora imperfetta nelle operazioni virtuose della vita attiva, è perfetta solo in quelle proprie delle virtù intellettuali. Sicché è adesso possibile intendere bene che sia veramente «lo nobile uomo», incominciando dall'intendere che il «seme» divino, posto nella nostra anima, può «germogliare», diversificandosi, secondo le varie «potenze» dell'anima, dalla «vegetativa» alla «sensitiva» ed alla «razionale», volgendole tutte alla perfezione, sino al momento del ritorno dell'anima immortale alla sua divina Origine. Sono considerazioni, queste, che offrono lo spunto per una digressione relativa alle virtù particolari e proprie di ogni età e, quindi, per trattare il tema dell'«arco de la vita» e del suo sommo, posto, com'era dottrina "peripatetica" abbastanza comune, intorno al trentacinquesimo anno. (E lo conferma anche l'età della morte di Cristo, nel suo trentaquattresimo anno, dunque proprio sul culmine della vita e prima del suo «decrescere»). La distinzione tra le quattro età della vita umana («Adolescenza», «Gioventute», «Senettute» e «Senio») e le loro qualità e condizioni proprie è ampiamente sviluppata da Dante che, del resto, non propone considerazioni originali, muovendosi entro il reticolo che gli è fornito prevalentemente da testi ciceroniani, commentarii albertini e, talvolta, tomisti, citazioni bibliche e impliciti riferimenti a fonti già "volgarizzate", come il Tresor o Restoro d'Arezzo, e a "loci communes" della cultura medica. Né hanno fondamenti diversi i capitoli (xxiv sgg.) dedicati a illustrare le diverse virtù che debbono onorare le varie stagioni della vita. Certo è che, per Dante, l'uomo nobile dovrà essere dapprima un adolescente grazioso, verecondo, bello e snello di corpo, poi un giovane temperato e forte, amoroso, cortese e leale, quindi, durante la «senettute», un uomo prudente, giusto, «largo» e affabile; ma, giunto al «senio», calerà finalmente «le vele de le ... mondane operazioni», per «tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore», come all'ultima vera e ineffabile pace.
Su questa ultima età dell'uomo, nella quale la morte stessa «non è dolore né alcuna acerbitate», ma è «come uno pomo maturo» che «leggiermente e sanza violenza si dispicca dal suo ramo», Dante scrive alcune pagine di rara efficacia, che rivelano una disposizione d'animo già profondamente diversa da quella che aveva ispirato la celebrazione della "Filosofia-Sapienza" e dell'umana felicità, limitata ma perfetta, che essa concede. Adesso il suo pensiero sembra vòlto soprattutto all'attesa dell'ultima e perenne beatitudine, al tempo in cui l'anima lascerà l'«albergo» della vita terrena, per far ritorno alla «propria mansione», a quel porto sicuro che è l'eterna città di coloro che contemplano la verità e la divinità senza veli. L'esempio di Lancellotto e di Guido da Montefeltro è qui proposto come modello del nobile "senile" che, deposti «ogni diletto e opera» mondani, si rende a vera vita religiosa, e non perché debba entrare, come costoro, in una "professione" monastica, ma affinché sappia, in ogni condizione o stato di vita, mantenere assolutamente puro il suo cuore, dedicato ormai totalmente all'amore divino.
Chi giunge, con questo animo e questa devozione, alla fine della sua vita può guardare senza rimpianti i tempi passati e benedirli, giacché, bene operando, ha potuto avvicinarsi all'ultimo porto«con tanta ricchezza» e «tanto guadagno», come il mercante che benedice il suo lungo cammino dal quale ha tratto i suoi tesori. Interpretando allegoricamente la figura di Marzia, la sposa di Catone Uticense, così com'è presentata da Lucano, Dante può quindi scorgervi il simbolo dell'anima nobile, nel suo transito per le varie età della vita, sino al suo ritorno al «riposo» eterno di Dio. Ma se tutto questo è vero, la nobiltà non può esser considerata che una qualità dell'anima particolare di ciascun individuo, ricevuta per grazia e per libero dono divino. Niente quindi è più assurdo del ritenere nobili le stirpi, schiatte o progenie che, non avendo una propria anima, non posson davvero essere considerate nobili o ignobili. Esse sono «un tutto ... che non ha essenza comune con le parti», come lo è una massa di grano che può dirsi bianca solo perché i singoli grani che la compongono sono tali. Ma se si sostituisse un po' per volta ciascun grano con meliga rossa, anche tutta la massa muterebbe colore; così ugualmente una «nobile progenie» potrebbe diventare «vile», ove morissero tutti i suoi buoni e generasse soltanto uomini malvagi.
Il congedo della canzone (che pone, non a caso, la disputa sulla nobiltà sotto il segno delle parole ''Contra-li-erranti», evidentemente foggiate sul titolo della Summa contra Gentiles) torna, infine, a riproporre la lode della «donna nobilissima», la Filosofia che - Dante lo sottolinea con forza - «non alberga» soltanto nell'animo dei dotti, ma in ognuno che veramente l'ami. Anzi, filosofia e nobiltà sono sempre unite da un mutuo amore, perché la nobiltà sempre richiede gli insegnamenti intellettuali e morali della filosofia che questa mai le rifiuta, illuminandola con lo «sguardo dolcissimo» delle sue ragioni. Né può esistere, per Dante, maggiore «adornamento» o lode della nobiltà che dichiararla amica di quella sapienza la cui perfezione sta nel più intimo sègreto della mente divina.
6. - Anche una cosi rapida presentazione dei temi dominanti del Convivio può bastare a mostrare non solo la relativa complessità dell'opera, ma l'intima dialettica della sua "storia" interna, tra una "passione" filosofica (nutrita da letture e meditazioni che inducevano Dante ad esaltare la natura «divina» dell'umano intelletto, la sua "potenzialità" angelica, il suo diritto di conseguire nella conoscenza speculativa la più pura felicità di questa vita) e l'imperioso richiamo del messaggio biblico ed evangelico e di una religiosità che si riconosce nella suprema esperienza dell'"amor Dei" e nella ferma speranza di una futura beatitudine senza fine. In questo senso, la "centralità" di quest'opera nell'itinerario spirituale di Dante è chiara ed evidente, così com'è difficilmente contestabile il suo carattere di eccezionale "esperimento" teorico, destinato non solo a fornire taluni fondamentali presupposti filosofici, dottrinali e scientifici per la stessa concezione della Commedia, bensì ad elaborare un linguaggio e moduli semantici di straordinaria efficacia, pari soltanto alla libertà mentale che ha permesso all'Autore di infrangere ogni tradizionale "barriera" scolastica, cercando nelle direzioni più diverse le esperienze e le ragioni di cui nutrire un mai dimesso "amore di Sapienza". Ma se il Convivio costituisce - com'è ormai comune opinione - un "miliario" così fondamentale nel difficile e tortuoso cammino dalla vita "poetica" della giovinezza di Dante all'approdo ultimo della Commedia, è inevitabile che la sua lettura susciti di continuo problemi di ogni genere, a cominciare da quelli che investono più direttamente il suo rapporto effettivo o ideale con gli altri testi danteschi.
Com'è noto (e come è apparso dalle brevi indicazioni che hanno sottolineato la voluta continuità posta dallo stesso Dante tra la Vita Nuova e il Convivio), il più difficile e delicato di tali problemi è proprio quello che concerne il nesso tra questo scritto teorico, elaborato nella piéna maturità dell'Alighieri, e l'opera conclusiva della sua età giovanile (che la critica più meditata pone sotto il segno de «l'elezione dell'"optima pars" . . . quella della beatitudine rispetto a quella della sollecitudine»),[33] dalla quale è, certo, impossibile «derogare», se del Convivio si vuole intendere il significato intellettuale ed esistenziale più profondo. Ciò spiega perché, a proposito della "continuità" / "discontinuità" tra Vita Nuova e Convivio, gli esegeti abbiano avanzato soluzioni tra loro assai discordanti che talvolta fanno aperta violenza alle intenzioni esplicite del Poeta; e perché una discussione non di rado assai polemica abbia avuto come suo oggetto un tema inevitabile, ma sempre ambiguo: il rapporto tra la "donna pietosa e gentile" di cui si parla nella Vita Nuova e la «donna gentile» che l'allegoria del Convivio identifica con la "Filosofia-Sapienza".[34]
Per di più a questo tema è stata spesso connessa (in modi e forme singolarmente "ritornanti", pur dietro l'apparenza di approcci e linguaggi diversi) un'altra quistione non meno decisiva: se, cioè, il Convivio segni nella vita e nell'opera di Dante una crisi non solo personale ed esistenziale, quanto, piuttosto, intellettuale e dottrinale, una sorta di "deviazione" da quell'itinerario che taluni studiosi hanno fissato nel modo più perentorio, cedendo piuttosto alle proprie convinzioni che alla riflessione sulla diretta testimonianza dei testi. In altri termini, le liriche scritte per la "donna gentile-Filosofia" sarebbero la manifestazione di un "traviamento" costituito dall'accettazione di talune concezioni filosofiche radicalmente contrastanti con l'indiscutibile vocazione religiosa ed ortodossa della sua più alta poesia, accettazione che, per taluni, sarebbe stata contemporanea ad un periodo di smarrimento morale e di cedimento alle «dilettazioni» del mondo. Perciò il commento, scritto dopo non pochi anni ed in una situazione personale e spirituale già profondamente mutata, sarebbe soltanto la narrazione e, insieme, l'"excusatio" della "via non vera" allora percorsa e delle "false immagini di bene" che avevano illuso Dante, dopo la morte di Beatrice e prima del ritorno alla "santa dottrina", consacrato dal trionfo del primo amore ormai identificato con la Teologia. Quanto è detto nella Vita Nuova, a proposito del «vilissimo pensiero» d'amore per la «donna gentile» da cui egli era stato vinto per qualche tempo e, poi, della sua definitiva sconfitta è stato così interpretato come una trasparente allusione al momentaneo prevalere della "filosofia profana", sommariamente indicata come "averroistica". Si è ritenuto che il "cedimento" amoroso di Dante, dimentico della memoria di Beatrice, sia stato solo lo "schermo" di una vicenda assai più drammatica, dalla quale il suo spirito di fedele cristiano sarebbe infine riemerso, per riprendere la giusta via smarrita e giungere, attraverso l'itinerario "profetico" ne1 regni dell'oltretomba, alla contemplazione "paradisiaca".
Sono ipotesi, queste, che credo sostanzialmente smentite non certo dal tentativo di ricondurre ogni idea o meditazione del Convivio ad una banale "ortodossia" tomistica, quanto, piuttosto, da una assai approfondita comprensione della personale esperienza filosofica dell'Alighieri, delle sue ispirazioni e "auctores" preferiti, nonché da una conoscenza assai più matura della reale situazione dottrinale del suo tempo e del significato storico e speculativo delle tradizioni filosofiche operanti in questo libro. Ma, se la tesi del "traviamento" personale è stata - credo - ormai accantonata, è rimasto ancora aperto il discorso sulla duplice identità della«donna gentile n, assurta nel Convivio a immagine della più alta esperienza intellettiva umana, di quella «Sapienza», divina nella propria natura, che pure la mente umana è capace di possedere, anche nella sua condizione terrena. E si tratta di una quistione alla quale alcuni dei più illustri dantisti hanno recato soluzioni tra loro molto contrastanti, sottoposte, ogni volta, a severi vagli critici e a reazioni polemiche, con risultati mai del tutto completamente persuasivi, perché, in ogni caso, appaiono troppo condizionati da interpretazioni generali già precostituite.
Per intenderne meglio la rilevanza, occorrerà però richiamarsi a quei passi di II, xii, 1-9, ove Dante narra la sua «consolazione» filosofica dopo la morte di Beatrice, i suoi primi studi dottrinali, la sua frequentazione delle scuole e dei circoli dei dotti; e dice come l'amore per la Filosofia, per un periodo non breve, trionfasse sopra ogni altro pensiero, giacché il suo oggetto era appunto la «bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo», la "miracolosa" Sapienza.[35] Nessun dubbio può sussistere sulla voluta ripresa della narrazione della Vita Nuova; ma altrettanto evidente è la diversità almeno apparente tra quanto nell'operetta giovanile è detto, a proposito della «donna pietosa» e «gentile» e della storia di questo nuovo amore, e l'esaltazione allegorica del Convivio che trasforma la «donna gentile» nell'incarnazione poetica della stessa Filosofia, e l'amore per lei nel desiderio della più pura felicità concessa all'uomo. Interpretare le ragioni e il significato di tale diversità non è davvero facile, nonostante gli illustri precedenti e l'impegno dei maggiori esegeti dell'opera dantesca. E, infatti, lasciando da parte alcuni tentativi di soluzioni compromissorie di minor rilievo, tre tesi fondamentali continuano ancora a confrontarsi, ripresentandosi, magari, sotto nuove forme. Taluni interpreti hanno ritenuto che tutti i testi poetici che trattano della «donna gentile», sia nella Vita Nuova, sia nel Convivio siano stati scritti per una donna, reale o immaginaria, e che soltanto in un secondo tempo, e a distanza di non pochi anni, Dante li abbia - per così dire - "allegorizzati", in modo da utilizzarli per la sua «loda» della Filosofia. Altri - e tra questi è uno dei massimi dantisti, Michele Barbi -[36] hanno, invece, distinto nettamente i testi della Vita Nuova (che ritengono, contrariamente a quanto dice lo stesso Dante nel Convivio, esser stati scritti per una donna reale) e le canzoni commentate nel Convivio che, per loro, appartengono, insieme ad altre, ad una fase "dottrinale" della poesia di Dante e sono state pensate e realizzate come allegorie della Filosofia. Alla tesi della distinzione chiara e decisa tra l'"autobiografia poetica" della Vita Nuova e la particolare esperienza intellettuale del Convivio (vòlta, per lui, a celebrare il «primato della morale») ha dato il suo contributo anche un grande interprete della cultura filosofica e teologica medievale come Étienne Gilson.[37] Ma da essa si distingue, per la sua particolare misura e finezza, l'interpretazione di Domenico De Robertis,[38] concorde con il Barbi nel ritenere che i due episodi quali sono narrati, prima nella Vita Nuova e poi nel Convivio, «in quanto "manifestazioni d'arte di due periodi distinti e successivi" vanno tenuti separati», però altrettanto deciso a mantenere ben distinte anche le due relative interpretazioni, giacché al livello del Convivio «la vicenda prende il ritmo e le misure delle nuove esperienze intellettuali di Dante» e il vecchio episodio, immaginato per la Vita Nuova, serve ora, come «dichiarata finzione retorica», a giustificare l'immaginazione della filosofia quale «donna gentile», e l'uso del «vecchio linguaggio» per parlare di un nuovo «amore di scienza e non di creatura umana», «conciliabile e integrabile con quello di Beatrice».
La terza soluzione muove, invece, dall'accettazione integrale di quanto dice lo stesso Dante nel Convivio; e, pertanto, ritiene che anche la «donna gentile» della Vita Nuova sia una figura allegorica della filosofia, che tutte le liriche che trattano di costei siano allegoriche, così come lo è, nel suo complesso, la narrazione dell'operetta giovanile. Per i suoi sostenitori, la "continuità" tra i due scritti è, dunque, effettiva e compiuta: entrambi appartengono al grande "dominio" medievale dell'allegoria e narrano la storia della difficile ascesa alla felicità contemplativa, di una "quete" che si continua nelle diverse stagioni di una vita sempre tesa alla propria perfezione, lungo un aspro e drammatico cammino.
7 - Sulle evidenti difficoltà interne della prima tesi, già più volte aspramente criticata, è tornata anche di recente Maria Corti[39] che, richiamandosi anche al commento del Pernicone alle Rime,[40] ha sottolineato la struttura allegorica «di partenza» propria del Convivio, nonché l'evidente impossibilità, per il Poeta, di «attribuire a una donna, nemmeno fosse una nuova Beatrice, alcune citazioni occulte, soprattutto dai Proverbi di Salomone che richiedono un simbolizzato di natura filosofica e astratta». Né, invero, sembra che una simile soluzione possa servire a far comprendere la natura e la genesi di un'opera che, anche nelle sue parti poetiche, è sempre schiettamente dottrinale e che non lascia dubbi sulla stretta connessione tra l'immagine della «donna gentile» e la sua interpretazione allegorica già evidente nello stesso linguaggio delle canzoni. Anche la seconda soluzione ha fornito, però, l'occasione di dissensi e di discussioni non di rado polemiche, come quelle che hanno avuto per protagonisti lo stesso Barbi e, da avversari, il Pietrobono[41] e il Nardi.[42] È stato, infatti, obiettato che la struttura poetica della Vita Nuova non poteva davvero lasciar luogo alla narrazione di una «breve dilettazione sensibile» e che la figura della «donna pietosa», se fosse stata veramente quella di una donna reale, non avrebbe potuto sussistere nel "clima" letterario dell'operetta, se non si fosse sùbito trasformata in un "simbolo", diventando, insomma, come Dante suoi dire, "amore di Sapienza". La Corti[43] ha, anzi, particolarmente sottolineato, anche di recente, le «spie testuali» che rivelerebbero il significato allegorico della «donna» della Vita Nuova, le affinità lessicali che connettono alcuni temi chiave dei due testi, nonché talune corrispondenze e coincidenze formali e fattuali che dimostrerebbero come la «poesia stessa con la propria sublime e autonoma verità» colleghi tra loro Vita Nuova e Convivio. Sicché - come ha pure mostrato l'analisi stilistica del De Robertis - all'affinità del linguaggio e del dettato poetico corrisponderebbe una comune ispirazione ed esperienza intellettuale, sotto il segno dell"'entusiasmo" filosofico, bene espresso dall'allegoria della «donna gentile», simbolo evidente della Sapienza.
Si tratta, in sostanza, della terza soluzione già indicata che, tuttavia, presenta anch'essa proprie difficoltà non taciute anche da chi, come la Corti,[44] la preferisce chiaramente. Soprattutto, essa sembra contrastare con l'espressione «desiderio malvagio e vana tentazione» di Vita Nuova, xxxix, 6, che - ove si accetti questa interpretazione - potrebbe riferirsi soltanto a «un momento interiore di rifiuto dell'innamoramento filosofico». Atteggiamento, però, assolutamente impensabile, nel 1292-1293, al tempo della stesura dell'opera giovanile, specialmente se è vero che, proprio alla fine del '93, Dante scrisse la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete, ove si attribuisce la vittoria al nuovo amore per la filosofia che ha ormai superato anche la memoria di Beatrice.
Per sciogliere questa contraddizione, il Pietrobono, sin dal 1932, avanzò l'ipotesi di un possibile più tardo intervento di Dante che avrebbe rimaneggiato il finale della Vita Nuova, quando era ormai diventato il poeta del supremo viaggio oltremondano e dell'ultimo approdo alla pace celeste; un'ipotesi - com'è noto - contrastata vivacemente dal Barbi e, in anni più vicini, discussa minutamente da Mario Marti, in un saggio eloquente sin dal titolo: Vita e morte della presunta doppia redazione della «Vita Nuova».[45] L'accolse invece Bruno Nardi, convinto che altrimenti sarebbe stato impossibile conciliare l'affermazione di Dante di non volere in nulla «derogare» al suo libro giovanile e quei passi del Convivio (II, xii, 1-9) nei quali è celebrata la vittoria della «donna gentile». Nella sua ricostruzione dell"'itinerario" dantesco, egli suppose un'integrale riscrittura del XXXIX della Vita Nuova, che avrebbe trasformato la versione primitiva di quel capitolo (già conforme a quanto è poi detto nel Convivio) in una sorta di "prologo" della Commedia; ma il Poeta non si sarebbe curato di ritoccare il testo del Convivio, opera ormai interrotta ed abbandonata dopo il superamento dell'intensa stagione del suo amore per la filosofia.
Come ha notato giustamente il Quaglio[46] (che, con saggia prudenza, ha voluto «arrestarsi al limite della questione»), le posizioni così divergenti del Barbi e del Nardi implicano due modi opposti di leggere i testi danteschi e, in sostanza, «divergenti criteri di giudizio» che investono l'intera opera dell'Alighieri, nell'inevitabile contrasto tra il letterato e filologo, attento soprattutto ai dati sicuri della tradizione testuale ed alla «linea poetica» del suo Autore, e chi da filosofo, come il Nardi, si preoccupa di ricostruire il «pensiero dantesco nel suo fieri» e scopre «nella continuità della storia che va delineando una frattura netta, che esige consequenzialmente un'ipotesi d'azzardo». Ma va detto che, se la tesi nardiana è stata anch'essa contrastata, proprio perché non confortata da alcun effettivo riscontro filologico e in contrasto con la necessaria autonomia di ogni testo dantesco, non sono stati neppure davvero risolti taluni problemi di fondo energicamente posti dal nostro maggiore studioso della cultura filosofica medievale (che, in sostanza, investono lo stesso carattere del pensiero di Dante nei vari momenti della sua biografia intellettuale ed hanno un'essenziale rilevanza proprio per l'intelligenza del Convivio). Certo, anche il Nardi non ha accettato (e come avrebbe potuto?) l'ipotesi del "traviamento" del Poeta, travolto dalle sue passioni terrene o dall'adesione a dottrine profane e pericolose per la sua fede cristiana. Ma, in mezzo secolo d'indagini e di analisi magistrali, sostenute da una conoscenza eccezionale di autori e di testi, ci ha consegnato un'immagine quanto mai "problematica" delle esperienze dottrinali di Dante, della sua lunga e profonda inquietudine intellettuale, di una "ricerca" svolta lungo vie apparentemente diverse e contrastanti, al centro di una crisi che, del resto, coinvolgeva molte altre personalità, ambienti e tendenze intellettuali del suo tempo. Si comprende perché la sua opera di esegeta, anche nei suoi esiti più azzardati (che sono però altrettanti tentativi di fornire risposte a problemi veri e inevitabili) continui ancora oggi a offrire suggerimenti di grande valore che occorre, naturalmente, verificare sempre con il diretto confronto delle evidenze filologiche, storiche e documentarie. Ne è prova il fatto che anche certe "piste" ritenute ormai escluse tornano ad essere ripercorse, ma con metodi e strumenti diversi e con la consapevolezza che esse sono soltanto ipotesi di lavoro e non certezze solide e incontrovertibili.
Anche a proposito della «donna gentile», la discussione è stata, infatti, riaperta dalla Corti[47] che l'ha affrontata sul terreno di una complessa analisi di quei «dati» lessicali e stilistici che - scrive - «sembrano incrementare il giallo suggestivo del finale della Vita Nuova». Non posso qui entrare nei particolari di questa analisi che, comunque, pone in luce elementi nuovi d'indiscutibile interesse, validi al di là del tema in discussione, e proposti con la consueta acutezza. Dirò soltanto che la studiosa prende atto delle difficoltà già opposte alla tesi del "rifacimento" (e, cioè, la mancanza di testimonianze manoscritte di un finale diverso della Vita Nuova, lo "strano" ritorno di Dante, dopo il Convivio, al linguaggio ed allo stile della Vita Nuova, la necessità di considerare ogni sua opera come «un mondo a sé, un microcosmo, una stella che ruota sulla propria traiettoria entro il macrocosmo dantesco» e, soprattutto, appunto, «i due sintagmi "malvagio desiderio e vana tentazione"» che, in ogni caso, restano in contraddizione con il testo del Convivio, II, ii, I). Ritiene che a queste obiezioni si possa, almeno in parte, replicare, sia notando che la tradizione manoscritta della Vita Nuova risale al Trecento inoltrato, sia osservando che Dante stesso può aver voluto non lasciar traccia di ciò che aveva ormai rifiutato, sia sottolineando le «spie tematiche e formali del nuovo e del diverso» che pure si registrano nel finale attuale della Vita Nuova (un testo, per lei, steso probabilmente dopo la scrittura del III trattato del Convivio che «per liricità e fervore scrittorio non scherza»); sia, infine, ricordando che esiste pure «un continuum nello sviluppo di un artista», sul quale lo stesso Autore richiama l'attenzione quando stabilisce un così stretto rapporto tra le due opere. Resta, però, ancora insormontabile l'ostacolo costituito dai «due sintagmi», inspiegabili, anche nel caso di un rifacimento, senza postulare un'incomprensibile caduta della «memorizzazione» di Dante, al quale pure le canzoni allegoriche dovevano imporsi «con tutto il loro peso di realtà poetica».
Può, forse, valere sempre l'ipotesi che il Convivio sia stato abbandonato come «uno scartafaccio», non più considerato dal suo Autore degno di divulgazione, oltre che di compimento; supposizione che, anche al Quaglio,[48] è sembrata suffragata dallo stato della tradizione manoscritta, tarda, lacunosa e scorretta, dalla mancata conoscenza di quest'opera da parte dei commentatori più antichi della Commedia (con la sola esclusione di Pietro Alighieri) e dal ritardo con cui questo testo «entra in circolo», solo a partire dal quarto decennio del Trecento. Sono tutte spiegazioni plausibili che, tuttavia, - lo riconosce la stessa Corti - non sono sufficienti a fornire una risposta definitiva ed a sciogliere, una volta per tutte, una quistione che tornerà ancora e sempre a proporsi a chi voglia addentrarsi nel difficile reticolo dei testi che documentano un cammino umano e poetico che non fu deciso e rettilineo, ma procedé con la fatale contraddizione e l'inevitabile ambiguità propria di ogni vera meditazione sul "destino" ultimo dell'uomo.
8. - Ho insistito particolarmente su questa discussione, perché ha avuto e mantiene un peso indiscutibile anche sull'esegesi del Convivio ed è la spia di un dibattito assai più vasto che investe la stessa ispirazione dottrinale, natura e finalità di quest'opera, e, quindi, anche il suo rapporto con gli altri testi danteschi. Tuttavia, per quanto concerne quest'ultimo problema, le difficoltà sono assai minori e, in ogni caso, non così ardue. Già, a proposito del De vulgari eloquentia, si è detto che questa opera è citata come uno scritto d'imminente stesura nel trattato; né occorre, certo, sottolineare gli evidenti rapporti tra i capitoli v-xiii di questo testo e l'impianto teorico e le ragioni stesse dell'altro scritto, rapporti già posti più volte in precisa evidenza e ottimamente illustrati nel commento del Mengaldo.[49] Piuttosto - come si è già accennato - resta da approfondire e verificare l'ipotesi della Corti che propone di situare la stesura del De vulgari eloquentia dopo i primi tre trattati del Convivio e avanti del IV, sul fondamento di argomenti particolarmente stimolanti.
Anche il nesso tra Convivio e Monarchia non presenta particolari problemi, soprattutto alla luce delle considerazioni del Nardi[50] e del Gilson,[51] sostanzialmente concordi nel ritenere che il nucleo teorico essenziale e più originale dell'opera politica sia, in sostanza, lo sviluppo organico e più compiuto di concezioni già abbozzate nel IV trattato. Proprio il Nardi ha, anzi, indicato nella Monarchia la prova più matura di quell'impegno filosofico che, nel Convivio, non sempre trova un'espressione logica e scientifica rigorosa, nel contesto di un discorso talvolta più inteso ad esaltare l"'amore di Sapienza" e l'altissima «dignità» della mente umana che a svolgere sottili e complesse problematiche dottrinali, oltre tutto difficilmente esprimibili con lo strumento linguistico del «volgare». Eppure, specie nel IV trattato, la tecnica logica e i procedimenti argomentativi propri della Monarchia sono già chiaramente preannunziati, forse sotto il diretto influsso di nuove esperienze culturali; mentre lo stesso argomento della "quaestio" e i temi che vi sono introdotti rivelano come la meditazione di Dante sia già vòlta verso i grandi problemi del vivere civile, della giustizia e dell'ordine mondano, nell'attesa del ritorno a una sicura garanzia di armoniosa convivenza umana e nella celebrazione - così comune ai maggiori teorici politici del suo tempo - della pace, condizione prima e indispensabile per il raggiungimento dei fini terreni dell'uomo.
Resta, infine, da dire del rapporto tra il Convivio e la Commedia.
E qui credo che si possa soltanto condividere quanto vari studiosi hanno già appurato a proposito del ruolo decisivo svolto dal Convivio nella storia intellettuale di Dante e nella maturazione del suo capolavoro, ai vari livelli della elaborazione filosofica e scientifica, della disposizione immaginativa, dei procedimenti di allegorizzazione, dei moduli semantici e, infine, della stesso potere di trasfigurare la propria personale vicenda nel paradigma di un destino universale che coinvolge la sapienza umana e la rivelazione divina, il mondo della storia e delle vicende umane, l'ordine cosmico, le gerarchie celesti, sino all'ultima perfezione dell'identificazione totale con il divino. Da questo punto di vista, quasi ogni capitolo del Convivio potrebbe fornire l'occasione per un confronto sistematico con i passi della Commedia che vada ben oltre il semplice richiamo a temi comuni o a forme espressive e strutture immaginative simili; così come sarebbe agevole seguire lo sviluppo di alcuni motivi dominanti e costanti che dall'una all'altra opera costituiscono, per così dire, la "sostanza prima" dell'universo poetico e spirituale di Dante. Certo è che sia il Convivio sia la Commedia sono entrambi la storia della ricerca di una perfezione umana perseguita lungo un cammino aspro, difficile e drammatico, la cui mèta è la somma pace, la felicità della contemplazione. Ma questa ricerca che, nella visione dantesca, è il moto comune di ogni desiderio, di ogni vita, di ogni pensiero, passa necessariamente attraverso la meditazione dei "documenta philosophica" e la conquista della «Sapienza» che in essi si «dimostra», anche se, oltre i limiti del tempo e della discontinua felicità del sapere, l'«angelica farfalla» che è in noi dovrà abbandonare la sua "crisalide" umana per salire al fuoco eterno dell'amore assoluto. Le stesse oscillazioni, incertezze, dubbi e ambiguità che l'«amatore» della Filosofia lascia trasparire nel suo confronto con le massime tradizioni di un sapere più che venerabile derivano dalla perenne tensione tra la certezza di una verità sempre più chiara ed evidente alla luce della ragione umana e l'appello della trascendenza che trasvaluta il bisogno naturale della felicità nell'ascesa all'«ultimo desiderabile». Anche in questo, il Convivio non svela solo la personale esperienza dell'uomo Dante, bensì anche una condizione comune a tanta parte della cultura tardo-medievale, espressa nelle più diverse soluzioni e nei tentativi teorici più ardui, ma che, soltanto nella Commedia, ha trovato la sua più perfetta espressione nel tema della "peregrinatio" sovrannaturale, del "ritorno" all'unica fonte dell'Essere.
Sembra perciò anche a me accettabile il suggerimento di chi ha indicato nei passi veramente cruciali di IV, iii, 14-18 la prima traccia già evidente delle "linee fondamentali" della Commedia che la difficile riflessione del Convivio viene già segnando, così come prepara il disegno dell'ordine universale (terreno, «civile», celeste e «angelico») dove sta già irrompendo la potenza immaginativa della poesia.[52] Momento di elaborazione teorica e di riflessione su una via già percorsa e sui suoi approdi, il Convivio è, insomma, l'inevitabile "antefatto" da cui muove l'impresa della Commedia per la quale ha approntato idee e linguaggio, con uno sperimentalismo originale e innovatore. Anche il discorso del poema continuerà a rivolgersi, per la via più persuasiva ed efficace della poesia, allo stesso uditorio cui era destinato l'insegnamento del Convivio, gli uomini non "clerici" e non "magistri" che, però, possiedono la vera nobiltà e vogliono saziare la loro «umana fame» di perfezione.
9 - L'indiscutibile importanza del Convivio e, insieme, la sua incidenza su ogni tentativo di corretta esegesi del pensiero dantesco spiegano perché proprio intorno a quest'opera siano andate crescendo nel tempo le discussioni e le opposte valutazioni degli interpreti, ben consapevoli che lo studio delle "fonti" filosofiche e scientifiche di questo testo (o meglio, delle influenze dottrinali che maggiormente vi si manifestano) costituisce una via obbligata anche per la soluzione di taluni problemi cruciali per l'intelligenza della Commedia. Ma, se un lavoro di scavo già molto approfondito ha permesso d'indicare almeno alcune linee maestre della meditazione dantesca, non è sempre altrettanto riuscito il tentativo d'individuare con esattezza i testi e gli autori di cui Dante può essersi effettivamente servito nella stesura di un'opera composta nelle più difficili condizioni che si possano immaginare per un uomo di studio e, in ogni caso, singolarmente contrastanti con lo studio metodico e la possibilità di vaste e meditate letture. Come ha notato giustamente il Petrocchi,[53] la biblioteca personale, "portative" dello Alighieri non poté essere troppo ricca; e credo giusta la sua supposizione che «la povertà del soggetto» e i «continui traslochi da un luogo all'altro» gli permettessero al massimo di possedere «una dozzina di auctores, tra classici e cristiani, un'epitome (magari una sola) storica e una geografica, o storico-geografica assieme, una piccolissima raccolta di poeti· provenzali, francesi e italiani, forse le Razos de trobar di R. Vidal e la Summa di Guido Faba». Specialmente durante il soggiorno veronese e veneto, Dante avrà potuto consultare qualche biblioteca conventuale e capitolare ricca di testi filosofici e teologici; anche a Lucca, nel corso del 1308, gli sarà stato possibile di usufruire del notevole materiale librario conservato in quella città, sede di illustri istituzioni ecclesiastiche e monastiche. Ebbe però, certo, minori opportunità di lettura e di studio durante il periodo lunigiano, trascorso lontano da centri urbani importanti, anche se la presenza, in quella zona, di varie fondazioni degli Ordini mendicanti non dové rendergli del tutto impossibile il conforto di qualche testo. Ma concordo, anche in questo, con il Petrocchi quando ci ricorda che simili frequentazioni, se veramente avvennero, ebbero come scopo la verifica di «luoghi ed espressioni di auctores che già conosceva», delle idee e delle nozioni apprese non solo nei «trenta mesi» dei suoi primi studi filosofici, ma anche prima e, poi, in séguito, tra la presenza ai dibattiti degli "Studia" conventuali e dei circoli dei dotti fiorentini, il forse ripetuto soggiorno bolognese, e le proprie personali letture, suggerite da un interesse costante per le grandi concezioni dottrinali del suo tempo che neppure la partecipazione alla vita politica e i drammatici eventi che ne seguirono dovettero mai spegnere del tutto.
Nondimeno, quando da queste constatazioni si passa al tentativo di ricostruire veramente la formazione filosofica di Dante, di fissare, per così dire, il catalogo degli autori e dei testi che poté leggere sicuramente o dei maestri che davvero frequentò, i problemi divengono assai più complessi, aggravati dalla vaghezza delle informazioni fornite dallo stesso Dante e dall'impossibilità di far davvero derivare il suo pensiero, sempre così mobile e ricco di molteplici sfaccettature, dalle dottrine dei maestri pure illustri che insegnarono in quegli anni a Firenze, si tratti pure del domenicano Remigio Girolami o del francescano "spirituale" Giovanni Olivi. Possiamo - è vero - essere ragionevolmente certi dell'influenza esercitata su Dante dall'esempio di Brunetto Latini,[54] dalla sua cultura aperta a un dialogo diretto coi classici e in continuità di rapporti con la letteratura di Francia dell'ultimo mezzo secolo e, soprattutto, da un'opera come il Tresor che può essere considerato un indiretto precedente del Convivio. Si possono anche seguire le tracce che, specie attraverso il De vulgari eloquentia, ma anche alcuni passi dello stesso Convivio, sembrano connettere il pensiero dantesco con metodi e discussioni logiche di grande rilevanza anche per le loro conseguenze "semantiche". Ed è pure ipotizzabile che egli possedesse i comuni primi fondamenti delle letture di scuola, dai Libri sacri alla Consolatio di Boezio, dalle Confessiones e dal De civitate Dei di Agostino a testi scolastici comuni di dialettica e di retorica, da Cicerone a Seneca «morale». Né si potrà escludere che dei dibattiti cui aveva assistito, delle "quaestiones" udite e delle "lectiones" ascoltate avesse conservato memoria, affidandola magari a quei quaderni e scartafacci studenteschi spesso così importanti per ricostruire la diffusione di dottrine e la fortuna di particolari autori. (E poi - non dimentichiamolo - Dante apparteneva ad un'età e ad una cultura che aveva particolarmente sviluppato le tecniche della memorizzazione, insegnando, tra l'altro, a selezionare i "loci" fondamentali e le "sententiae" decisive!). D'altra parte, occorrerebbe indagare più a fondo anche nella direzione che ci è fornita dalle raccolte di "excerpta" e di "sententiae", da quel materiale "di seconda mano", prodotto proprio per gli usi della scuola o per l'utilità dei "magistri" e dei "doctores", che sappiamo diffuso anche in ambienti "laici", e che, nondimeno, proprio per la sua genericità e somiglianza rende difficile un'individuazione sicura e diretta. In questi testi che hanno spesso un taglio "enciclopedico" e compilatorio (come, per citare un classico esempio, l'operetta di Restoro d'Arezzo)[55] rifluisce una parte non piccola della grande cultura del tempo tratta, direttamente o indirettamente, dagli autori e dai commentatori più diffusi, in particolare da coloro che si erano maggiormente impegnati nel far conoscere alle scuole dei "Latini" le ragioni e i fondamenti di quel sapere che, attraverso la conoscenza sempre più compiuta del "canone" aristotelico, dei commentatori greci e "orientali", ma anche dei documenti della scienza antica e della sua straordinaria ripresa nella cultura islamica, si era già imposto anche nell'Occidente. Tra costoro uno dei più adoperati, "epitomati" e parafrasati era, senza dubbio, Alberto Magno, il maestro scolastico forse più influente sull'atteggiamento filosofico dell'Alighieri.
È chiaro che risalire sempre alle effettive letture e conoscenze testuali di Dante, al tempo della stesura del Convivio, è un'impresa estremamente difficile se non addirittura impossibile.[56] Certo, si può ben constatare che egli possiede effettivamente una buona conoscenza dei princìpi e dei concetti fondamentali della dottrina di Aristotele, il Filosofo per eccellenza, il «maestro de l'umana ragione», il cui pensiero è identificato con il vero possesso della sapienza umana e delle sue radici divine. Cita direttamente o ricorda diverse sue opere (l'Ethica nicomachea, la Metaphysica, la Physica, il De caelo et mundo, il De anima, il De sensu et sensato, il De generatione et corruptione, il De iuventute et senectute, i libri De animalibus, I'Organon, la Rhetorica e la Politica), ma spesso in modo non esatto, sì da far pensare alla memoria di letture non recenti, o all'uso di testi poco corretti, oppure di "epitomi" o raccolte. Anzi - lo ha mostrato pure Enrico Berti -, non è sempre agevole neppure riconoscere quali traduzioni avesse presenti, anche se, nella maggior parte dei casi, le citazioni e le parafrasi sembrano rinviare alle versioni più recenti dal greco, come quelle condotte da Guglielmo di Moerbeke o il cosiddetto "textus recognitus" dell'Ethica nicomachea. Ma non mancano casi per i quali si dovrebbe risalire a versioni più antiche (un segno anche questo della difficoltà e discontinuità delle letture e dei "controlli" danteschi), oppure direttamente ai commenti maggiormente circolanti o, ancora, a loro "epitomi" o "excerpta". Tra le opere più citate sono la Metaphysica (otto volte), la Physica (nove volte), il De anima (dieci volte), il De caelo (sette volte), testi di cui Dante dimostra, specie nel caso della Metaphysica e della Physica, la sicura conoscenza di alcuni fondamentali passi "topici", nonché delle dottrine generali, presupposte anche da passi del Convivio che non citano direttamente tali opere, così come altri rivelano l'implicito richiamo a concezioni esposte nel De generatione et corruptione (citato solo due volte), nei cosiddetti Libri de animalibus e nei Parva naturalia. Tuttavia, il testo aristotelico di cui rivela la padronanza più compiuta e una meditazione sistematica è, senza dubbio, l'Ethica nicomachea. L'elenco dei passi fornito dal Moore[57] (che pure potrebbe essere ancora arricchito) dimostra come Dante abbia avuto presenti praticamente tutti i libri e i capitoli dell'opera, anche se, talvolta, le espressioni da lui usate sembrano dipendere piuttosto dalla versione brunettiana (dalla traduzione latina) di una nota epitome araba, la Summa Alexandrinorum o Liber Ethicorum, oppure dalla Expositio di Tommaso d'Aquino (espressamente citata due volte: un commento che deve essergli effettivamente molto servito, proprio per il suo carattere di esegesi chiara e sistematica di un'opera non sempre facilmente interpretabile nel dettato delle versioni latine) o dai commenti (Ethica e Super Ethica) di Alberto Magno che, per talune quistioni decisive, sembrano effettivamente più vicini alle sue conclusioni.[58] Vi sono, poi, altre indicazioni che mostrano come egli abbia avuto (ma non sappiamo se direttamente o indirettamente e per quale estensione) un accesso anche ai commenti albertini al De anima (con il De natura et origine animae e il De intellectu et intelligibili), al De caelo, al De generatione et corruptione, ai Meteorologica, alla Physica, ai libri De animalibus e ai Parva naturalia. Ma un altro testo frequentemente citato o adoperato nel Convivio è un'opera spesso considerata aristotelica, però, in realtà, derivata dall'Elementatio theologica di Proclo, il Liber de causis.[59] E giacché si parla di questa importante fonte neoplatonica della cultura basso-medievale, converrà anche aggiungere che Dante attinge pure al De divinis nominibus e forse anche ad altri scritti dello Pseudo-Dionigi (le cui origini riconducono, di nuovo, alle medesime tradizioni neoplatoniche) che furono - come è noto - un fondamentale "seminario" del lessico mistico medievale.[60]
Meno probabile e, comunque, meno frequente appare invece il ricorso agli altri commentari aristotelici di Tommaso d'Aquino. Nondimeno, talune citazioni della Metaphysica e della Physica sembrano realmente suggerire la presenza dell' "intermediario" tomista. Nel Convivio è pure citato il Timeo di Platone; ma ciò non rivela un'effettiva familiarità con quest'opera, pure così presente nella cultura medievale, specie prima della diffusione della Physica aristotelica. Certo, vari temi e dottrine di origine platonica (e neoplatonica) sono ben presenti nel pensiero e nella cultura di Dante, giuntigli probabilmente attraverso la mediazione di diversi autori, da Agostino a Boezio, da autori del XII secolo (come Alano di Lilla) ad Alberto Magno (così influenzato da dottrine neoplatoniche) ed allo stesso Tommaso d'Aquino di cui oggi si conosce meglio l'effettivo interesse anche per concezioni davvero non rigorosamente aristoteliche. Né mancano - è ovvio - anche nel Convivio le citazioni di alcuni tra i maggiori filosofi "islamici", Averroè, Avicenna, Algazali, Alpetragio. In particolare di Averroè è citato esplicitamente il Commento al III libro De anima (Iv, xiii, 8), è ripresa ed accettata la dottrina sulla causa delle macchie lunari (poi ripudiata nel Paradiso)[61] ed è pure probabilmente utilizzato un passo del Commento ai Meteorologica che, però, può essere mediato dal commento albertino.[62] Ma vi sono altre evidenze che mostrano una conoscenza più estesa delle dottrine averroistiche e, forse, anche di altri testi che invero potrebbero essere giunti a Dante per via indiretta, soprattutto per il tramite di Alberto Magno che, talvolta, si avvicina o aderisce a tipiche concezioni averroistiche. (Si pensi soltanto al tema della compiuta perfezione e felicità raggiungibile in questa vita con la speculazione filosofica!). Non è molto diverso quanto si può dire per i riferimenti ad Avicenna, autore citato a proposito non solo della funzione "generativa" dei «motori» celesti, della natura della Galassia o della diversità tra «luce», «raggio» e «splendore», ma anche dell'origine e della particolare «nobiltà» delle anime.[63] Anche in questo caso, infatti, l'influenza delle dottrine avicenniste sembra più estesa e profonda di quanto indichino questi particolari riferimenti; e può essere derivata da comuni intermediari scolastici, soprattutto albertisti. Del resto, pure il riferimento ad Alpetragio (ed alla sua dottrina della "partecipazione" di ogni effetto alla natura della propria causa) sembra mediata proprio da Alberto Magno che cita ed utilizza spesso quel filosofo arabo.
Comunque, le indicazioni in nostro possesso non permettono, neppure per quanto concerne questi autori, di stabilire, in modo sicuro, quale fosse l'effettivo grado di conoscenza dei loro testi da parte di Dante e quanto, invece, gli venisse da fonti "minori" e "secondarie" che ne esponevano le concezioni, ne indicavano i "luoghi" maggiormente significativi e, in certo modo, già li "volgarizzavano", come avviene nelle frequenti "digressioni" di cui sono ricchi i commenti albertini, oppure nelle raccolte e compilazioni enciclopediche già ricordate.
Per quanto concerne gli altri filosofi dell'antichità citati nel Convivio è persino inutile dire che le notizie relative dipendono in larga misura dai testi aristotelici e dai loro commentatori, da taluni testi ciceroniani e, ancora, dalle raccolte di "sententiae" o dalle Vitae philosophorum (ricordo il Fiore di filosofi già attribuito a Brunetto), correnti nella cultura del tempo. È invece notevole la conoscenza di Cicerone (sono citati il De amicitia, il De finibus, il De Officiis, i Paradoxa e il De senectute), sebbene, naturalmente, non si possa esser certi se i riferimenti siano diretti o, invece, dipendano - come talvolta sembra evidente - dal Tresor o da altri testi simili. Pure di Seneca, lodato insieme a Socrate e a Zenone per il suo amore della filosofia che lo indusse a disprezzare la vita, è ricordata un'Epistula ad Lucilium; e sono chiari taluni rinvii impliciti al De beneficiis, alle Naturales quaestiones (forse mediati, questi ultimi, dal De meteoris di Alberto Magno) e, probabilmente, ancora ad altre Epistulae ad Lucilium. Né andrà dimenticata la citazione del Liber de quatuor virtutibus di Martino di Dumio (III, viii, 12), attribuito a Seneca da Dante (in Mon., II, v, 3) ed usato pure nel Tresor, nel rifacimento di Ildeberto di Lavardin.
I teologi e filosofi "cristiani" che il Poeta cita espressamente non sono molti. Egli conosce - come s'è già detto - le Confessiones e il De civitate Dei di Agostino e, con molta probabilità, l'Enchiridion, il De libero arbitrio e il De ordine, testi peraltro tanto citati nella varia letteratura scolastica. Cita una sentenza di Girolamo che si riferisce a Paolo (Iv, v, 16) e qualche altra volta sembra forse riecheggiare sue frasi entrate nell'uso comune. Gli è molto familiare la Consolatio di Boezio, più volte citata e comunque utilizzata; conosce probabilmente i Moralia di Gregorio Magno; e cita espressamente il De regimine principum di Egidio Romano (Iv, xxiv, 9). Inoltre, alcuni passi suggeriscono una possibile ed anzi probabile conoscenza di Ugo e di Riccardo di San Vittore (le cui opere Beniamin maior e Beniamin minor possono avergli anche fornito importanti suggestioni "semantiche", nella ricerca di un linguaggio che trasferisce all'amore ed alla contemplazione della "Filosofia-Sapienza" espressioni tipiche dell'esperienza mistico-speculativa). Altre "spie" suggeriscono la possibile incidenza di Alano di Lilla, l'autore dell'Anticlaudianus, già indicato come una probabile fonte del "viaggio" dantesco nel Paradiso.[64] Ma nella direzione di autori e testi del XII secolo credo siano ancora possibili nuove scoperte, così come altri dati di estrema importanza per meglio valutare la cultura filosofica di Dante potrebbero essere forniti dall'auspicabile definitiva soluzione della lunga "querelle" intorno alla paternità de Il Fiore.[65]
Per quanto concerne i testi di carattere specificamente "teologico" (secondo la distinzione ormai invalsa nella cultura "scolastica" del tempo), l'unica opera citata esplicitamente nel Convivio è la Summa contra Gentiles di Tommaso, dal cui titolo Dante trae ispirazione per chiamare Contra-li-erranti la terza canzone, [66]ma il cui uso è più limitato di quanto sembrò al P. Busnelli che, del resto, non si limitò a citare, in molte occasioni, questo scritto tomista (così ricco, peraltro, di motivi "dionisiani" e vòlto a combattere gli "errantes" sul loro stesso terreno, servendosi di un'argomentazione puramente razionale per fondare i "preambula fidei"), bensì aggiunse frequenti richiami alla Summa theologica la cui conoscenza, in questo momento dell'itinerario dantesco, non sembra provata. (Pare, invece, più certa la conoscenza di alcuni passi del De regimine principum dello stesso Tommaso e della Summa del Peraldo, opportunamente segnalata dalla Corti).[67] Per il resto, in un libro spiccatamente "filosofico" qual è il Convivio, risulta pure difficile individuare delle tracce sicure e probanti che, al di là del comune rapporto con i testi agostiniani e "dionisiani", guidino decisamente verso le dottrine specifiche di Bonaventura da Bagnoregio e dei suoi seguaci o confermino un'effettiva e documentata influenza dell'Olivi, autore che può avere, piuttosto, ispirato alcuni temi dominanti della polemica dantesca contro la corruttela delle istituzioni ecclesiali e nutrito la vocazione profetica e "spirituale" della Commedia.
Il Nardi[68] e, poi, il Bettoni[69] hanno avanzato suggerimenti interessanti per quanto riguarda talune specifiche dottrine concernenti la «struttura» dell'anima e il nesso tra le sue «forme» che potrebbero mostrare un'effettiva vicinanza tra le teorie di questo maestro francescano e alcuni passi del Convivio particolarmente importanti; così come, d'altro canto, sono state rilevate dal Capitani[70] possibili convergenze con alcune concezioni proprie della riflessione etica di Remigio Girolami. Ma non credo che simili affinità bastino a stabilire un effettivo rapporto di dipendenza. Naturalmente, le stesse considerazioni possono valere, a maggior ragione, nei confronti di altri ·autori vicini o contemporanei, come - per citare solo i più noti - Giovanni Duns Scoto, Guglielmo d'Ockham o Giovanni di Jandun, dei quali non mi sembra si possano rilevare tracce consistenti, anche se le recenti indagini della Corti possono aprire un'altra direzione di ricerca rivolta però piuttosto verso Boezio di Dacia e Gentile da Cingoli.[71] Pure per quanto concerne Sigieri di Brabante (esaltato nella gloria del Paradiso, nonostante le polemiche e le dure condanne che lo avevano colpito), se si deve riconoscere che Dante condivide un concetto della "felicità speculativa" come compiuta ed autosufficiente che è comune sia al maestro brabantino sia, in sostanza, anche ad Alberto Magno, non è facilmente determinabile la misura e l'estensione di un possibile influsso. Né sappiamo se Dante possa avere direttamente conosciuto il De intellectu o il Liber de felicitate; mentre il discorso del Convivio, certamente aperto alle suggestioni dell'aristotelismo "radicale", non permette di determinare, in modo sicuro, fino a che punto certe conclusioni dipendano dal lungo e costante influsso di testi e dottrine albertisti, oppure dal diretto accesso alle idee del massimo rappresentante dell'averroismo latino.
Resta da dire degli scritti scientifici che Dante utilizza nel Convivio, attingendo spesso a compilazioni enciclopediche, come quella già citata di Restoro d'Arezzo e, forse, gli Specula di Vincenzo di Beauvais, un'opera di cui è nota la larga fortuna. È già stato appurato che la maggior parte delle nozioni astronomiche "tecniche" gli sono fornite dal Liber de aggregatione scientiae stellarum di Alfragano,[72] insieme - è probabile - alla Sphera del Sacrobosco, testo di costante uso scolastico. Dante cita pure Albumasar,[73] ma sulla traccia del Commento ai Meteorologica di Alberto Magno, mentre i riferimenti all' Almagesto di Tolomeo[74] sembrano ugualmente dipendere dai Commenti al De caelo dello stesso Alberto e, forse, di Tommaso d 'Aquino. Del tutto "topici" sono poi i richiami diretti ad Ippocrate e a Galeno, sebbene, per altra via, dottrine ippocratiche e galeniane (sempre dominanti nella cultura medica del tempo, magari attraverso intermediari arabi, e tutt'altro che ignote pure ai filosofi) ricorrano in vari passi del Convivio e, in particolare, nel lungo "excursus" sull'«arco della vita».[75] Infine, andranno pure considerati gli evidenti interessi nutriti da Dante per la teoria della «perspectiva»[76] e per la «fisica», «metafisica» e «teologia» della luce che hanno suggerito, tra l'altro, il confronto con l'opera del francescano Bartolomeo da Bologna, dipendente, a sua volta, dal Grossatesta e da Bonaventura.[77]
La cultura filosofico-teologica non è, davvero, l'unico orizzonte del Convivio. Certo, le citazioni della Scrittura non sono molto numerose (circa quarantacinque, con una significativa crescita nel IV trattato).[78] Però esse sono determinanti anche per l'interpretazione dell'idea dantesca della "Filosofia-Sapienza", il cui carattere del tutto peculiare è stato bene illuminato dal Nardi, quando ha mostrato come la "filosofia umana", appresa dalle dottrine di Aristotele e dei "Peripatetici", sia, per Dante, anche l'eterna verità divina, fondamento dell'ordine universale e pensiero coeterno alla Mente suprema. È pure sintomatico che i richiami ai testi scritturali (insieme a quelle allusioni di carattere addirittura "spirituale" o liturgico che non mancano, invero, anche negli altri trattati) diventino sempre più numerosi e frequenti nel IV trattato, quasi a indicare l'inizio di una nuova fase della meditazione dantesca che, se riconosce sempre il valore dei "philosophica documenta", come necessaria guida alla felicità terrena, guarda però, soprattutto, ai "documenta spiritualia", unica via alla «beatitudo vite ecterne», adombrata nel "paradiso celeste", l'ultima mèta della Commedia. Ma queste indicazioni "quantitative", legate alle citazioni dirette, dicono assai poco sulla reale presenza dei testi scritturali nel tessuto del Convivio, presenza affidata spesso a riferimenti indiretti ed alla forte suggestione di un linguaggio ricco di espressioni, metafore e immagini schiettamente scritturali. Né mancano, anche in quest'opera "filosofica", passi che illuminano le conoscenze liturgiche di Dante, la sua familiarità con il rituale e le tradizioni della Chiesa e con le forme della "pietà" e della preghiera quotidiane.
È questo un aspetto della cultura dantesca forse non ancora adeguatamente "esplorato";[79] così come andrebbero meglio valutate le sue conoscenze giuridiche che sembrano discretamente estese.[80]
Le indicazioni che si è cercato di fornire mostrano, in primo luogo, la complessità delle possibili fonti dantesche che impone, da un lato, il ricorso a molti autori e testi e, d'altra parte, si scontra con l'evidente impossibilità di letture così estese. Senza dubbio, il commento non può esimersi dall'indicare quei testi che sono alle origini delle particolari concezioni dantesche, anche quando può sembrare più opportuno richiamarsi a intermediari la cui presenza non è però sicuramente provata. Ma il fatto che le citazioni dantesche sembrino emergere da un ricordo più o meno lontano o da riscontri condizionati da situazioni, per noi, non valutabili, propone anche altri problemi non meno importanti che investono lo stesso carattere del pensiero di Dante e la sua definizione nell'ambito della cultura filosofica e teologica del tempo. A questo proposito, sarà bene dir sùbito che spesso la discussione di tali problemi è stata condizionata da pregiudizi e presupposti ideologici di varia natura, sempre comunque aprioristici. Si è infatti discusso a lungo sulla particolare "coloritura" dottrinale delle concezioni esposte nel Convivio e, soprattutto, su un presunto "tomismo" o un opposto "averroismo" dantesco, attribuendo, oltre tutto, a queste "coloriture" significati fin troppo "attuali". Non s'ignora che, specie tra gli ultimi decenni dell'Ottocento e gli inizi del nostro secolo, la rinascita di un notevole interesse per la filosofia medievale fu contestuale con l'avvento del "neotomismo", quale ispiratore di una rinnovata cultura filosofica cattolica, e con i prodromi e poi l'aperta manifestazione della crisi "modernista". Simili circostanze favorirono la ripresa di studi documentati e specifici intorno alle dottrine filosofiche di Dante proposte sia nella Commedia, sia nelle "opere minori". Tali studi, se permisero di chiarire alcuni passi cruciali già mal compresi o travisati, imposero anche tesi pregiudiziali, responsabili, addirittura, di forzature del testo. Non poche correzioni o manipolazioni di passi del Convivio furono apportate e difese proprio per stabilire la più perfetta corrispondenza con le "fonti" e le dottrine prestabilite. Con lo stesso criterio, si ritenne scontato che Dante avesse avuto una vastissima conoscenza dei testi filosofici e teologici del suo tempo e la continua possibilità di studiarli e consultarli. Soprattutto, s'instaurò il "dogma" del "tomismo" di Dante,[81] il cui pensiero venne, senz'altro, posto da alcuni studiosi e commentatori sotto l'egida del maestro che veniva considerato non solo il massimo pensatore medioevale, bensì la pietra di paragone della perenne verità ortodossa.
Naturalmente, questi studiosi ignoravano o tacevano la complessa e difficile storia del "tomismo", un fatto culturale e storico di lungo periodo, la cui definitiva "cristallizzazione" avvenne molto dopo la scomparsa del teologo aquinate. Ma il loro atteggiamento pesò gravemente sull'esegesi dantesca, ridotta, talvolta, all'improbabile e sterile pratica di recuperare, ad ogni costo, una fonte o almeno un "equivalente" tomista alle idee espresse dal Poeta, in opere che non avevano misura scolastica e miravano, prima di tutto, ad un ammaestramento spirituale, etico e civile. Non starò qui a citare taluni risultati più tipici e sconcertanti, come quelli prospettati dal Mandonnet (e severamente ironizzati dal Gilson)[82] o da altri commentatori avvezzi a indicare, ad ogni passo, testi tomistici che ripetevano "loci communes" scolastici, oppure a sovrapporre ai passi danteschi espressioni o concetti dell'Aquinate solo vagamente somiglianti. Non vorrei neppure insistere sul pur degno ed utile commento al Convivio del P. Busnelli,[83] prova di notevole erudizione storico-filosofica, ma troppo legato al presupposto che Dante, in quasi tutti i casi, avesse conosciuto le dottrine aristoteliche attraverso l'intermediario dell'esegesi tomista e vòlto a cercare ogni possibile convergenza con le Summae e altre opere del «Doctor Angelicus». Le critiche di due grandi medievisti, come il Nardi e il Gilson, hanno fatto, ormai da tempo, piena giustizia del mito del "tomismo generale" di Dante; specialmente il Nardi ha avuto il merito di fondare sopra un'amplissima conoscenza della cultura del XIII e XIV secolo la sua ricerca non tanto di presunte e sempre contestabili "fonti", quanto, piuttosto, degli ambienti e delle problematiche filosofiche con le quali Dante si era confrontato. I risultati sono noti e non occorrerà troppo insistervi, se non per notare che, pur recando uno straordinario incremento alle nostre conoscenze sullo sfondo dottrinale dell'opera dantesca, gli studi del Nardi sono stati, a loro volta, condizionati da una particolare insistenza sulle possibili radici averroistiche, in sintonia con un'interpretazione dello stesso "averroismo latino" di cui oggi si può meglio comprendere la natura "ideologica" e le evidenti origini storiografiche. Comunque, le indagini di questo probo e severo studioso hanno attribuito un rilievo sempre maggiore all'influenza di Alberto Magno, mentre hanno pure individuato connessioni difficilmente contestabili con alcuni testi averroistici, con concezioni testimoniate anche da Sigieri di Brabante, con idee proprie della tradizione neoplatonica medievale, dal Liber de causis alle opere di Avicenna e di Algazali. E di qui sono mosse altre ricerche che, da un lato, hanno permesso di riconoscere certe tracce che riconducono al cosmo spirituale del XII secolo e, d'altra parte, hanno pure sondato ambienti, autori e testi già assai diffusi nell'età di Dante, come quelli dei logici "modisti", ai quali si è già alluso.
Sull'importanza di queste acquisizioni è difficile aver dubbi.
Eppure, anche leggendo studi di alta erudizione e di raffinata capacità esegetica, sorge spesso il sospetto che siano stati "riverberati" sul pensiero filosofico di Dante interessi e preoccupazioni teoriche e ideologiche "attuali", con conseguenze non sempre felici sia per l'interpretazione, sia per la stessa costituzione del testo del Convivio. Perché, non di rado, sono state proposte correzioni e integrazioni che dipendevano dalla lettura delle "fonti" presupposte e miravano a confermare la dipendenza dai maestri o dalle "scuole" predominanti nella cultura tardo-duecentesca. Così, se il Busnelli ha ritenuto ovvio che Dante conoscesse una vastissima "biblioteca" tomistica, comprendente sostanzialmente tutte le opere dell'Aquinate, anche i suoi oppositori gli hanno attribuito letture smisurate e familiarità con i più diversi maestri, anche quando si trattava di passi che ricalcavano i "loci communes" più tipici di tutta la cultura scolastica.
Non basta: la constatazione che il linguaggio filosofico di Dante (sul cui scarso rigore "dottrinale" e terminologico hanno insistito il Nardi e il Foster senza chiedersi quanto esso dipendesse dal nuovo strumento linguistico, ancora privo di un proprio lessico filosofico, e da una scelta meditata del grande "volgarizzatore") si può prestare talvolta a varie letture e può essere interpretato secondo opposte attribuzioni di "scuola", ha favorito la diffusa convinzione di un suo carattere "eclettico". Ma si tratta - a mio parere - di un giudizio piuttosto fuorviante che, mentre occulta il significato centrale dell'esperienza di Dante e la sua indipendenza rispetto a certi canoni storiografici modellati sullo schema delle grandi partizioni scolastiche tradizionali, non permette di comprendere la sua effettiva originalità nei confronti della cultura e delle crisi intellettuali e storiche del suo tempo. Soprattutto, chi lo accoglie non intende che egli non si limitò, davvero, ad assumere dalle maggiori prospettive filosofiche e dottrinali della sua giovinezza quei "blocchi dottrinali" che anche il Gilson[84] ha creduto di poter individuare nell'"eclettismo" dantesco, bensì si misurò con esse, sostenuto dalla personale consapevolezza della ricchezza di una verità sempre da accogliere e interpretare, dell'altissimo valore della "speculatio" umana (la sola attività veramente «divina» nell'uomo, quella che, come aveva scritto lo stesso Alberto, lo rende maggiormente simile al suo Principio) e della necessità di muoversi lungo un itinerario rischioso, tra dubbi, conflitti e alternative esistenziali di cui conosceva il significato decisivo. Lo sviluppo non lineare, ma complesso e, nella sua sostanza, "dialettico" che condiziona la trama strutturale e dottrinale del Convivio, la stessa "imprecisione" della terminologia, insofferente dell'elaborato e sottile linguaggio delle Scuole, e la scelta sempre personale dei Maestri sui quali fonda la sua personale esperienza filosofica non sono affatto - come talvolta è stato detto - la prova di un "dilettantismo" di fondo, contrastante oltre tutto con la grande prova di dominio lessicale e stilistico fornita - come hanno mostrato il Segre e il Vallone - dalla lingua e dalla prosa "costitutive" di quest'opera. Al contrario, tutto ciò rivela che l'atteggiamento filosofico dell'Alighieri fu una ricerca costantemente aperta e mai esaurita completamente sui "materiali" che la cultura alla quale apparteneva aveva elaborato, condotta con una libertà e spregiudicatezza intellettuali esemplari, dietro le quali si coglie però sempre un'idea ben precisa del proprio compito e del fine ultimo al quale questo è rivolto. Perché - si può dire - non v'è tema o momento del suo insegnamento che non sia rivolto al presente ed al futuro, all'umanità sofferente, divisa e "decaduta" con la quale vive e a quel modello di "nobiltà '' e perfezione spirituale che egli vuole indicare, ricorrendo non solo alla Parola dei testi sacri, ma alle lezioni degli antichi e massimi rappresentanti della "sapientia".
Proprio per questo si comprende perché Dante si sia così spesso ispirato alle dottrine di Alberto Magno, il maestro che aveva meglio espresso il proposito di recepire nella cultura cristiana dell'Occidente lo straordinario tesoro del sapere elaborato dal Filosofo, dai suoi seguaci e commentatori antichi e "orientali", dagli scienziati e maestri arabi, interpretandolo alla luce di un'idea della "beatitudo speculativa" assai prossima a quella averroistica; e perché anche di Tommaso d'Aquino usi specialmente due opere come l'Expositio dell'Ethica e la Summa contra Genti/es che appartengono a un momento della sua evoluzione dottrinale non riducibile alla compiuta costruzione della Summa theologica ed alle preoccupazioni che la dominano. Né si dovrà dimenticare che - come s'è detto - negli anni in cui Dante stendeva il Convivio, non esisteva ancora il "tomismo" (fenomeno storico di lunga durata che non può identificarsi con l'opera e l'esperienza personale dell'Aquinate) e che il maestro domenicano era, senza dubbio, ai suoi occhi, uno di quei "peripatetici" che, pur con opinioni e interpretazioni contrastanti, avevano, comunque, mutato radicalmente i metodi e i modelli intellettuali del pensiero tradizionale. A costoro apparteneva anche Sigieri di Brabante, colui che «nel Vico de li Strami, / sillogizzò invidiosi veri», fedele esegeta della "littera Philosophi" e del suo Commentatore per eccellenza.
Senza dubbio, nel momento in cui Dante si accingeva a questa sua fatica filosofica, nella cultura delle Scuole si erano già affermati o stavano affermandosi nuovi maestri, e, con loro, quelle che Bruno Nardi ha chiamato, una volta, le «audacie dei primi modernisti», ossia le dottrine di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Ockham, rimaste sostanzialmente estranee al suo pensiero.[85] Ma ciò non autorizza a considerarlo come un uomo ormai rivolto al passato, fermo alle dottrine dominanti nel tempo della sua giovinezza, estraneo alle più importanti e "rivoluzionarie" novità speculative, ma riscattato dall'eccezionale potenza della sua immaginazione creatrice. Come ha scritto Eugenio Garin,[86] criticando quel giudizio (particolarmente esemplato nel famoso volume crociano)[87] che fa di Dante il «modesto allievo di scolette fratesche ... divulgatore di dottrine comuni e un po' vecchie, proprie di una cultura provinciale», la sua filosofia ha ben altro fine, misura e dignità che non sia l'adesione a una pure illustre disciplina o dottrina di "scuola". Essa mira, infatti, a un rinnovamento profondo e radicale dell'uomo, della sua vita etica, politica, intellettuale e religiosa, della sua dignità di pensiero e di fede, si tratti di indagare la natura e le possibilità del linguaggio umano (e - si noti - di un linguaggio "reale" e parlato, proprio degli uomini della sua terra), di proporre ai "non dotti" un ammaestramento che avesse al suo centro il tema della virtù e di una vera nobiltà da essa generata, o d'indicare la via di una felicità terrena e sovrannaturale che passa attraverso la trasfigurazione dell"'itinerario" umano e un giudizio davvero "universale" sul suo destino e la sua storia.
Dante può così muoversi con tanta libertà attraverso il "reticolo" degli "auctores", rivelando il disegno di raccogliere da ispirazioni molteplici tutte le idee che meglio si addicono alla sua immagine di un'unica "Sapientia", nella quale convergono le dottrine del Filosofo e dei suoi interpreti più fedeli, ma anche le parole divine della Scrittura. È significativo che, pur usando il sapere "enciclopedico" del suo tempo, così fondato sulle dottrine della Physica e degli altri Libri naturales, dell'Organon e della Metaphysica, egli non condivida con i suoi contemporanei l'interesse predominante per i sottili dibattiti di logica e di fisica, bensì si riconosca soprattutto - come s'è detto - nell'Ethica nicomachea, quel libro il cui ritorno in Occidente è stato così spesso considerato dagli storici delle idee etico-politiche come un evento decisivo nella formazione di una nuova "coscienza" dell'"autonomia" dell'uomo. Ma, insieme ad Aristotele, sono pure evocati i massimi maestri del pensiero etico latino, Cicerone, Seneca e il loro lontano seguace Boezio; e con essi quei poeti che, come Virgilio, Lucano e Stazio, sono ritenuti ricchi di altissimi insegnamenti etici e sapienziali, e le loro "fabulae" che celano una verità più efficace e persuasiva di quella affidata al puro linguaggio filosofico dei "magistri".
Anche nel suo richiamarsi agli "antiqui" e nello scegliere la via dell'ammaestramento "poetico", Dante non era affatto fuori della cultura più avanzata del suo tempo, quella che si stava già coagulando, negli stessi anni, in vari ambienti intellettuali italiani, animati da uomini che, per formazione ed interessi, non erano davvero lontani dall'esperienza e dai propositi dell'esule fiorentino. Ma, a questo punto, si apre un discorso assai più complesso che non può essere affrontato nei limiti e nelle linee essenziali di una breve presentazione del Convivio.
10 - L'opera rimase comunque incompiuta e - come si è già anticipato - non ebbe diffusione, almeno nel corso della vita di Dante; anzi, non resta alcuna testimonianza esplicita della sua "pubblicazione" da parte dell'Autore. Il Barbi,[88] riflettendo sull'importanza attribuita dal Poeta a un testo dal quale si attendeva la difesa e la rivendicazione della propria fama, ha, invero, supposto che, «se non trattato per trattato, compiuti almeno i primi quattro che ci rimangono», egli li rendesse di pubblica ragione. Però è un fatto che le prime tracce del Convivio si hanno soltanto nel commento alla Commedia dell'Ottimo e in quello di Pietro Alighieri e, poi, nel ricordo di Giovanni Villani e di Giovanni Boccaccio, mentre la tradizione manoscritta che lo conserva (quarantacinque manoscritti, compresi quelli frammentari) risale o agli ultimi decenni del Trecento, in un periodo, dunque, di rinnovata fortuna di Dante, oppure, per la massima parte, alla prima metà del Quattrocento, o, ancora, in particolare, agli anni tra il 1440 e ilr470, in un altro momento dì ripresa d'interesse per le sue opere, testimoniata anche dai volgarizzamenti della Monarchia (uno dei quali ad opera di Marsilio Ficino) e dal commento landiniano alla Commedia.[89] È, inoltre, da notare che, sebbene i manoscritti siano abbastanza numerosi, lo studio della loro tradizione ha appurato un dato ormai comunemente accettato: la loro comune discendenza da un'unica fonte, una copia molto corrotta per numerosissimi errori e frequenti e gravi lacune. Ne è stato dedotto - non a torto che l'opera abbia avuto «un'iniziale diffusione disordinata e arbitraria», [90] senza alcun intervento o controllo da parte dell'Autore, interrotta e ripresa poi, ma sempre sul fondamento di un esemplare unico che - per ripetere il giudizio del Barbi -[91] si trovava in deplorevoli condizioni per colpa di amanuensi tra i più trascurati e distratti che si possano immaginare. E si è pure ritenuto che all'iniziale "sfortuna" del testo abbiano fortemente contribuito le polemiche insorte intorno alla Monarchia e la condanna comminata a quell'opera dal cardinale Bertrand du Poujet che avrebbe avuto inevitabili riflessi anche nei riguardi dell'altro scritto filosofico di Dante, rimasto forse in uno stato non perfettamente compiuto.[92]
Non è neppure chiara l'area di origine del testo dell'archetipo che il Parodi, guardando a talune "coloriture" dialettali, aveva assegnato ad Arezzo, o, almeno, alla Toscana sud-orientale, ma che studiosi più recenti, come il Folena,[93] ritengono assai difficile definire, sul fondamento di un testo in sostanza inesistente e di cui spesso è arduo stabilire l'esatta lezione. Sicché, anche sotto questo riguardo, si può solo sperare nell'apporto di conoscenze che verranno dalla nuova edizione critica di Franca Ageno di cui si annunzia prossima la stampa.
Nessun dubbio, invece, si può nutrire sulla sede fiorentina della prima diffusione a stampa del Convivio, edito, per la prima volta, nel 1490, da Francesco Bonaccorsi,[94] ricorrendo, com'era costume, ad uno dei manoscritti scelto casualmente. Ma l'editore cercò pure di correggere e di emendare, mediante congetture il più delle volte del tutto arbitrarie. Seguirono poi le ristampe veneziane del Cinquecento, la prima dovuta ai fratelli Nicolini da Sabbio (L'amoroso convivio di Dante, 1521, titolo che forse intendeva legare l'opera dantesca alla notevole fortuna del De amore ficiniano), la seconda a Niccolò Zoppino (L'amoroso convivio di Dante, 1529), la terza a Marchio Sessa (L'amoroso convivio di Dante, I 53 I); edizioni che vanno probabilmente connesse a quegli ambienti intellettuali veneziani nei quali operava Trifone Gabriele, impegnato, sulle orme del Landino, nel commento filosofico e simbolico della Commedia. Tuttavia questa stagione "veneziana" della fortuna del Convivio s'interruppe presto, probabilmente anche per l'influenza del giudizio negativo pronunziato dal Bembo nelle Prose della volgar lingua.
Per quasi due secoli, l'opera filosofica di Dante non ebbe più editori; e si dové attendere la ripresa settecentesca degli interessi e degli studi danteschi, per giungere, nel 1723, a Firenze (presso Gaetano Tartini e Santi Franchi) ad una più corretta edizione, pubblicata da Anton Maria Biscioni nelle Prose di Dante Alighieri e di messer Gio. Boccacci; edizione che fu approntata dal Biscioni sul fondamento non solo delle stampe precedenti, ma anche di un codice da lui posseduto, l'attuale Marciano X it. 26. Il testo da lui fornito fu poi ripubblicato nelle edizioni delle Opere di Dante apparse successivamente per i tipi di Giambattista Pasquali (Venezia 1741-1772 : il Convivio è edito nel 1 tomo, stampato nel '41), di Antonio Zatta (Venezia 1757-1758) e di Giovanni Gatti (nel I tomo, Venezia 1793). L'edizione del Biscioni non migliorò di molto il testo dell'opera, le cui condizioni critiche, oscurità e difficoltà interpretative cominciarono a sollecitare l'attenzione degli studiosi. Così Giovanni Jacopo Dionisi nel secondo (Verona, Merlo, 1786) e, poi, nel quinto (ivi, Carattoni, 1790) volume dei suoi Aneddoti, ebbe a trattare del Convivio, prima nel tracciare il Piano per una nuova edizione di Dante e, quindi, scrivendo dei Nuovi significati e vocaboli nell'opera detta il «Convito». Ma, in realtà, un primo effettivo tentativo di revisione critica del testo, dettato dalle sue particolari preoccupazioni linguistiche e dalla sua decisa reazione "puristica" alla "licenziosità" della prosa settecentesca, fu dovuto a Giulio Perticari. Questi venne annotando con sue correzioni una copia dell'edizione del Pasquali, senza però ricorrere a confronti sui manoscritti, ma mirando piuttosto ad eliminare con proprie congetture le «immondezze» che l'incuria degli editori aveva deposto nell'opera dantesca. I risultati, certo assai discutibili, di questo lavoro furono poi pubblicati nel suo trattato Degli scrittori del Trecento (Bologna, Libr. G. Verdi, 1822). Ma - l'ha notato il Barbi - il Perticari «più giovò con l'esempio», influendo sull'iniziativa dei cosiddetti «Editori Milanesi», ossia di Vincenzo Monti, Gian-Giacomo Trivulzio e Giovanni Antonio Maggi. Costoro, pur operando con metodi filologici molto discutibili, presero a lavorare, soprattutto per merito del Trivulzio, sul fondamento della tradizione manoscritta e della collazione di un discreto numero di codici (undici, tra i quali il migliore era il Barberiniano lat. 4086); e ricorsero, inoltre, all'aiuto di studiosi più competenti, come - secondo quanto è testimoniato dall'epistolario del Monti - Barnaba Oriani, per le materie astronomiche, e Pietro Mazzucchelli, per l'interpretazione delle dottrine filosofiche e teologiche, e la ricerca delle relative "fonti". Il Saggio dei molti e gravi errori trascorsi in tutte le edizioni del Convito di Dante che il Monti pubblicò, nel 1823, a Milano, presso la«Società dei classici italiani», fu il primo risultato di questo lavoro comune; poi, nel '27, apparve, sempre a Milano (per i tipi del Pogliani e con la data del '26) il Convito ridotto a lezione migliore, stampato pure, lo stesso anno e in modo più corretto, a Padova dalla «Tipografia della Minerva». E si trattò realmente di un'edizione che costituiva un momento fondamentale nella fortuna storica ed editoriale di quest'opera e il primo vero avvio ad una considerazione più "critica" del testo. Seguì, quindi, sempre nel '27, una serie di Emendazioni e aggiunte (in appendice all'edizione della Vita Nuova del Trivulzio) pure edita, a pp. 359-60 della stessa stampa del Convivio per i tipi della Minerva, arricchita, inoltre (pp. 361-450), dai Luoghi degli autori citati da Dante nel Convito raccolti dal signor abate D. Pietro Mazzucchelli. L'eliminazione di alcuni errori tra i più evidenti, l'individuazione di varie lacune e il miglior assetto dato al testo non impedirono che emendamenti troppo fantasiosi introducessero nuovi guasti.
Comunque, l'opera degli Editori Milanesi fu la base delle successive edizioni, praticamente sino alla fine del secolo; e fornì anche utili occasioni a nuove proposte critiche e tentativi di ulteriori miglioramenti. Basti ricordare che, già nel '28, Filippo Scolari pubblicava un'Appendice alla edizione del Convito di Dante Allighieri fatta in Padova dalla Tipografia della Minerva nell'anno MDCCC XXVII (Padova, Crescini), e che, tre anni dopo, Fortunato Cavazzoni Pederzini ripubblicava il testo della Minerva, proponendo, tuttavia, nuove correzioni in nota e consigliando, in alcuni luoghi, il ripristino della lettura delle antiche stampe, secondo criteri spesso validi (Il Convito con note critiche e dichiarative, Modena, Tipografia Camerale, 1831). Nel '34, Pietro Fraticelli, iniziando a pubblicare la sua edizione delle Opere minori di Dante (Firenze, Leopoldo Allegrini e Giovanni Mazzoni, 1834-1840), riprodusse, sostanzialmente, nel II volume, il testo degli Editori Milanesi, con l'aggiunta delle note del Cavazzoni Pederzini, prima di tentare una sua nuova edizione, quella apparsa a Firenze, per i tipi del Barbèra, nel 1857 (come terzo volume delle Opere minori di Dante). Per questo scopo egli si servì del codice Riccardiano 1044; ma è stato giustamente osservato dagli editori posteriori e dal Barbi che non intese la natura e le origini delle varianti e integrazioni offerte da quel manoscritto che non erano «lezioni derivate da altri manoscritti», bensì «concieri di un acuto ma spesso poco prudente correttore».
L'edizione de Il Convito emendato, pubblicata a Reggio Emilia, nel 1862 (Tip. G. Davolio), da Matteo Romani ebbe alcuni meriti, per la sua maggiore fedeltà alla tradizione manoscritta; però quest'erudito cedé troppo facilmente alla tentazione di mutare e integrare il testo, valendosi di espressioni e concetti tratti da altre parti dell'opera. Né mutò di molto la situazione del testo il successivo intervento di Giambattista Giuliani (Il Convito reintegrato nel testo con nuovo commento, Firenze, Le Monnier, 1874-1875) che, pur operando controlli e confronti sui codici già noti e notando l'arbitrarietà delle correzioni del Riccardiano 1044, non procedé però con criteri rigorosi e fu spesso troppo audace nelle sue emendazioni e integrazioni.
A giudizio del Barbi, invece, giovò maggiormente «l'opera modesta ma più assennata» di studiosi come Karl Witte, Giuseppe Todeschini, Giovanni Galvani e Pietro Fanfani, impegnati nel riesame delle edizioni, o in nuove proposte di emendazioni e di più prudenti congetture. Del primo egli cita il Saggio di emendazioni al testo dell' amoroso convivio di Dante Alighieri (in «Giornale Arcadico» , t. XXVII, agosto 1825, pp. 204-18) e la Nuova centuria di correzioni al Convito di Dante Allighieri, apparsa a Lipsia (Weigel) nel 1854; del Todeschini loda il «buon senso critico non comune» e ricorda le osservazioni all'edizione del Cavazzoni Pederzini ed alla Centuria del Witte, nonché i vari interventi e discussioni raccolti nel secondo volume degli Scritti su Dante (Vicenza, Burato, 1872); così come non dimentica le Postille al Convito di Dante Alighieri del Galvani [pubblicate nei tomi IV (1841), V (1842) e VII (1843) del «Giornale letterario e scientifico modenese» e, poi, in Opuscoli religiosi letterari e morali, s. 2a, t. VII (1866); VIII (1866); IX (1867) e X ( 1867)] e le critiche alle emendazioni del Perticari e degli Editori Milanesi svolte dal Fanfani (Sopra l'abuso della critica nelle pubblicazioni degli scritti antichi, in Memorie di religione, di morale e di letteratura, Modena, s. 3, t. XIII, 1852, pp. 446-68; le osservazioni relative a Dante si trovano alle pp. 456-63 e furono poi riprodotte, con il titolo Emendazioni di alcuni luoghi del Convivio, in Studi ed osservazioni sopra il testo delle opere di Dante, Firenze, Tip. Cooperativa, 1873, pp. 303-13). La ricostruzione della fortuna testuale del Convivio nel corso dell'Ottocento elaborata dall'illustre filologo prosegue poi riconoscendo i meriti di Edward Moore che, approntando e rivedendo il testo per le varie edizioni di Oxford (dalla prima che risale al 1894 alla quarta del 1924 rivista dal Toynbee), lavorò, in modo sempre più ampio e sistematico, sulla tradizione manoscritta ed operò vasti e proficui confronti con i testi di autori classici e medievali. Tuttavia, anche le edizioni del Moore non furono fondate sullo studio critico della tradizione e, quindi, sulla determinazione delle singole "famiglie" e sull'elaborazione di un sicuro criterio per determinare il valore delle varie testimonianze. Né il suo giudizio è più positivo nei confronti della pubblicazione di taluni "excerpta" del Convivio, ad opera di Francesco Flamini, nel primo volume de Le Opere minori di DANTE ALIGHIERI ad uso delle scuole con annotazioni, vol. I (Livorno, Giusti, 1910), giacché l'utilizzazione del codice Laurenziano XC sup. 134 (che pure apparterrebbe ad una "famiglia" diversa da quella servita per approntare le precedenti edizioni) non fu compiuta con effettiva coscienza filologica del suo valore, così come accadde di fare pure a Giuseppe Lando Passerini, per l'edizione de Le Opere minori di DANTE ALIGHIERI nuovamente annotate (III, Il Convivio, Firenze, Sansoni, 1914).
In realtà - e sembra difficile non condividere, nella sostanza, il giudizio del Barbi -, il primo solido tentativo di approntamento critico del testo si deve a Ernesto Giacomo Parodi che, con l'aiuto di Flaminio Pellegrini, pubblicò, nel 1921, l'edizione del "centenario", a cura della Società Dantesca Italiana e con prefazione dello stesso Barbi. Egli intraprese lo studio sistematico dell'intera tradizione manoscritta allora conosciuta (trentanove codici), confermando quanto avevano già supposto gli Editori Milanesi e cioè come s'è già detto - che essi derivavano tutti da una copia assai scorretta e lacunosa. Cercò pure di stabilire la coloritura dialettale dell'archetipo e provvide a distinguere, nella "filiazione" dei codici, due famiglie (α e ß), la prima delle quali suddivise in due gruppi, a e b. Per il Parodi, il gruppo α sarebbe il fondamento della "volgata", cioè di tutte le edizioni antiche e, poi, ancora del testo degli Editori Milanesi (e delle sue derivazioni), nonché delle edizioni del Moore, pure soggette a «qualche infiltrazione estranea». Ed egli stesso lo assunse come base del proprio lavoro, riconoscendone i principali testimoni nel Barberiniano lat. 4086 (cfr. Il Convivio di Dante Alighieri riprodotto in fototipia dal codice Barberiniano Latino 4086, Città del Vaticano, Bibliotheca Apostolica Vaticana, 1932) e nell'affine Laurenziano Ashburnamiano 842. A questo gruppo appartiene anche il . citato codice Riccardiano 1044 (nel sottogruppo f che è stato la base prima della "volgata") di cui il Parodi confermò la arbitrarietà delle "lezioni", talvolta «non infelici», ma comunque di «mano tarda». Al contrario, ascrisse alla famiglia il Laurenziano XC sup. 134 (già molto usato dal Flamini e dal Passerini), nonché il Vaticano Capponiano 190 e pochi altri codici che avrebbero aggiunto nuove lacune a quelle proprie di α.
Riflettendo su questi dati, nell'Introduzione alla edizione Busnelli e Vandelli (Firenze, Le Monnier, 1934-1937, 19642 , con appendice di aggiornamento, a cura di A. E. Quaglio), il Barbi riconobbe che simili condizioni erano assai sfavorevoli per «una restituzione critica del Convivio, se non nella forma genuina e integrale, almeno in una forma approssimativa e da soddisfare a tutti i bisogni degli studiosi». Il che spiega perché gli editori sopra citati provvedessero a tentare il miglioramento di alcuni luoghi particolari dell'edizione della Società Dantesca, accompagnandolo con un amplissimo commento (opera precipua del Busnelli), certo importante per i riferimenti sistematici alle fonti scritturali, ai testi filosofici e teologici e a taluni importanti "repertori" enciclopedici, ma - s'è detto - sempre dominato dal "dogma" del "tomismo" di Dante sino al punto di supporre che, quasi in ogni caso, egli avesse adoperato commenti e scritti dell'Aquinate. L'impegno di determinare i rapporti tra i vari "gruppi" nei quali era stata suddivisa la tradizione manoscritta ha indotto poi altri studiosi a porre in discussione gli stessi criteri stabiliti dal Parodi. Così, sin dal 1942 (data della pubblicazione del lavoro in estratto) Vincenzo Pernicone sostenne che il sottogruppo f costituisse, in realtà, una terza "famiglia" indipendente, indicata come γ (cfr. Per il testo critico del «Convivio», in «Studi danteschi», xxvm, 1949, pp. 145-82). Mario Casella, in un lavoro del '44 (Per il testo critico del «Convivio» e della «Divina Commedia», in «Studi di filol. it.», VII, I 944, pp. 29-77), intese mostrare che l'archetipo era, con molta probabilità, sano anche in luoghi corretti dagli editori, perché ritenuti guasti. Poi, Maria Simonelli (Contributi al testo critico del «Convivio», in «Studi danteschi», xxx, 1951, pp. 23-127; xxxi, fase. I, 1953, pp. 59-161; XXXII, fase. II, 1954, pp. 5-205) ha mirato a stabilire un nuovo "stemma codicum", a fissare i caratteri delle varie famiglie (specialmente di α) e a discutere i vari interventi editoriali. Senza entrare nei particolari delle sue proposte di nuove classificazioni (per le quali rinvio alla citata Appendice del Quaglia all'edizione Busnelli-Vandelli, pp. 453-7), basterà qui ricordare che la studiosa ha approntato una propria edizione (Bologna, Pàtron, 1966), nella quale ha fortemente rivalutato varie lezioni dell'"archetipo"; e che ha poi affidato le conclusioni della sua ricerca al volume Materiali per una edizione critica del "Convivio" di Dante (Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1970).
D'altro canto, André Pézard (Le "Convivio" de Dante. Sa lettre, son esprit, Paris, Les Belles Lettres, 1940), proponeva alcune soluzioni nuove, spesso assai acute, anche se non sempre convincenti, richiamandosi, soprattutto, alle antiche testimonianze intorno all'opera ed alla sua acuta sensibilità di profondo conoscitore della letteratura e della cultura tardo medievale. In modo precipuo, egli tornava a indagare le origini della diffusione del testo, giungendo alla conclusione che Dante non avrebbe diffuso personalmente la propria opera, e che chiunque se ne fosse assunto l'incarico era spesso caduto in errore, nel trascrivere un testo di difficile lettura, forse incompleto e impreciso nella sua stesura autografa, accumulando errori e incertezze dovuti alla condizione dell"'apografo". Sicché, per il Pézard, non occorreva illudersi di poter pervenire ad una forma perfetta, in realtà mai esistita, né accettare come validi i risultati di una tradizione tarda e lontana che, proprio per questo, si è sovrapposta troppo arbitrariamente ai dati testuali. Sono criteri ai quali lo studioso francese si è attenuto anche nei suoi più recenti lavori (cfr., soprattutto, "La rotta gonna". Gloses et corrections aux textes mineurs de Dante, Firenze, Sansoni-Paris, Didier, I, 1967; e la traduzione francese del Convivio, apparsa nelle Œuvres complètes, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris, Gallimard, 1965), nei quali, invero, il suo impegno di studioso del "linguaggio" di Dante e della cultura alla quale egli apparteneva e la giusta esigenza di una necessaria coerenza paleografica non sempre valgono ad avvalorare proposte avvincenti e suffragate - occorre dirlo - da un'effettiva, solida competenza.
Di tutti questi nuovi sviluppi della discussione sul testo del Convivio, come dei vari interventi di Bruno Nardi (affidati ad una assai ricca produzione, costantemente citata e discussa nel commento) ha reso conto, con grande lucidità e chiarezza, Antonio Enzo Quaglia, nella già citata Appendice alla ristampa del 1964 dell'edizione Busnelli-Vandelli, nella quale sono proposte anche importanti integrazioni al commento, desunte principalmente proprio dagli interventi nardiani. Tale Appendice costituisce, ancora oggi, un'utile e importante aggiornamento ai maggiori problemi relativi alla fortuna critica del Convivio. E gioverà, per avere il punto della situazione nei tardi anni Sessanta, anche la lettura del suo contributo sul Convivio (in Dante minore. Letture introduttive, cit., pp. 45-66), quella del breve ma ricco saggio di Pier Giorgio Ricci (Il Convivio) apparso, nello stesso anno, nel fascicolo di «Cultura e scuolall, IV (1965), nn1 13-14, pp. 698-704, nonché della "voce" Convivio della Simonelli nel II volume dell'ED (1970, pp. 193-204). Ma, per quanto concerne la situazione testuale e i dati filologici ed ecdotici disponibili all'altezza del centenario del 1965 (per i quali è pure da vedere il saggio di A. Rossi, Il quarantesimo codice del «Convivio»: British Museum Add. 41647, in «Studi danteschi ll, xxxvii, 1960, pp. 285-90, con le rettifiche di P. G. RICCI, Quarantatreesimo, non quarantesimo, ivi, XXXVIII, 1961, pp. 345-8, che aggiunge ai codici noti a Busnelli e Vandelli altri cinque manoscritti, divenuti poi sette, con l'acquisizione ulteriore di altri due; e cfr. F. AGENO, Il quarantaquattresimo codice del «Convivio», ivi, XLIII, 1966, pp. 263-4), resta ancora valido il giudizio espresso da Gianfranco Folena (La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in Atti del Congresso internazionale di studi danteschi, cit., 1, pp. 1-78, part. pp. 8-24): «…mentre sono stati individuati con sicurezza, attraverso successive ricerche, famiglie e gruppi di mss., tutti risalenti a un archetipo malconcio e lacunoso che impone interventi congetturali assai frequenti, i rapporti di questi raggruppamenti nei confronti dell'archetipo, decisivi per la costituzione del testo, e i rapporti interni di ciascuno di essi rimangono ancora da precisare in larga misura: l'edificio della tradizione non appare ancora ben disegnato né nei piani alti, sempre di struttura più delicata, né in quelli più bassi; e si dà luogo ad ipotesi piuttosto che a soluzioni sicure». È una situazione, questa, che Franca Ageno, in discussione anche con la Simonelli ed il Pézard, ha mirato a chiarire in vari suoi interventi (ricordo principalmente: Riflessioni sul testo del «Convivio», in «Studi danteschi», XLIV, 1967, pp. 85-114; Nuove proposte per il «Convivio», ivi, XLVIII, 1971, pp. 121-36; Per l'edizione critica del «Convivio», in Atti del Convegno internazionale di studi danteschi, Ravenna, Longo, 1979, pp. 43-78) in vista dell'approntamento di una nuova edizione critica per l'«Edizione nazionale delle opere di Dante Alighieri», curata dalla «Società Dantesca Italiana». I vari interventi proposti dalla studiosa sembrano particolarmente rigorosi e prudenti, fondati su un criterio di delicato restauro, qual è richiesto dalla particolare "storia" di questo testo, così travagliata e difficile. Ed è da sperare che la prossima pubblicazione dell'edizione Ageno, già consegnata alla stampa, contribuisca autorevolmente alla decisiva soluzione dei molti problemi ancora aperti, dopo quasi due secoli di tentativi, discussioni ed indagini sempre rinnovati.[95]
Università di Firenze, ottobre 1987
NOTE
*Per autori e titoli citati in forma abbreviata si veda la Tavola delle abbreviazioni, qui a p. XCVII.
[1] Cfr. pp. 83 e 856.
[2] Cfr. p. 114.
[3] Cfr. p. 845.
[4] Cfr. p. 60.
[5] Cfr. p. 487.
[6] Cfr. BARBI-PERNICONE, ad loc. Ma cfr. anche il commento del CONTINI, in Opp. min., I/I, pp. 462, 383.
[7] Cfr. CoNTINI, ibid., p.404.
[8] Cfr. BARBI, Introduzione, pp. XLI-XLVIII.
[9] Cfr. BARBI , Introduzione, particolarmente pp. XVI-XIX.
[10] Cfr. BARBI , ibid ., p. XIX.
[11] Cfr. l'Introduzione di P. V. MENGALDO al De vulgari eloquentia , in Opp. min., n, p. 3.
[12] Cfr. p. 34.
[13] Cfr. G. PETROCCHI, Vita di Dante, Roma-Bari, Laterza, 19862, pp. 102-3.
[14] Cfr. CORTI, Felicità mentale, pp. 142-4.
[15] Rinvio, a questo proposito, a ED, Appendice : I. BALDELLI, Lingua e stile. VI. La prosa del «Convivio», pp. 88-93. Ma, tra i lavori particolari, si dovrà vedere principalmente C. SEGRE, Il "Convivio" di Dante Alighieri, in Io., Lingua, stile e società, Milano, Feltrinelli, 1963, ed. ampliata, ibid. 1974, 19762. Importanti analisi anche in B. TERRACINI, La forma interna del «Convivio» e Il lessico del «Convivio"· Creazione lessicale e neologismo, in Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 273-8; 279-93, e in A. VALLONE, La prosa del "Convivio", Firenze, Le Monnier, 1967; P. V. MENGALDO, Linguistica e retorica di Dante, Pisa, Nistri-Lischi, 1978.
[16] Cfr. M. SIMONELLI, Convivio, in ED, n, part. p. 194; ma vedi anche le acute considerazioni della CORTI, Felicità mentale, pp. 123-5.
[17] Cfr. D. DE ROBERTIS, Introduzione alla Vita Nuova, in Opp. min., I/I, p. 18.
[18] Cfr., a questo proposito, SEGRE, Lingua, stile e società, cit. (1976), part. p. 257.
[19] Cfr. CORTI, Felicità mentale, part. pp. 124-5.
[20] Per taluni aspetti del rapporto tra Dante e il suo "uditorio" cfr. le considerazioni generali di L. M. BATKIN, Dante e la società italiana del '300, Bari, De Donato, 1970, e CH. T. DAvrs, Dante's Italy and Other Essays, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1984.
[21] La discussione di questo difficile problema è stata compiutamente affrontata da FOSTER-BOYDE, pp. 341-62; e, riassumendo e schematizzando la loro ampia argomentazione, basterà dire che, attraverso l'analisi di passi di II, ii e xii, essi rilevano come la Canzone concluda un «conflitto mentale» sorto qualche tempo dopo il completamento di due rivoluzioni di Venere, avvenute dopo la morte di Beatrice (giugno 1290) e, cioè, nell'agosto del 1293; ma Dante parla di un periodo di trenta mesi, dedicato allo studio della Filosofia, dopo che questa gli era apparsa nella figura di una donna nobile e «consolatrice», in capo al quale l'amore per essa vinse ogni altro pensiero ed egli iniziò a scrivere la Canzone. Sicché questo testo poetico dovrebbe essere stato composto intorno al febbraio del '96, data altamente improbabile, perché non solo imporrebbe di spostare a dopo quella data una serie di composizioni poetiche che la Canzone evidentemente precede, ma contrasta con quanto è detto in Par., VIII, 34 sgg. ove Voi che 'ntendendo è citata in evidente riferimento al soggiorno a Firenze di Carlo Martello (marzo I294), circostanza che indurrebbe a datarla tra la fine del '93 e la primavera del '94. Il Foster e il Boyde discutono la proposta di S. Santangelo (Saggi danteschi, Padova, CEDAM, 1959, pp. 42 sgg.) che, rilevando un errato calcolo del tempo della rivoluzione di Venere presente ne Il dottrinale di Jacopo Alighieri, suppose che anche Dante fosse caduto nello stesso errore, eliminando così l'evidente difficoltà cronologica; essi trovano questa ipotesi «ingegnosa» e, tuttavia, non molto plausibile. Non è possibile qui seguire i due studiosi nella loro analisi comparata di II, ii e xii e, quindi, nello sviluppo della loro argomentazione che li conduce ad affrontare il problema centrale del rapporto tra Vita Nuova e Convivio e la dibattuta questione della «donna gentile» (e cfr. oltre, pp. LIII sgg.). Mi sembra però del tutto convincente la loro conclusione che, mentre tende a confermare la datazione della Canzone al '93-'94, sottolinea la diversità dell'atteggiamento mentale e spirituale di Dante nelle due opere e ritiene, però, del «tutto accettabile» la sua narrazione della propria «conversione» alla filosofia anche se lascia aperte difficoltà cronologiche dipendenti dalla ripresa della «vicenda» della Vita Nuova in una differente prospettiva e sotto il segno di nuove esperienze e ispirazioni filosofiche, etiche e politiche.
[22] Oltre alla bibliografia proposta nel commento (pp. 110 sgg.) sarà pure da vedere PH. DAMON, The Two Modes of Allegory in Dante's 'Convivio', in «Philological Quarterly», XL (196I), pp. 144-9.
[23] Cfr. NARDI, Saggi, pp. 167-214; ma si veda anche ÉT. GILSON, A la recherche de l' Empyrée, in «Revue des études italiennes , XI (1965), pp. 147-61.
[24] Cfr. PETROCCHI, Vita di Dante, cit., pp. 31-3.
[25] Cfr., a questo proposito, E. GUIDUBALDI, Bartolomeo da Bologna, in ED, I, pp. 526-7, con i riferimenti ai lavori dello Olschki e del Piana.
[26] Cfr. M. CORTI, Dante a un nuovo crocevia, Firenze, Sansoni, 1981.
[27] Per il Nardi, cfr. le indicazioni fornite nel commento, pp. 211, 262 sgg.; della Corti si veda Felicità mentale, pp. 72 sgg. Ma, per il particolare carattere e l'"ambiguità" della figurazione allegorica della "Filosofia-Sapienza", cfr. anche quanto scrive CH. SINGLETON, Journey to Beatrice, Cambridge [Mass.], Harvard U. P., 1958, cap. VIII .
[28] Mi permetto di aggiungere anche il riferimento al mio saggio Dante e l' immagine enciclopedica del mondo nel Convivio, in "Imago Mundi": la conoscenza scientifica nel pensiero bassomedioevale. Convegni del Centro di studi sulla spiritualità medievale. 11-14 ottobre 1981, Todi, Accademia Tudertina, 1983, pp. 37-73.
[29] Rinvio, anche per questa ballata, al già cit. commento del CONTINI, p. 380.
[30] Cfr. il commento, pp. 530-1.
[31] Cfr. il commento, pp. 696-7; ed ivi i riferimenti specifici alle indicazioni fornite dalla CORTI, Le fonti ...
[32] Cfr. il commento, pp. 756-8.
[33] Cfr. DE ROBERTIS, Introduzione alla Vita Nuova, cit., p. 17.
[34] Una lucida messa a punto della quistione è fornita da G. PETROCCHI, Donna gentile, in ED, II, pp. 574-7, che presenta anche una ricca raccolta d'indicazioni bibliografiche.
[35] Cfr. il commento a pp. 268-9.
[36] Cfr. BARBI, Introduzione, pp. XXII-XXXI, che riassume e conferma le tesi proposte anche in altri studi particolari.
[37] Cfr. ÉT. GILSON, Dante et la philosophie, Paris, Vrin, 1953 2, pp. 90 sgg.
[38] Cfr. DE ROBERTIS, Introduzione, cit., pp. 9 sgg. e, particolarmente, il commento, pp. 217 sg. Ma vedi anche Io., Il libro della «Vita Nuova», e il libro del «Convivio» in «Studi Urbinati», xxv, N.S.B, 2 (1951), pp. 9-27; Id., Il libro della Vita Nuova, pp. 171-3.
[39] Cfr. CORTI, Felicità mentale, p. 147.
[40] Cfr. BARBI-PERNICONE, p. 413.
[41] Cfr. L. PIETROBONO, Il rifacimento della " Vita Nuova» e le due fasi del pensiero dantesco, in «Giornale dantesco», xxxv, N. S., v (1932), pp. 3-82, poi in ID., Saggi danteschi, Torino, SEI, 1954, pp. 25-98; ID., Filosofia e Teologia nel Convivio e nella Commedia, in Nuovi saggi danteschi, Torino, SEI, [1954], pp. 69-122.
[42] Cfr. NARDI, Dante e la cultura medievale, p. 47; ID., Nel mondo di Dante , pp. 21-40; ID., Dal Convivio alla Commedia, pp. 1-6. Ma la sua più diretta reazione è fornita dal saggio S'ha da credere a Dante o ai suoi critici?, in «Cultura neolatina»,» (1942), pp. 327-33. Alla polemica prese parte, indirettamente, anche G. Busnelli (cfr. Le contradizioni tra la «Vita Nuova» e il «Convivio» intorno alla Donna gentile, in «La Civiltà cattolica», 20 gennaio I934, a. Lxxxv, vol. I, pp. I47-S3) che accettò una soluzione non lontana da quella del Barbi.
[43] Cfr. CORTI, Felicità mentale, pp. 148-50.
[44] Ibid., p. 150.
[45] Cfr. M. MARTI, Vita e morte della presunta doppia redazione della «Vita Nuova» in Studi in onore di Alfredo Schiaffini, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1965 ( = «Rivista di cultura classica e medioevale», a. VII, nn.' 1-3), pp. 657-69.
[46] Cfr. A. E. QuAGLIO, Convivio, in AA.VV., Dante minore. Letture introduttive, Firenze, Sansoni-Città di Vita, 1965, pp. 45-66, part. pp. 57-9 (= «Città di Vita», xx, 1965, pp. 361-82).
[47] Cfr. CORTI, Felicità mentale, pp. 146-55.
[48] Cfr. QUAGLIO, Convivio, cit., p. 47.
[49] Cfr. MENGALDO, Introduzione al De vulgari eloquentia, cit., pp. 10 sgg.; ma saranno da vedere anche i frequenti riferimenti del commento, passim.
[50] Cfr., in particolare, B. NARDI, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, pp. 56 sgg.
[51] Cfr. GILSON, Dante et la philosophie, cit., part. pp. 163 sgg.
[52] Cfr. SIMONELLI, Convivio, in ED, cit., p. 201.
[53] Cfr. PETROCCHI, Vita di Dante, cit., p. 107.
[54] Cfr., a questo proposito, F. MAZZONI, Latini, Brunetto, in ED, 111, pp. 579-88, che chiarisce magistralmente il carattere di questa indiscutibile influenza. Ma vedi anche DAVIS, op. cit., pp. 166-97.
[55] Cfr. RESTORO d'AREZZO, La composizione del mondo colle sue casciani. Edizione critica a cura di A. Morino, Firenze, Accademia della Crusca, 1976.
[56] La difficoltà d'individuare, volta per volta, i testi realmente presenti a Dante nel tempo e nel momento in cui scriveva il Convivio spiega perché i confronti suggeriti dal commento non siano indicazioni di "fonti" certe (esclusi taluni casi assai chiari), ma piuttosto di "autori" e "tradizioni" ai quali egli mostra spesso di richiamarsi.
[57] Cfr. MOORE, Studies,1, pp. 98-108.
[58] Cfr. le considerazioni della CORTI, Felicità mentale, pp. 96 sgg. ; e vedi C. MARCHESI, L'Etica Nicomachea nella tradizione latina medievale, Messina, Trimarchi, 1904. Come il lettore vedrà, insieme al testo latino dell'Ethica, si è dato quasi sempre anche quello del relativo commento tomista; e ciò, sia perché si tratta di un'opera esplicitamente citata da Dante, sia perché esso può giovare a lettori non necessariamente specializzati come chiara esplicazione e "parafrasi".
[59] Cfr., in particolare, NARDI, Saggi, pp. 81-109; lo., Dal Convivio alla Commedia, pp. 283-5; A. MELLONE, De Causis , in ED, II, pp. 327-9.
[60] Cfr. M. CRISTIANI, Dionigi l'Areopagita (Pseudo), in ED, II, pp. 460-2.
[61] Cfr. pp. 222-3.
[62] Cfr. pp. 249-50.
[63] Cfr. pp. 216, 250, 455-6 e 753-4.
[64] Cfr., a questo proposito, C. VASOLI, Alano di Lilla, in ED, I, pp. 89-91.
[65] Cfr., in particolare, l'Introduzione del CONTINI a Il Fiore, in Opp. min., I/ I, pp. 555-63 e il relativo commento.
[66] Per le citazioni dantesche della Summa contra Gentiles, cfr. pp. 704 e 883.
[67] Cfr. la nota a p. XLVI.
[68] Cfr., particolarmente, NARDI, Saggi, pp. 359-64. Cfr. la nota 2 a p. XXVI.
[69] Cfr. E. BETTONI, anima, in ED, I, pp. 278-85, part. p. 282.
[70] Cfr. O. CAPITANI, Girolami, Remigio dei, in ED, m, pp. 208-9.
[71] Cfr. O. CAPITANI, Girolami, Remigio dei, in ED, m, pp. 208-9.
[72] Cfr. M. MIGLIO, Alfragano, in ED, I, pp. 122-3.
[73] Cfr. M. MIGLIO, Albumasar, in ED, I, pp. 109-10.
[74] Cfr. E. VOLPINI, Tolomeo, in ED, v, pp. 620-1.
[75] Cfr. pp. 798 sgg
[76] Cfr. A. PARRONCHI, Perspettiva, in ED, IV, pp. 438-9.
[77] Cfr. la nota 1 a p. XXVI.
[78] Mi permetto di rinviare al mio studio La Bibbia nel «Convivio»e nella «Monarchia»,. in AA. VV., Dante e la Bibbia, a cura di G. Barbian, Firenze, Olschki, 1988, pp. 19-39.
[79] Cfr. le osservazioni di G. C. MEERSSEMAN, Dante come teologo, in Atti del Congresso internazionale di studi danteschi (Firenze, 20-27 aprile 1965), Firenze, Sansoni, I, 1965, pp. 177-95.
[80] Ma si veda, intanto, F. CANCELLI, diritto romano in Dante, in ED, II, pp. 472-9.
[81] Cfr., a questo proposito, le considerazioni del GJLSON, Dante et la philosophie, cit., part. pp. 4 sgg.
[82] Ibid., pp. 3 sgg., 14-48.
[83] Cfr. BUSNELLI E VANDELLI in Tavola delle abbreviazioni, p. XCVIII.
[84] Cfr. GILSON, Dante et la philosophie, cit., pp. 87 sgg.
[85] Cfr., in particolare, NARDI, Saggi e note di critica dantesca, cit., p. 99-100.
[86] Cfr. E. GARIN, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 51-70.
[87] Cfr. B. CROCE, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921.
[88] Cfr. BARBI, Introduzione, p. LVII. Per la ricostruzione della fortuna del testo del Convivio utilizzo soprattutto le indicazioni offerte dal BARBI, ibid., pp. LVII sgg.
[89] Cfr., a questo proposito, E. GARIN, L'età nuova. Ricerche di storia della cultura dal XII al XVI secolo, Napoli, Morano, 1969, pp. 205 sgg.; per il Landino sarà da vedere, principalmente, R. CARDINI, La critica del Landino, Firenze, Sansoni, 1973.
[90] Cfr. SI MONELLI, Convivio, in ED, cit., p. 203.
[91] Cfr. BARBI, Introduzione, p. LXVI.
[92] Cfr. SIMONELLI, Convivio, in ED, cit., p. 204.
[93] Cfr. p. LXXXVIII.
[94] CONVIVIO DI DANTE ALIGHIERI Il FIORENTINO Il ...Impresso in Firenze per ser Francesco bonaccorsi Nell’anno millequattrocento cinquanta Adi .xx. di septembre. (E cfr. Gesamtkatalog der Wiegendrucke, VII, Leipzig, K. W. Hiersemann, 1938, col. 271, n.° 7973).
[95] Tra le diverse ristampe del testo del 1921 (nella seconda edizione del 1960), andrà particolarmente considerata la seguente: DANTE ALIGHIERI, Convivio, Alpignano, Nella stamperia di Alberto Tallone, 1965, con una ricca e importante Nota introduttiva di FRANCESCO MAZZONI. Per altre edizioni, cfr. ED, Appendice, pp. 530-1.